I racconti della Napoli che è «in noi» (2)
Come ho già detto più volte, è davvero difficile parlare di un carattere napoletano se prima non lo si è osservato molto da vicino; e cioè come si presenta obiettivamente. Ed ho già anche detto che la professione da me svolta mi ha offerto la preziosa possibilità di fare proprio questo. Ebbene nulla più che l’osservazione da vicino pone al cospetto di un’evidenza che a Napoli è ben più innegabile che in qualunque altro luogo almeno d’Europa, ossia la più totale e irreversibile tragedia esistenziale. Tutto a Napoli ne impone le forme, dietro le così fragili e fatue mere apparenze tranquillizzanti. Tutto la suggerisce e raffigura continuamente. Ossessivamente. E del resto (come perfettamente intuito dalla Ortese) tale evidenza sta continuamente dietro l’angolo. Sempre pronta a sorprenderci, a sgomentarci, e talvolta perfino a pugnalarci alle spalle. Dunque bisogna essere davvero ciechi non solo per non vederla ma anche per giudicarla severamente come pur si deve. Inoltre però, nello stesso tempo, è davvero impossibile per non provare nei suoi confronti anche una compassione che sempre prepotentemente tende a sfociare in un amore tanto accorato quanto devastante. È esattamente quell’amore grondante di dolore, che un genitore prova per un figlio contro il quale si accanisca ostinatamente il destino.
Ebbene io ho visto con i miei occhi tutto questo. E l’ho visto in quei retrobottega della città, nei quali secondo me la sua essenza tragica più pregnantemente si rende evidente. Ho visto vite condannate e recise fin dal loro nascere. Ho visto esistenze delle quali era in partenza prevedibile la desolazione inesorabile, fin nei loro più minimi dettagli e fino al loro ultimo respiro. Ho visto anime incatenate alla determinazione dei luoghi nel modo più ferreo, indifferente e spietato che si possa mai immaginare. Ho visto predestinate cecità inconsapevoli che si ponevano addirittura come unica via di salvezza; e così quasi innocentemente scivolavano degradando verso una sguaiata scelleratezza però costantemente piena di uno straordinario candore puerile. Dev’essere esattamente questo che s’intende quando si parla (fin troppo superficialmente ed irresponsabilmente) della persistente «umanità» del popolo napoletano. Infatti quanta bruttura condisce questa così fragile e ambigua bellezza! E quanto indifferente cinismo occorre per non riconoscerla dietro le apparenze, dandosi così per soddisfatti appena con le mere e superficiali apparenze! Ed allora – nonostante la relativizzazione di storia e sociologia che pure a noi si impone – sarebbe proprio riprovevole non ammettere il fatto che il Gran Lazzaro, che nella sua ostinata invariabilità è davvero paradigma indiscusso del volgo riottoso, è in qualche modo anche di certo una vittima di circostanze (storiche e sociologiche) estremamente tragiche. E tuttavia, così come l’osservazione diretta insegna la compassione, allo stesso tempo essa deve insegnare anche un sobrio disincanto. Sì è vero, la miseria ha qui compiuto la sua riprovevolissima opera. Ma il frutto di quest’ultima non sarebbe mai stato lo stesso se essa intanto non avesse interagito chimico-fisicamente con l’Essenza. Bisogna allora sapere e dire che proprio nel Gran Lazzaro questa miseria si è ormai da molto tempo trasformata in qualcos'altro, in qualcosa che è estremamente diverso da ciò che mediamente produce la miseria. E questo qualcosa è davvero raccapricciante. Lo dimostrano in modo infallibile per diverse successive prese fotografiche che si potrebbe immaginare di ottenere sorvolando la città seguendo la linea del tempo. Si potrebbe così vedere come sempre più l’Essenza va assumendo nel corso del tempo forme mostruose che però venivano esattamente anticipate da ciò che le precedeva. E così poco a poco – per fare solo un esempio tra quelli più negativamente suggestivi – l’antico guappo si è trasformato nelle belve demoniache assetate di sangue che popolano nello stesso tempo le diverse «periferie» urbane (incluse quelle intra-cittadine) e i set di serie filmiche come Gomorra. Ed io personalmente ho vissuto e lavorato a stretto contatto con tutto questo. La progressività mostrificante che ho così constatato è stata quella rappresentata dalla trasformazione dello scugnizzo in un bullo demoniaco e davvero capace di qualunque efferatezza e infamia. Ho visto per la verità tutto questo ben prima che accadesse. E non pochi sono stati gli allarmi che ho lanciato. Ma nulla è accaduto. E le cronache ora mi danno amaramente ragione. Sinceramente, avrei preferito molto più avere torto. Ed ecco dunque in quale «qualcosa» si è trasformata l’atavica miseria a contatto con l’Essenza. In una stolidità ottusa ed ignorante, cenere di un fuoco spento in cui non c'è più nemmeno l'innocenza della sofferenza, ma ormai già l'oscurità pesante ed oscura della vendetta e della cieca ferocia. Nell’insieme, insomma, qualcosa di animalesco, tenebroso ed odioso. Ma è in verità solo il profondo di sempre, l’antico che mai muore, la cupa lava ribollente nelle profondità. Questo è ciò che traluce, ed oggi più che mai ferisce a morte come un coltello gelido, affilato ed avvelenato. E guardiamolo allora ciò che solo l’osservazione da vicino ci permette di vedere. Guardiamo in faccia quel Gran Lazzaro che solo da molto vicino noi potremo davvero comprendere. Non più affinati dal dolore, sono i volti di questi uomini e di queste donne. Essi sono invece già resi gonfi e lucidi dal godimento dei frutti della sopraffazione, alla quale intanto essi si sono dati per rabbia vendetta e per disperato desiderio di riscatto. E questa sopraffazione ormai esercitata è a sua volta la reazione ad un dolore ormai divenuto riflesso, in quanto ormai occultato e perfino dimenticato. Essa è quindi ormai solo ottusa cecità distruttiva, per