Consenso e razionalità astratta
A differenza di quanto molti pensano la razionalità astratta, da sola, è incapace di garantire il consenso nella sfera sociale, ideologica e politica. Sul piano pratico della politica pubblica, ogni tentativo di risolvere in modo definitivo i problemi socio-politici ha sempre prodotto risultati deludenti e l’idea che l’armonia sociale dipenda dal consenso è pericolosa. Il nodo essenziale della nostra epoca è, piuttosto, come creare istituzioni che consentano agli uomini di vivere insieme in modo pacifico e produttivo, nonostante la presenza di disaccordi ineliminabili. Dobbiamo insomma fronteggiare l’impossibilità concreta di dirimere i conflitti facendo ricorso a principi astratti e aprioristici: considerate le circostanze in cui si svolge la nostra vita, il modello della squadra i cui membri cooperano in vista di uno scopo comune è irrealistico. Naturalmente abbiamo il diritto di chiederci perché l’idea di consenso possa produrre conseguenze dannose. Dopo tutto il consenso, e cioè l’uniformità delle credenze e delle valutazioni, è stato considerato da gran parte della tradizione occidentale come un ideale che è al contempo buono e degno di essere perseguito. Si può rispondere notando che il consenso è essenzialmente una questione di “accordo”, e l’esperienza quotidiana ci insegna che le persone talvolta concordano su vari tipi di cose e talora - o, ancor meglio, nella maggior parte delle circostanze - si trovano in disaccordo. A questo punto si manifestano due posizioni di base. Da un lato vi sono i “sostenitori del consenso”, secondo i quali il disaccordo dev’essere evitato ad ogni costo e, dall’altro, i “pluralisti”, che invece accettano il disaccordo perché a loro avviso il dissenso costituisce una caratteristica del mondo imperfetto in cui noi tutti viviamo. Una visione pluralistica, pertanto, cerca di rendere il dissenso tollerabile, e non di eliminarlo. Il consenso appartiene alla sfera della razionalità qualora venga inteso come un “ideale”, e non come qualcosa che possa essere realizzato nella vita di tutti i giorni. Il cosiddetto “accordo universale tra persone razionali” non è elemento che si possa scoprire mediante il semplice esame della vita sociale e politica, in quanto indipendente dalle azioni degli individui. Si tratta, piuttosto, di un postulato che viene imposto all’idea di “razionalità” quando l’analisi si sposta dal piano meramente empirico a quello teorico. Ne consegue che il nostro uso del concetto di “consenso” si rivela, a un esame attento, circolare. Qualcuno può credere in buona fede di usare tale concetto in maniera neutrale, ma l’analisi ci mostra che ricorriamo sempre a criteri predeterminati per definire il significato dell’espressione “persona razionale”. Ai nostri giorni Jürgen Habermas afferma che il consenso gioca un ruolo chiave nelle pratiche umane, cosicché il compito primario della filosofia diventa quello di incoraggiarlo, eliminando al contempo il disaccordo che fronteggiamo costantemente nella vita quotidiana. Nella sua “teoria comunicativa del consenso” egli afferma che la comunicazione umana si basa su un impegno implicito nei confronti di una sorta di “situazione di linguaggio ideale”, che costituisce il fondamento normativo dell’accordo nelle questioni di tipo linguistico. Di conseguenza, la ricerca del consenso sarebbe una caratteristica costitutiva della nostra natura di esseri umani: razionalità e consenso sono, insomma, strettamente correlati. Dalle premesse di Habermas si può derivare una conclusione assai forte: qualora dovessimo abbandonare la ricerca del consenso perderemmo, ipso facto, anche la nostra razionalità. Secondo tale visione è proprio perché il dissenso conduce all’aumento del disordine nel corpo sociale che dobbiamo cercare di eliminarlo, trascendendo in questo modo il corso effettivo degli eventi. Tuttavia un simile trascendimento implica la presenza di un “punto di vista privilegiato” che noi, purtroppo, non possediamo. Verità e consenso possono convergere soltanto in una situazione-limite, vale a dire solo quando potessimo “contemplare” quel tipo di accordo che “verrebbe” raggiunto da soggetti dotati di una razionalità idealizzata che operano in condizioni idealmente favorevoli. Il problema è che tali condizioni non si verificano mai nell’esperienza. La “ricerca ideale” richiede una “razionalità ideale” da parte dei soggetti conoscenti, nonché l’assenza di limiti nelle nostre risorse. Non è difficile vedere che queste due condizioni sono praticamente irraggiungibili nel mondo concreto delle nostre azioni e deliberazioni. Per usare uno slogan semplice ma efficace: dobbiamo imparare a vivere con il dissenso, poiché esso ci viene in pratica imposto dalla vita di ogni giorno. Si manifesta comunque un quesito che attende risposta: il pluralismo cui si accennava non costituisce forse la strada maestra verso lo scetticismo? Indubbiamente questo è uno dei possibili risultati di una teoria pluralistica, e si tratta di una possibilità che è stata spesso sfruttata nella storia del pensiero occidentale. Tralasciando lo scetticismo antico, è interessante notare che Richard Rorty può essere considerato un rappresentante dello scetticismo odierno. Non v’è tuttavia alcuna necessità