La Medea di Euripide, note a margine
Nella primavera del 431 a. C., ad Atene, l’agone tragico delle Grandi Dionisie fu vinto da un ‘figlio d’arte’: l’onore del primo dei tre premi, infatti, venne conferito ad Euforione, figlio di Eschilo. Il secondo premio fu assegnato a Sofocle. Il terzo ed ultimo premio, di consolazione per aver superato almeno la selezione iniziale dei tre poeti in gara, toccò ad Euripide, che aveva presentato una trilogia della quale faceva parte la Medea. Il pubblico ateniese non era nuovo a contenuti forti sulla scena tragica, ai quali era d’altra parte abituato dalla tradizione mitologica, ma nel caso della Medea è probabile che rimanesse sfavorevolmente colpito dall’intensità, e dalla qualità, della violenza dell’azione drammatica, culminante nell’ uccisione dei propri figli da parte della protagonista, Medea, che così si vendicava dei torti che ella aveva patito dal loro padre, Giasone. L’infanticidio, come vendetta per il tradimento, un ripudio sul piano legale, dovette apparire un gesto abnorme, tale da non rappresentare, neppure indirettamente, come era consuetudine, sulla scena. L’uccisione della rivale e del padre di lei, pur raccapricciante nel racconto fatto da chi vi aveva assistito, era tollerabile, l’infanticidio no. Ed il pubblico ateniese espresse la sua disapprovazione. Medea è un’opera complessa, in cui si intrecciano tematiche diverse. Il primo dato cui tener conto è che siamo alla vigilia di una guerra già dichiarata. A breve Atene attende l’invasione spartana dell’Attica e si prepara a resistere e a contrattaccare.
Tutto è pronto, messo a punto ed ordinato, almeno nei piani del comandante supremo, Pericle. Con lui Atene è consapevole della sua potenza, mai avuta a tal punto in passato, della sua superiorità di mezzi e di strategia, che nelle sue intenzioni dovrebbe logorare inevitabilmente il nemico. Ma la guerra si annuncia comunque lunga e spietata, data anche la forte contrapposizione ideologica tra la democratica Atene e la oligarchica Sparta e i suoi alleati. Si attende dunque un’esplosione di violenza e brutalità. “Risalgono i monti le acque dei sacri fiumi, giustizia è sovvertita, ogni valore è sconvolto… Svanito è il rispetto del giuramento,scomparso il pudore della grande Grecia: si è dissolto nell’aria”. (Medea, 410-411, 439-440; traduzione italiana di Umberto Albini, Milano, 1999) Così esclama Euripide, che dinnanzi a sé vede il dramma della violenza domestica e fratricida e nella vicenda che narra e nell’incendio che arderà la Grecia, violenza efferata e senza scampo. Il pubblico ateniese che censurò la tragedia probabilmente non colse questo nesso o lo volle esorcizzare. Certamente non poteva premiare il poeta che gli metteva davanti l’orrore cui si andava incontro. Euripide utilizza la tradizione mitica come un repertorio di vicende e di personaggi che estrapola dal loro contesto e utilizza in funzione del suo tempo. In questo senso si dice che Euripide, consapevolmente anacronistico, ha smitizzato gli eroi e risolto il mito nel quotidiano. Ma il mito è intrinsecamente pluralista: di una stessa vicenda esistono diverse versioni, un medesimo personaggio mostra vari aspetti. Euripide fa di questa apparente incoerenza uno strumento per indagare la complessa psicologia reale degli uomini. Medea è originariamente nel mito una potente maga, nipote del dio Sole. In questa veste, crudele, vendicativa e sprezzante, appare nella tragedia sia quando elimina la sua rivale con un atroce inganno, inviandole come segno di rappacificazione una veste e un diadema avvelenati, che la sventurata con ingenua vanità subito indossa, sia, nel finale, quando assisa sul carro alato, dono dell’avo divino, ormai al sicuro, come gli eroi omerici scioglie il suo vanto su un Giasone impotente e disfatto. Ma Medea è anche altro nel mito ed allora veste gli abiti di una contemporanea di Euripide e per certi aspetti anche nostra. Così Medea diventa donna straniera ripudiata dal marito che ha seguito nella sua terra, donna tradita e umiliata dall’uomo che ha intensamente amato e per il quale ha sacrificato tutto; semplicemente donna, che si ribella alla condizione di inferiorità e sudditanza che la società maschilista assegna al sesso femminile nei confronti degli uomini. Dietro tutto ciò si agita nella tragedia euripidea lo spettro di un dubbio critico che investe quella società e quella politica, che, proclamandosi libere e democratiche, non perdono occasioni, da parte loro, per tessere lodi di se stesse. Euripide non è un precursore del femminismo o del pacifismo: non dobbiamo cadere noi nell’anacronismo, interpretandolo secondo categorie che all’epoca non esistevano. (Si pensi che Euripide, malevolmente, è stato