nulla innocente. Ma a ciò, per capire, bisogna aggiungere ancora altro. Perché bisogna considerare il fatto rilevantissimo che tutto questo processo si è compiuto alla presenza di una delle più grandi piaghe dell’umanità, ossia quell’«ignoranza» che non a caso Platone1 deplorava come il male stesso che viene comportato dal terribile destino riservato ad un’anima costretta a vivere in un corpo. E non parlo affatto dell’ignoranza invariabilmente derivante dalla deprivazione del sapere a causa dello svantaggio sociale di cui si è stati vittima, ma parlo invece di un’ignoranza ancora più radicale; che è connaturata all’essere uomini, e come tali accecati dall’occultamento della Luce intellettiva entro l’esperienza del corpo. Fatto sta che, effettivamente, il Gran Lazzaro è crudele proprio perché è fondamentalmente stupido (per quanto anche diabolicamente scaltro); ossia perché il percorso che lo ha portato alla vendetta si è compiuto alla presenza decisiva della sua stupidità. Ma tutto questo assume in una realtà storica come quella di Napoli una connotazione molto singolare. Infatti anche l’essere stupido a Napoli è specifico, perché dipende dall'adesione cieca al copione secondo il quale (come abbiamo già visto) tutto deve essere sempre uguale. E ciò fa sì, allora, che l'individuo sia appena l’insignificante comparsa sul palcoscenico di una tragi-commedia dall’ampiezza ben più che storica (e quindi metafisica), il cui copione è rigidissimo, e pertanto è ferreamente invariabile. Ed è esattamente che così che a Napoli la Natura viene costantemente divelta dalla Cultura. La stupidità che era presente alla corruzione dell’anima del Gran Lazzaro era pertanto proprio quella prevista dal copione. Orbene il depositario del copione non può che essere il possessore e custode stesso dell’Essenza, il Vulcano, il Padre e Madre. L’Oscuro Signore stesso, allora, è anche, per definizione, il Principe degli stupidi. È infatti in forza del dono malefico di questa abissale stupidità, che costoro (suoi figli e adepti della sua mostruosa religione), come serpenti velenosi si rivoltano punti sul vivo contro la denuncia della loro scaltrezza ed insidiosa doppiezza, e della loro sconcezza finalmente smascherata. Ed è proprio allora che essi richiamano sul proprio volto il ghigno feroce del malfattore che ha ormai l'innocente in suo potere; dimentico com’è di ogni pietà, di ogni lealtà, e di ogni onore. Perché egli non li conosce. E se pure li conoscesse, li spregerebbe come “fessaggine”. L'identificazione serpentina dello scaltro è peraltro un concetto genuinamente metafisico. Leo Strauss2 lo descrive come la “malignità congenita” scaturita dalla sapienza inferiore che è poi il fatale frutto della Caduta. Malignità invariabilmente ignorante, allora; e quindi tanto più stupida quanto più essa è ciecamente proterva. Cosa, se non questo, è dunque quella così mitizzata saggezza partenopea, una delle cui forme espressive (non a caso intesa come acuta intelligenza) consiste esattamente nella bassa insinuazione con la quale, colpo su colpo – cioè male contro male –, il Napoletano svergogna l’atto nobile di chi lo redarguisce. Lo fa, per la precisione, pretendendo di smascherare in questo benintenzionato quella bassezza che egli conosce così bene, e che pratica alla perfezione. Non a caso è esattamente con questo spirito che i neo-borbonici più perdutamente lazzari rispondono colpo su colpo alle argomentazioni di chi vorrebbe ricondurli ad una sana ragionevolezza. Ebbene, questa non è saggezza. È semmai “dietrologia” maligna, velenosa e cinica. Del resto è stato esattamente con questo spirito che il Serpente insinuò nella mente dell’uomo che la natura della proibizione divina sarebbe stata maligna ed usurpatrice dei suoi naturali diritti. Non deve essere stato dunque un caso che a me stesso sia capitato di sentirmi dire da un Napoletano purosangue che esistono delle regole che si ha non solo il diritto ma anche il dovere di non rispettare. È serpentina e demoniaca, quindi, la proterva e indomabile decisione dei Napoletani di darsi costantemente alla ribellione ed all'illegalità. Ma nello stesso tempo è evidente che si stratta della stupidità sempre congiurante con la malignità contro la limpida e rigorosa chiarezza della coscienza. Ed ancora una volta nulla meglio che metafisica descrive questa tendenza dell’intelligenza umana a ritirarsi dalla sua autentica dignità e natura. La Bhagavadgītā,3 infatti, ci mostra in tutto questo il prevalere del principio “tamasico” sugli altri due,“sattva” e “rajas”. Laddove il “tamas” contraddistingue poi tutto ciò che non solo non è puro e disinteressato “sattva”, ma è anche ben meno che appassionato o passionale e perfino avido, “rajas”. Esso incarna quindi tutto ciò che è cieco, sconsiderato, inconsapevole di cause e conseguenze, irresponsabile, “volgare, irrigidito nell'orgoglio, perfido, disonesto, indolente...”. Con esso non si tratta più della consapevolezza superiore e libera del dovere, “sattva”, e nemmeno di quella sottomessa alla morale intesa come vincolo irrazionale, “rajas”,– morale nel senso di “ciò che è lecito e ciò che non è lecito”. Essa invece configura la totale inconsapevolezza sia di ciò che va fatto sia di ciò che non va fatto. E ciò ha l'inevitabile conseguenza della passione per l'illecito, il quale verrà così stimato proprio come un valore in sé. Non vi è dubbio circa il fatto che tutto ciò caratterizza alla perfezione il Napoletano-tipo deteriore, ossia il Gran Lazzaro. Insomma siamo di fronte ad una forma di incoscienza che è una sostanziale torbidità mentale ed animica, ovvero una non trasparenza della coscienza ai propri oggetti; sostituiti come sono in inconsistente oggetti rituali, già pensati dalla tradizione, e già da quest'ultima collegati a comportamenti pre-confezionati e pre-determinati.