di connettere direttamente pluralismo da un lato e scetticismo dall’altro, in quanto il fatto che gli altri possano avere opinioni diverse non ci impedisce di credere alla correttezza delle nostre. Il pluralismo non implica l’indifferentismo; coloro che pensano che il relativismo estremo costituisca la conseguenza logica di una visione pluralista ritengono erroneamente che, data la diversità delle varie posizioni, non si possa scegliere tra esse. Ma un pluralismo che ammette la varietà dei punti di partenza nelle indagini razionali è compatibile con l’impegno nei confronti del nostro. Ne consegue, in definitiva, che il pluralismo è compatibile con l’impegno razionale. Dunque la relativizzazione ad un contesto non significa abbandonare ogni criterio razionale. Mentre è lecito riconoscere la presenza di prospettive differenti, le indicazioni che ci vengono dall’esperienza ci forniscono criteri per fare scelte razionali. Per esempio, il fatto che non esista una dieta valida per tutti non ci porta a concludere che possiamo mangiare tutto ciò che vogliamo, e l’assenza di un linguaggio completamente corretto non significa che si possa scegliere un linguaggio a caso per comunicare con i nostri simili in un particolare contesto. Ne segue che non è opportuno farsi spaventare dal disaccordo, giacché ha senso fare del proprio meglio per compiere scelte razionalmente giustificate senza preoccuparsi troppo del fatto che gli altri siano o meno d’accordo. Nel dominio socio-politico, come già abbiamo notato in precedenza, il consenso viene considerato da molti autori come condizione necessaria per costruire un ordine sociale stabile, mentre la sua assenza è spesso vista come l’anticamera del caos. Tuttavia la ricerca del consenso ha molte controindicazioni concrete e verificabili mediante l’esame della storia. Si pensi al modo in cui Hitler conquistò il potere nella Germania degli anni ’30. Egli raggiunse i propri obiettivi mediante elezioni democratiche, poiché fu capace di calamitare il consenso della maggioranza dei cittadini attorno alla piattaforma politica del partito nazista. Sarebbe però folle concludere che Hitler e i nazisti avevano ragione perché erano degli ottimi suscitatori di consenso. D’altro canto gli Stati Uniti sono un buon esempio di società democratica che può - in una certa misura - fare a meno del consenso, e nella quale il dissenso viene addirittura incoraggiato perché giudicato produttivo. La ricerca sistematica dell’accordo è, negli affari pubblici, dannosa oltre che irrealistica. Essa, infatti, ci priva dello stimolo fornito dalla competizione. Adottando questa linea di ragionamento, alcune vedute di senso comune vengono in pratica rovesciate. L’omogeneità garantita dal consenso cessa di essere il tratto che identifica l’ordine sociale stabile, dal momento che tale ruolo viene svolto da una situazione dominata dal dissenso in cui esiste la possibilità di ammettere la diversità di opinioni. Ne risulta, tra l’altro, che dovremmo guardarci dal caratterizzare il consenso della maggioranza come intrinsecamente razionale. Nelle nazioni industrializzate dell’Occidente la capacità dei mass media di costruire il consenso è notoriamente grande, e può quindi accadere che il potere dei media di assicurare il consenso venga utilizzato da cattivi politici, i quali ripagano i favori ricevuti curando interessi particolari a scapito di quelli generali. Si può concludere che il consenso non è obiettivo che meriti di essere perseguito a qualunque costo. Partendo da simili premesse, la necessità di trovare l’accordo si rivela assai meno pressante, in quanto la società è in grado di funzionare anche senza di esso. Dopo tutto, è proprio l’esperienza quotidiana a insegnarci che, qualora le condizioni per il reciproco rispetto vengano mantenute e rese operative dalla legge, siamo in grado di vivere con gli altri anche se non condividiamo le loro opinioni e le loro visioni del mondo (e viceversa). Abbiamo insomma un rispetto per la diversità che rende automaticamente possibile la tolleranza. Né è necessario ipotizzare che essa apra la strada al conseguimento di una Verità ultima: la tolleranza diventa più semplicemente la pre-condizione per perseguire “in pace” i nostri progetti. La conclusione è che, se vogliamo essere pluralisti, dobbiamo abbandonare la ricerca di un ordine monolitico perché astrattamente razionale, e rinunciare al proposito di massimizzare oltre ogni ragionevole limite il numero degli individui disposti ad approvare l’operato del governo. Al contrario, occorre avere in mente un modello di società in cui lo scopo principale sia quello di minimizzare il numero di cittadini che disapprovano radicalmente le azioni governative. L’idea che tutti debbano pensare “allo stesso modo” è sia pericolosa che anti-democratica, come la storia dimostra con dovizia di esempi. Poiché il consenso è un assoluto irrealizzabile nella vita pratica, deve essere ammessa la differenza tra “l’essere desiderabile” e “l’essere necessario”. Soltanto la prima caratterizzazione si applica al consenso, il che significa che esso è nient’altro che un fattore - non sempre positivo - che deve essere valutato in relazione ad altri elementi.
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