accusato, all’opposto, addirittura di misoginia). Semplicemente, di fronte a ciò che la tradizione e il sentire comune, nella morale, nelle consuetudini sociali, nelle convinzioni ideologiche e politiche, considerano certo, saldamente acquisito e indiscutibile, Euripide esercita il diritto di critica, contrappone ad esso opinioni nuove e diverse, vuole scuotere le coscienze assopite sul guanciale del dato di fatto. Euripide, soprattutto, contesta le certezze di coloro che, singoli o collettività, nutrono troppa fiducia in se stessi, di chi ritiene che la propria intelligenza, le proprie convinzioni sul giusto e sull’utile, non lo portino mai sulla strada sbagliata. Ha agito per il meglio Pericle quando nel 450 ha fatto promulgare una legge che riconosce la cittadinanza soltanto a chi ha padre e madre entrambi ateniesi? Non è stato così causa del ripudio di tante mogli straniere? “Andare a letto con una barbara non comportava per te una vecchiaia gloriosa”- rinfaccia Medea a Giasone. (ibidem, 591-592) Può Atene, che si vanta della propria costituzione democratica, chiudersi egoisticamente in se stessa, escludere dal godimento dei diritti che la sua cittadinanza assicura coloro che non possono vantare una discendenza 'pura'? Ha ancora senso una drastica discriminazione fra cittadino e straniero? O tra greci e 'barbari'? E, ancora, può una società che si considera all’avanguardia del progresso umano, un faro per la civiltà, trattare i legami coniugali e sentimentali solo in termini di convenienza ed interessi? E, soprattutto, può mantenere le donne in uno stato di inferiorità e di soggezione tale da far dire ad una di loro: “Fra tutte le creature dotate di anima e intelligenza, noi donne siamo le più sventurate”? (ibidem, 230-231) E per la ragione che gli uomini e non le donne affrontano i pericoli della guerra? Ma ribatte Medea: “Che assurdità! Preferirei cento volte combattere che partorire una volta sola”. (ibidem, 250-251) Ai suoi riluttanti concittadini Euripide poneva queste domande. Medea è una maga, nel mito un modo di definire una donna che sa. Proiettandola nella realtà, Euripide ne fa, per così dire, il proprio alter egoe, in generale, il simbolo dell’intellettuale incompreso. Egli, come Medea, è consapevole dei rischi del suo ruolo: di essere considerato una perditempo o di suscitare un’invidia ostile, soprattutto se la propria sapienza appare superiore a quella di chi è ritenuto un uomo colto ed esperto in vari campi. “Il mio sapere- si duole Medea- o suscita gelosia o mi fa ritenere addirittura una nemica”. (ibidem, 304- 305) Si tratta di un rischio, per i sapienti e i saggi, ancora attuale. Medea probabilmente sarà apparsa alla maggioranza del pubblico ateniese solo una belva assetata di sangue e di vendetta, ma così non è. La sua determinazione vacilla quando sta per uccidere i figli, ben consapevole dell’orrendo crimine di cui si macchieranno le sue mani di madre. E come tale si rivolge loro: per loro ha penato, ha sopportato le doglie del parto, ha sperato che essi l’avrebbero assistita nella vecchiaia e poi pietosamente seppellita. “Mi perdo di coraggio …quando vedo il volto sereno dei miei figli… come sono belli i miei figli… com’è dolce il [loro] respiro”. (ibidem, 1043, 1070-1071, 1075) Ma Medea non può tollerare che vincano i suoi nemici, che essi si facciano beffe di lei, perché sua deve essere la vittoria. Ma caro sarà il prezzo da pagare: “Avviati, Medea, verso una vita di dolore… che donna infelice sono”. (ibidem, 1245, 1250) Atene sta per affrontare una guerra che nei suoi piani sarà vittoriosa, avendo, come Medea, tutto ben previsto. Ma Atene è consapevole, come lo era Medea, che in ogni caso le spetterà di pagare un prezzo non lieve? Euripide ammonisce la sua amata Atene: “Al mondo non esiste una persona felice. Se sopravviene il benessere, un uomo può essere più fortunato di un altro, ma non felice: mai”.(ibidem, 1228-1230) Non è il frutto di un’ideologia pessimista, ma dell’esperienza del limite intrinseco all’uomo. La Medea si chiude come altre sue tragedie con quello che può essere dunque considerato il sigillo di Euripide: Dio è arbitro di molti eventi, Egli trova la strada per l’impossibile, ma molti propositi umani non trovano compimento. Eppure il poeta non si sottrae al compito di indicare alla sua Patria quello che egli ritiene debba essere il suo compito: rinunciare alla politica di potenza che ora essa sta perseguendo e continuare invece il cammino che essa ha intrapreso, arduo e faticoso come abbiamo sopra visto, verso una più alta saggezza e civiltà, con l’aiuto di Afrodite che “manda gli Amori per compagni alla Sapienza; con essa sono artefici di ogni virtù”. (ibidem, 844-845)
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