È vero, il Gran Lazzaro è un miserabile, uno straccione, un denutrito, un appestato, un malato cronico nel corpo e nell’anima. E lo è come lo sono tutti i diseredati del mondo. Ma non solo! È anche il feroce cannibale ed abbrustolitore di cadaveri che puntualmente a Napoli viene a galla in quei rigurgiti della storia nei quali la marea della Civiltà per un po’ si ritira, lasciando così allo scoperto il putrido e fetido bagnasciuga della Natura. Dunque la sua non è solo rabbia da fame, malattia, oppressione e frustrazione. E la sua violenza, quindi, non è solo giustificata da tutto questo. No! Essa è invece in primo luogo gratuita. E lo è perché in primo luogo è scelta, è voluta; sebbene solo ciecamente. Ed è tale in quanto è espressione della ben precisa identità – quella di cui il Gran Lazzaro è orgoglioso, e che quindi non cederebbe per nulla al mondo –, che proprio in tal modo vuole esprimersi nei suoi ciechi organi effettori. È l’anima del lazzaro, la cui essenza è un concentrato impressionante di vizi – ferocia, doppiezza, subdola perfidia, maligna riserva interiore mai spenta e doma, stolido pregiudizio, avidità insaziabile, spietata indifferenza, totale egocentrismo, assoluto opportunismo, totale assenza di scrupoli, assoluta infamia, cupa vendicatività, sanguinarietà, feroce odio. Tutti questi vizi sono però l’espressione di una sola e centrale (appunto essenziale) dis-virtù, e cioè l’orgoglio auto-consapevole ed auto-referenziale. E quest’ultimo non consiste in null’altro se non nella consapevolezza di appartenere (intimamente e per sempre) alla carne dell’Oscuro Signore. E ciò avviene esattamente come quando (nel mito greco)4 il genere umano veniva riconosciuto appartenere intimamente (ma in modo infame) alla fuliggine residuata al fulmine con il quale Zeus aveva incenerito i Titani per avere bollito e divorato suo figlio Dioniso. Ecco, dunque, in quale modo negativo un remotissimo passato (addirittura cosmogonico) si perpetua nella nostra carne e nel nostro sangue. Ecco che allora quella del Gran Lazzaro è un’infinita arroganza che si nutre della propria bassezza, invece di venirne smentita. Essa dunque fa del vizio virtù. E così di ciò che dovrebbe essere senso di inferiorità che implora perdono e riscatto, fa la consapevolezza di un'infinita e sprezzante superiorità su tutto e su tutti.
Ma infine – e qui veniamo al punto nodale della valenza politico-civile delle forme evidenziate dalle cronache –, il fatto che tutto ciò sia largamente indipendente dalle circostanze, e quindi dalla condizione sociale, è mostrato chiaramente da quanto abbiamo già visto. È cioè dimostrato dal fatto che questi vizi allignano (anche se più o meno) in tutti noi Napoletani. In quanto vizi essenziali (ossia dell’anima), essi sono dunque in definitiva anche basici e medi. Per cui anche quando noi non abbiamo davanti il Gran Lazzaro in persona (ossia nel pieno del suo barocco fulgore), anche quando noi non ci troviamo davanti ad affreschi grandiosi e tragici come quello della Peste di Micco Spadaro, noi possiamo costatare quotidianamente il grassare diffuso e incondizionato proprio di questi vizi. Ecco allora che, quando staremo in fila davanti ad uno sportello, vedremo la coda poco a poco infoltirsi ed ingrossarsi sempre più, fino a trasformarsi in un’incontrollabile sostanza magmatica e ameboide che si dimena e preme nel proprio irrefrenabile desiderio di estroflettersi in mille avidi pseudopodi. E così, mentre camminiamo su un marciapiedi vedremo autentiche meteore umane rovesciarsi fuori da una bottega e sbarrarci la strada con davvero maligna soddisfazione. Oppure vedremo il crocchio dei conversanti che ci precede fermarsi di colpo come un pachiderma formando così una barriera insormontabile. E così vedremo fiumi di auto riversarsi su quelle corsie preferenziali che dovrebbero essere invece lasciate libere per i mezzi di soccorso che proprio noi tutti, noi stessi (io e te), dovrebbero soccorrere. E così vedremo quell’automobilista procedere in senso contrario e vietato verso di noi, e poi scendere dal suo veicolo inferocito perché abbiamo avuto l’ardire di non lasciarlo passare. E naturalmente assisteremo all’indignazione incontenibile (condita di gestacci e minacce) di tutti costoro allorquando si farà loro notare quello che hanno appena fatto. E se non ti ingiuria, allora da Gran Lazzaro che era, solo un attimo prima, costui si trasforma di colpo in un impeccabile “gentlemen”. E così, con i “per carità” per mezzo dei quali ora egli ti gratifica di un’improvvisa ed illimitata liberalità, ti farà capire che l’infame sei tu. Non lui! Ebbene, quali leggi governano questi fenomeni? Una sola, e precisamente quella che sgorga direttamente dall’orgoglio arrogante che abbiamo appena costatato come Essenza. È la legge governante quelle forze soverchianti che, entrando in concorrenza l’una con l’altra, moltiplicano le loro direttrici un una proliferazione frenetica sempre più iperbolica; e la cui unica motivazione è quella del superamento, dello scavalcamento ed accavallamento, dello spianare ostacoli per poter a qualunque costo avanzare e primeggiare. Si tratta di null’altro che di quella legge che governa le folle nel loro coagularsi in un unico essere animale (Canetti).5 Ed è esattamente questa coazione ad essere e ad agire, ciò che governa le folle napoletane. Essa, dunque, entra in azione non appena esse si costituiscono anche solo in germe. Allora, non appena si sarà ricostituito lo scenario potenziale infallibilmente previsto dal “codice” (e che mette in moto immediatamente il relativo istinto), sarà come se una corrente velocissima percorra l’intera massa, attivando così in ognuno dei suoi componenti ciò che è solo sopito, ma ora immediatamente si risveglierà ponendo in atto un unico e solo comportamento. È per la precisione quel comportamento che ogni Napoletano conosce come l’unico che sia davvero all’altezza della dignità della sua natura, ossia quello che permette di prevalere e trionfare a qualunque costo. Siamo insomma di nuovo di fronte a né più né meno che al ben noto «’cca nisciuno è fesso!». E dunque non prenderne atto può essere solo colpevole. Non a caso i Napoletani davvero sanamente auto-consapevoli (che poi non sono affatto pochi) non lo fanno. Che essi siano gente comune o intellettuali. Il Croce (Galasso)6 infatti ci informa del fatto che la tipica ed atavica diffidenza partenopea verso le novità (che poi, come abbiamo visto, fa la tendenza a quel conformismo, che è compagno stretto dell’invariabilità) si è cristallizzata in un cinismo disincantato, il cui principale cruccio (persino quando si tratta di fenomeni dolorosi e tragici, o anche sublimi) è soprattutto quello “di non lasciarsi fare scemo”. È esattamente da questo, egli dice, che scaturisce la cronica tendenza partenopea all’ “inconcludenza”ed alla“chiacchiera”. Si tratta insomma di quella sostanziale scarsissima serietà dei Napoletani verso il mondo e la vita, che poi va di pari passo con la totale incapacità di darsi ad azioni collettive solidali e costruttive. Ebbene, com’è possibile che tutto ciò sia appannaggio del solo lazzaro storico-sociologico, visto che non è mai stato davvero lui a costruire e governare questa città? Allora, se costui è incolpevole (e lo è senz’altro storico-sociologicamente), dovrà venire considerato invariabilmente colpevole quel suo alter ego ben più ampio, profondo e possente (ossia davvero essenziale), e cioè il Gran Lazzaro. La verità è allora che lo stesso mito di Napoli – che indubbiamente, se proprio non è produzione del Gran Lazzaro, almeno comunque ne serve a puntino la causa scellerata – si regge solo e soltanto sulla complicità generale nei vizi. È la generale complicità ostinata ed amorale con la stessa necessità negativa, con la determinazione profonda, della nostra terra. Espressione del fatto, questo, che la cultura di questa città è per davvero unitaria, è profondamente determinata; e, come tale, non conosce né può conoscere differenze sociali. Ma lo è solo e soltanto in negativo. E dunque, essendo disposti ad usare un linguaggio figurato (in perfetta linea con la dovuta interpretazione metafisica di fondo di Napoli), si potrebbe proprio dire che ci troviamo di fronte al culto misterico di una divinità occulta e potente. I cui adepti sono da considerare come dei “figli” determinati a difendere la loro grande e mostruosa Madre (-Padre) con la loro stessa vita. L’indomabile orgoglio del Gran Lazzaro è quindi in definitiva proprio questo. L’ostinata ed inflessibile auto-difesa (la difesa ad oltranza della propria identità, per quanto scopertamente negativa) nella quale egli è costantemente impegnato, è da considerare dunque l’atto di difesa di questa personificazione mitologico-divina della sua Essenza. Stiamo insomma direttamente al cospetto della fascinosa Sirena Parthenope. Ma, non senza nostro sgomento, ora le sue sembianze ci appaiono finalmente identiche a quelle della laida e lasciva “Gran Puttana”, nella cui persona Napoli così frequentemente si compiace di farsi ammirare.
Ma infine come, entro le cronache, tutto questo si traduce sul concreto piano civile, ossia quello del Gran Lazzaro colto nella sua dimensione realmente collettiva – quel piano, cioè, nel quale gli effetti rivelano impietosamente la natura delle cause? Per rispondere a questa domanda, mi sembra utile prendere in considerazione un aneddoto citato dal Croce e riportato dal curatore del suo testo, il Prof. Galasso. Pare che ciò accadesse quando Carlo I d’Angiò decise di dover reprimere con severità una rivolta subdolamente scoppiata a Napoli durante una sua assenza. I maggiorenti della città, racconta lo storico, si erano allora recati da lui, supplicandolo così di risparmiare la città e i cittadini; e giustificando ciò con il fatto che quella rivolta era stata l’opera di pochi gruppi di scriteriati, dissennati, e pazzi. E il re allora chiese a quei messi della città cosa intanto avessero mai fatto i savi, provvisti di senno e criterio, mentre i pazzi facevano la loro dissennata e scriteriata rivolta. E naturalmente non poté ottenere risposta. Non vi è prova più lampante di questa, allora, della mancanza di onore (oltre che di serietà e dignità) che caratterizza l’agire del Gran Lazzaro sul piano civile, e cioè collettivo. E naturalmente non vi è prova migliore di questa, per rendersi conto dell’agire di un’Essenza eterna ed invariabile nella coazione ad essere e ad agire che caratterizza Napoli e i Napoletani. È assolutamente evidente, quindi, che essa trascende totalmente la storia, così come trascende anche la sociologia. Si ha dunque un bel cercare quel momento fatidico, a partire dal quale Napoli avrebbe cessato di essere un Eden integrale ed incondizionato, e sarebbe diventata (per le infamie e colpe solo di altri) un Eden solo parziale e condizionato. Ossia, come sostengono i pro-napoletani d’assalto, quella città che, proprio per essere divenuta vittima di tale ingiustizia, poi così ingiustamente si presta oggi ai lazzi ed ingiurie degli stranieri (quello che un neo-borbonico dal linguaggio vernacolare ha voluto definire come “lo sputtanapoli”). Ebbene questa è un’operazione solo vana e vuota, e quindi non può che essere un inconcludente ed interminabile regressus ad infinitum. Retorica di parte, senza alcun senso né valore né utilità. Allora, se guardiamo alle forme civili di espressione del Gran Lazzaro, noi ci accorgeremo che l’invariabilità imposta dall’Essenza si traduce in una costante ed irriducibile vetustà prototipica delle apparenze. Che diventano così canone abbarbicato a sé stesso, ossia ad una qualunque tra le immagini in cui l’Essenza una volta si è cristallizzata. E così la Città dei lazzari (figli del Vulcano e della Gran Meretrice), la città che persiste ostinatamente ed orgogliosamente nelle peggiori apparenze (del brutto, dello sporco e del tremendo) proprie di tutte le città europee del passato, è di fatto ancora la Napoli seicentesca. E proprio in questo senso, allora, essa è, come dice il Leone, appesantita ed impedita da una zavorra che le impone le ordinarie forme della scaltra, insidiosa, feroce ed orgogliosa attitudine rivendicativa e renitente (e quindi tanto del crimine quanto della disobbedienza). Attitudine che non poche volte è anche apertamente violenta e sanguinaria. Queste, insomma, sono le forme dell’invariabilità, che vengono imposte dal canone sacro a sua volta dettato dall’Essenza. Non sono invece affatto le forme di un’antica grandezza che ancora trasparirebbe nei luoghi. La Napoli cristallizzata nella propria immagine seicentesca con è dunque affatto la “Napoli Capitale” che ancora si mostrerebbe nella propria sfiorita ma comunque innegabile degnità –, ma è invece una città perduta da sé stessa, dall’osservanza invariabile del culto religioso incarnato nel proprio mito auto-referenziale (La Capria), dalla cieca determinazione a restare sempre solo e soltanto sé stessa. E ciò soprattutto solo e soltanto nel peggiore dei modi. E se questo non è autolesionismo (per quanto anche protervamente aggressivo), non saprei proprio cos’altro può essere! E così, sul piano delle forme collettive, noi qui abbiamo davanti a noi null’altro che un luogo in cui sotterfugio, inganno, violenza e crimine sono di fatto la regola da tutti ammessa, e dopotutto perfino sempre impersonata. Dunque questo luogo non può essere in alcun modo la «città» (e perfino nobile) che essa intanto dice di essere. Una vera città è infatti un tessuto, e quindi un organismo. Non è invece affatto una città, quel luogo nel quale la tendenza all’atomismo disintegrato e canceroso si manifesta nelle forme evidenti di una laidezza che pretende di essere l’«antico» stesso (il “vetusto”) proclamante il proprio diritto inalienabile ad esistere e persistere. Qui possiamo vedere dunque le radici stesse di quel fenomeno della «città divisa» che descriverò in uno dei prossimi articoli. Intanto, comunque, è evidente che in questa sua forma, Napoli costituisce tutt’altro che un “ordine”. Il che implica poi che nessun ordine, di qualunque genere esso sia, le potrà mai essere sovra-imposto (nella speranza che esso finalmente opprima ciò che va oppresso, o anche finalmente liberi ciò che va liberato!), senza che venga prima affrontato il problema dell’Essenza che dal profondo la governa. Essenza che, non a caso, non ha mai tollerato concorrenti di qualunque genere. Anche quando si presentavano (come nel 1799) come suoi generosi amanti e benefattori.
Ebbene, così stanno le cose, almeno fino a prova contraria. E nessuno di noi, ovviamente, può mancare di sperare che un giorno finalmente questa smentita arrivi per davvero (ma nella sua forma autentica, e non invece falsa e di facciata, cioè appena retorica). Cosa vogliamo concluderne allora? Che, nonostante tutto – per mezzo del così prepotente emergere del Gran Lazzaro, quale sostanza di Napoli e dei Napoletani – la sociologia e la storia comunque debbono trionfare nella lettura interpretativa? Oppure che sotto di esse bisogna ancora una volta riconoscere la ben più rilevante presenza dell’Essenza? Ebbene la risposta a ciò è assolutamente ovvia se noi, sempre sulla base di letture che confortano l’osservazione in vivo, riconosciamo quanto impressionantemente simili ad alcuni archetipi (eterni ed universali) sono le forme che esprimono l’essenza napoletana. Archetipi eterni ed universali che non a caso si ritrovano costantemente nella narrativa e nella poesia. In questo caso, insomma, noi distoglieremo per un attimo lo sguardo dai fatti e dalle evidenze (cioè dalle forme concrete), per poi (come Platone chiese di fare agli inconsapevoli e ciechi incatenati nella Caverna7) –, dopo aver contemplato delle forme emblematiche (dei modelli archetipici universali) –, tornare ad osservare nuovamente ciò che effettivamente abbiamo davanti. Ecco che, in questo nostro distogliere lo sguardo, noi avremo intanto guadagnato una sapienza e saggezza molto maggiori di quelle di cui disponevamo prima. E prendiamo allora in considerazione ancora una volta quel Goethe che ha saputo guardare a Napoli molto meglio di così tanti tra di noi. Così nel suo Faust 8 egli descrisse delle figurine demoniaco-satiresche che molto assomigliano a Pulcinella; e così egli le fece parlare: «Voi siete i matti, / nati già curvi. / Noi siamo i furbi, sgombra la groppa; /giacche e cappucci / che noi portiamo / sono leggeri; / oziamo sempre, / comodamente, / stiamo in pantofole, / andiamo a zonzo / per i mercati, / a bocca aperta; / e litighiamo / fra gli schiamazzi / anguilleggiando / nel pigia pigia / balliamo insieme, facciam gazarra. / Se ci lodate / o ci sgridate / ci fa lo stesso. Se ci lodate / o ci sgridate / ci fa lo stesso…» ‒ occorrono altre parole per descrivere il Gran Lazzaro? Ma ora guardiamo per un attimo anche allo Smerdjakòv dei Karamàzov9? Ebbene chi più di lui, come personaggio prototipico, può e deve essere ricondotto alle cause e circostanze esteriori che ne hanno determinato la condizione esistenziale e perfino la persona stessa? Proprio qui insomma la sociologia e la storia dovrebbero trionfare. Ed il primo a saperlo è proprio Dostoevskij. Ma egli sa anche molto bene che non si tratta affatto solo di questo, ed anzi che molto probabilmente in tal modo noi cogliamo solo la superficie dei fenomeni. E così è lui stesso a dirigere la nostra attenzione di fatto verso la genetica, e quindi verso l’essenza della natura personale. Sta del resto proprio qui, per lui, la vera radice profonda del male. Essa insomma affonda totalmente nel mistero metafisico. Ora, però, se noi riconduciamo la natura del Napoletano ad un prototipo così specificamente singolare, corriamo indubbiamente il grande di rischio di porre in primo piano appena una medietà statistica, e quindi una mera quantitatività. È in questo senso che si potrebbe dire: «Tutti i Napoletani sono degli Smerdiakòv!». Ho però già detto che non è la qualità ciò che davvero conta. Conta invece semmai la qualità, ossia appunto l’essenza. È insomma del tutto evidente che non può essere vero che «...tutti i Napoletani sono degli Smerdiakòv». Sarebbe del resto fin troppo facile smentire questa regola, mostrando quante sono le persone nella nostra città che nemmeno da lontano si approssimano al paradigma. Ed allora il problema viene posto in modo molto migliore se noi affermiamo: – «In fondo ogni Napoletano è uno Smerdiakòv!». Si tratta insomma di una potenzialità profonda, di una latenza, e dunque anche di un rischio da dover assolutamente calcolare. Conseguentemente, allora, si tratta di qualcosa che allorquando emerge, si presenta comunque (per quanto diffuso possa essere come carattere e fenomeno) in maniera sostanzialmente qualitativa. Ossia si presenta come qualcosa di straordinario e speciale, come un’emergenza drammatica, come una vera e propria catastrofe. Anche se è solo singolare. Ecco allora la dimensione più rilevante della qualità rispetto alla quantità. Essa sottolinea proprio la drammaticità straordinaria delle apparenze. E quindi non importa affatto se “tutti” i Napoletani sono «effettivamente» (cioè per davvero) degli Smerdiakòv. Importa invece molto di più che lo possano essere. E ciò si verifica quando «anche uno solo di essi», un singolo esemplare della Napoletanità, si presenta come uno Smerdiakòv. È esattamente così infatti che si manifesta l’Essenza. Il prototipo umano “smerdiakòv” non è difatti per nulla ordinario, ma è invece straordinario, speciale e drammatico per definizione. E quindi, quando esso emerge come carattere (anche se solo singolare, e quindi affatto diffuso), rivela comunque sempre una pecca profonda; e precisamente una pecca che, proprio in quanto profonda, non può non essere anche estremamente ampia. Il cono vulcanico, insomma, per quanto possa essere minuscolo, tradisce sempre una camera magmatica. E quest’ultima ha, nel nostro caso specifico, esattamente l’aspetto di un Male profondo, insidioso e indicibile. Ebbene l’espressione “smerdiakòv” non è altro che il nome sintetico (e quindi sostanzialmente qualitativo) che si può e si deve dare a tutto questo – nel caso però che davvero si voglia comprendere. Ed allora soffermiamoci per un po’ sull’effettivo senso del nome. Smerdjakòv è in verità null’altro che colui il cui nome significa «il fetente», ovvero «colui che puzza» (l'etimologia del nome sta infatti nell'espressione smerdìt, puzzare). E questo non è altro che il lazzaro colto nella sua più radicale esistenzialità. Ancora una volta ci si può soffermare qui sulla dimensione squisitamente storico-sociologica della miseria. E di certo in qualche modo non si sbaglierebbe nel farlo. E tuttavia Dostoevskij sembra volerci proprio mettere in guardia dal rischio che, nel fare questo, noi immediatamente cominciamo a discolpare (e per partito preso). Ma il prezzo enorme di tale pregiudiziale discolpa è l’impossibilità di poter poi procedere nel compito di sorprendere. Ed è esattamente così che noi lasciamo in circolazione uno Smerdiakòv nella forma di una Forza naturale libera e continuamente pronta a stupirci, sorprenderci, tenderci agguati e tradirci. Lo stesso vale esattamente per il Gran Lazzaro. Ebbene, questo accade solo e soltanto perché noi abbiamo rinunciato in partenza a comprendere. E così abbiamo generato un falso oggetto di comprensione. Più precisamente abbiamo generato un oggetto che è restato in tanto insufficientemente compreso, in quanto noi non ci siamo spinti così avanti da dover poi giungere a giudicarlo. Si tratta insomma di quella rinuncia tipicamente “buonista” che, da alcuni secoli a questa parte, impedisce alle coscienze di cogliere l’esatta sagoma del Male nei fenomeni della Storia. E la conseguenza invariabile di ciò sono state sempre delle immani catastrofi, che invece potevano bene essere evitate. E dunque come ci si presenta Smerdiakòv nel momento in cui noi non abbiamo rinunciato al dovere di comprenderlo fino in fondo? Si presenta esattamente come il Gran Lazzaro. Egli è insidioso, insinuante e pieno di insinuazioni. Capace di giungere senza la minima remora fino ai confini estremi del più spregiudicato cinismo. Il che gli conferisce poi la capacità di vincere immancabilmente contro chi abbia anche il minimo scrupolo morale. Apparentemente bonario e tollerante, in fondo a stesso egli è invece un gelido e spietato calcolatore; in grado di valutare con efficienza infallibile vantaggi e convenienze, e così gettando senza esitazione alle ortiche qualunque scrupolo, pur di assicurarseli. È un attore nato, aperto mentitore, capace di fingere la paura, l'offesa, l'assenza di difese del “colpito-ingiustamente”, richiamando su di sé perfino la compassione. Ed il più brutto è poi che egli questa compassione la merita davvero; dato che è realmente un miserabile, e lo è in tutti i sensi. Cionondimeno egli è nell'intimo sempre inflessibilmente arrogante, sempre pronto alla guerra senza esclusione di colpi; convinto com'è dell'invincibile forza conferitagli dall'immoralità scientemente scelta e praticata. Così egli può presentarsi come debole, afflitto, malato immaginario, o vestire anche la stessa toga oratoria dell'ex-schiavo propugnatore della tolleranza. Ma in fondo a sé stesso sarà sempre un guerriero indomito, un renitente indomabile. Diabolicamente intelligente, egli è capace di evocare in chiunque una complicità forzosa. Cosa che egli ottiene facendo di costui emergere infallibilmente le bassezze, per poi ingigantirle, mettendole infine al suo totale servizio. Perciò egli sarà un implacabile sovvertitore di verità, schernitore, insolente. Sempre ammiccante. Ed ecco allora che, quando ogni sipario sarà caduto sulla tragi-commedia da lui inscenata, ed il suo diabolico piano sarà così giunto per l'ennesima volta al successo, il calunniatore si rivelerà ciò che è per davvero: – un uomo gelidamente ed insidiosamente sinistro, ripieno di disprezzo e ribollente di un odio feroce. Ecco allora che la sua insidia, come nei ratti ormai davanti all'ambita preda indifesa, si rivelerà per quello che è: malignità malevola, sempre spirante cruenta ed inesausta minaccia. Sarà allora che, sicuro ormai dell'impunità, egli leverà nel buio la sua implacabile mano assassina. Proprio questo fece Smerdjakòv nella vicenda narrata da Dostoevskij. Ed esattamente come lui è anche il nostro Gran Lazzaro – un irrecuperabile miserabile, ed in fondo a tutto anche uno spregevole vigliacco! Non a caso tutti i prototipi di Gran Lazzaro (camorristi, mafiosi etc.) pugnalano per definizione sempre alle spalle. Ed invariabilmente lo fanno un attimo dopo essersi prodotti nel migliore dei propri sorrisi di simpatia, amicizia e perfino compassione. C’è bisogno di dire che ci troviamo al cospetto di Satana in persona? Ma attenzione! Si tratta per la precisione di un Satana in forma d’uomo. E quindi in questo caso la Genetica predomina decisamente sulla Sociologia. Solo in forza della prima, infatti, noi potremo davvero evitare di fare la figura degli stupidi al suo cospetto. E, cosa ancora più importante, solo in questo caso noi potremo davvero salvare il Luogo da noi amato (e custodito) dalla corrosione distruttiva esercitata su di esso dagli Smerdiakòv e dai Gran Lazzari. Diciamolo, ammettiamolo dunque! È duro, è difficile. E lo è per tutti noi (senz'altro lo è anche per chi scrive!). In fondo abbiamo più volte ammesso di condividere tutti in fondo questa stessa identica genetica. Ma ammettere tutto questo alla fine ci potrà fare solo bene. Infatti, in una realtà com’è Napoli – in quanto letteralmente determinata ed impregnata in tutte le sue forme dall’Essenza alla quale ora abbiamo dato un volto ancora più convincente (in quanto addirittura in linea ed in sintonia con i paradigmi ultra-locali ed universali del Male), la riscossa può iniziare solo e soltanto da qui. Ossia da questa umilissima quanto coraggiosissima ammissione di colpa e indegnità collettiva. Ancora una volta, insomma, si rivela essenziale il nostro “pentirci” di essere Napoletani, e cioè di essere nati come tali, di essere figli di questa Terra. Ed a questo punto, allora, il porre in evidenza una sola o anche moltissime evidenze contrarie – quelle che poi non raramente compaiono proprio nelle cronache, nelle narrazioni letterarie e poetiche, ed inoltre anche nelle riletture intellettualistiche di Napoli (si pensi ad esempio ad un Jean-Noël Schifano) – non cambierà assolutamente nulla nella rilevanza e urgenza delle cogenze appena messe in luce. Sodoma e Gomorra, infatti, si costituiscono immediatamente come “dannate” non appena prende forma in essi anche un solo uomo ingiusto. Così come, esattamente allo stesso modo, esse si salvano se in esse prende forma anche un solo giusto. Ecco perché, almeno in un luogo come Napoli, la retorica ottimistica è sempre per definizione colpevole al cospetto di quella pessimistica. Essa infatti si macchia esattamente della gravissima colpa prima evidenziata – essa si lascia cioè sfuggire quel Male che, in un luogo come Napoli, invariabilmente alligna in ognuna delle più riposte pieghe del suo essere. Del resto questo è esattamente quello che accade nella vicenda narrata da Dostoevskij. Ed egli si sforza anche di mostrarcene quelle cause, che risiedono poi esattamente in qualcosa di molto simile all’atteggiamento che abbiamo appena deplorato. Che, nel contesto della narrazione, il servo Smerdjakòv sia il vero colpevole dell'omicidio di Fëdor Pavlòvič, è cosa più che evidente. Eppure il procuratore Ippolít Kirìllovič viene di fatto impedito a riconoscerlo proprio dal razionalismo psicologista e filantropico di stampo illuminista che lo ispira accecandolo così completamente. Non a caso, nella sua requisitoria, egli darà di Smerdjakòv un'immagine del tutto opposta a quella che invece ne darà il ben più attento difensore dell'accusato Dmitrij Karamàzov. Un'immagine, quella di Ippolít, che è dunque accecata da un'ingenuità tutta ideologica, e cioè perdutamente sociologistico-moralistica. Infatti il povero idiota vittima delle circostanze sociali, che egli vede, è invece esattamente ciò che è perché comunque sa di poter essere un assassino senza che nemmeno nessuno se ne accorga. È un lupo sotto la veste di agnello. È un poveraccio che costantemente nasconde il coltellaccio dietro la schiena. Di certo migliore di lui non era comunque nemmeno la vittima, Fëdor Pavlòvič, il malvagio ed animalesco nobile degenerato. Ma così non abbiamo forse davanti a noi quell’alter ego ripulito e sussiegoso del Gran Lazzaro, che non a caso proprio a Napoli noi ancora oggi possiamo ritrovare ad ogni angolo del dorato e ricercato Sacellum posto al centro di questa città? E peraltro lo ritroveremo ancora come il protagonista assoluto della vita civile, politica, economica e mondana! Ebbene è esattamente tutto questo che, con occhio infallibile, vede l'avvocato Fetjukóvič. Egli riconosce infatti chiaramente in Smerdjakòv le caratteristiche prototipiche del “miserabile-ma-malvagio”: ‒ l'intelligenza insidiosa e diabolica al servizio del sotterfugio malevolo e della crudeltà, la doppiezza, la sottigliezza, l'irrispettosità maligna e velenosa, irridente, la diffidenza, la capacità di accorta simulazione, l'essere gonfio di invidia e risentimento.10 Insomma “un individuo decisamente cattivo” è questo. Altro che appena un povero idiota e perseguitato! Egli è semmai invece un prototipo inarrivabile di spietata e sinistra malvagità. Un uomo, questo, che sì ha tutte le possibili motivazioni e tutti i possibili presupposti psicologici per uccidere. E peraltro in un modo che non lo renderà mai sospetto agli occhi di quella stupidità tipicamente giuridica che esige prove oggettive coincidenti con la mera evidenza (ovvero con la mera apparenza). Egli è infatti capace di uccidere non a viso aperto, come lo è il nobile Dmitrij Karamàzov (anche lui degenerato, ma comunque pur sempre davvero nobile di sangue e di anima), ma invece nell'ombra, ossia appena le circostanze lo renderanno certo dell'impunità. Un essere, questo, tanto spregevole da essere capace perfino di suicidarsi; fingendo così ancora una volta un estremo pentimento teatrale, pur di far in modo che la verità non trionfi e la colpa dell'assassinio da lui commesso ricada sull'innocente. Insomma un demone! Eppure, nonostante le schiaccianti evidenze apportate da Fetjukóvič, il popolo bue dei mužikì, ispirato a sua volta dalla buaggine dei suoi cattivi maestri, condannerà il tutto sommato nobile Dmitrij, e non invece lo spregevole Smerdjakòv. Insomma il mužik stesso altro non è se non un Gran Lazzaro. E quindi non può che condividere lo stesso risentimento insidiosamente assassino di quest’ultimo‒ «I nostri mužikì si sono fatti valere. E l'hanno fatta finita col povero Míten'ka». Oppure, secondo il ben più laconico e sobrio commento di Dostoevskij stesso, si può dire: «I nostri mužikì hanno tenuto duro». Sì, si possono ben ammirare ed amare i mužikì eGran Lazzari. E non vi è dubbio che ciò è segno di un’eccezionale e lodevolissima generosità e nobiltà d’animo. Si tratta insomma di un amore che non può non suscitare ammirazione, e che senz’altro può e deve essere emulato. Tuttavia non si può, nello stesso tempo, dimenticare il dovere di quella sobrietà, che a sua volta porta con sé anche l’obbligo inderogabile del giudizio. Dimenticare questo dovere infatti non solo è ingenuità – e quindi è sempre un riprovevole quanto inutile mettere la propria testa sul ceppo del boia, che certamente la mozzerà –, ma ancor prima è mancare a quel dovere di amore per la propria terra che impone l’evangelica sottigliezza di serpenti nello scovare il male e poi estirparlo senza alcuna pietà. Come ha dimostrato La Capria, Napoli paga ancora questo genere di ingenuità con la rovinosa caduta e sparizione dell’unica potenziale classe dirigente che forse avrebbe potuto cambiare davvero i suoi destini per sempre. Ma questo genere di classe dirigente è per la precisione non quella dei rinnovatori in verste di opportunisti e certamente futuri corrotti (così bene descritta da De Roberto ne’ I Vicerè), ma è invece quella dei veri generosi e disinteressati idealisti e sognatori, ossia quella dei veri nobili (non solo di sangue, ma soprattutto di animo). Ebbene costoro – se ancora ci sono –, in un luogo come Napoli devono una volta per tutte imparare a perdere l’ingenuità. E proprio a questo, a mio modesto avviso, può servire una lettura metafisica della fenomenologia unica che è propria di questa città e terra.
Note 1 Platone, Repubblica, IV, XVIII - XIX, 444a-445e p. 291-293; Platone, Fedone, I, XXXIII, 82e-83e p. 77-79; Luciano Montoneri, Il problema del male in Platone, Victrix, Forlì 2014, I, II p. 46, I, IV p. 73-74, I, IV, 1 p. 97-105, I, IV, 4 p. 124-129, I, IV, 5 p. 149-155, I, IV, 6 p. 156-158, II, I, V, I p. 195-198, I, I, V, I p. 212-218. 2 Leo Strauss,Atene e Gerusalemme, Einaudi, Torino 1998, p. 13-14. 3 Anne Marie Esnoul (a cura di), Bhagavadgītā, Adelphi, Milano 1992, XVIII, 22-33 p. 168-169. 4 Paolo Scarpi, Orfismo, in: Paolo Scarpi (a cura di), Le religioni dei misteri, Mondadori, Milano 2007, IIIA p. 377-379. 5 Elias Canetti, Masse e potere, Adelphi, Milano 2009. 6 Giuseppe Galasso, Note del curatore, in: Benedetto Croce, Un paradiso... cit., p. 279-315. 7 Platone, Repubblica... cit., VII, I-III, 514a-518c p. 451-459. 8 Wolfgang Goethe, Faust, Garzanti, Milano 2004, II, Atto II, 5215-5236 p. 527-529. 9 Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamàzov, Mondadori, Milano 2010, II p. 817-871. 10 Fëdor Dostoevskij, I fratelli… cit., II p. 1009, 1043-1044.
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