Napoli 1799. Cap. IV - La regina Maria Carolina d’Austria (2)

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Quando Ferdinando IV entra vittorioso in Roma, Maria Carolina già immagina di vedere tutta l’Italia sgombra dal pericolo giacobino. Quando, invece, il sovrano borbonico si dà a  precipitosa fuga, allora “la sera il re e la regina, Emma Lyonna, Acton e tutta la schiera dei perversi cotigiani si raccolsero a consiglio nelle più interne sale del palazzo, e quivi unanimi deliberarono di fuggirsene in Sicilia, lasciando il paese nell’anarchia la più feroce e gli stranieri invasori alle porte della capitale.

Convennero altresì di spogliare i musei, come avevano spogliato le banche, e d’imbarcarsi sul navilio di Nelson con tutti i tesori dello Stato e della corona. Decisero finalmente, che essi lontani, fidatissimi agenti provocherebbero i lazzari al saccheggio ed alle carneficine, onde i nobili ed i borghesi ne rimanessero spenti tutti o talmente impoveriti da confondersi per la miseria coi più abietti lazzari”.

La fuga della coppia reale lascia la popolazione senza parole. Anche i lazzari non si danno pace ed amaramente commentano: “Non c’è chiù de fidarsi de nisciuno, manco e lu re ch’è busciardo!”.

Tra mille traversie la nave inglese giunge a Palermo; durante la traversata muore il principino don Alberto. Al popolo palermitano che corre ad accoglierla, la sovrana in lutto dice:

“Non più la regina voi vedete in me, ma l’addolorata madre: tradita, rejetta, scacciata dai napoletani che tanto amai, colpita nel periglioso viaggio dalla perdita d’un figlio, io vengo a voi,o siciliani, non più come sovrana o signora dell’isola vostra ma come profuga e derelitta donna che chiede asilo ospitale, sicurezza di vita, soavità di affetti e leali amici. Mi volete voi a questi patti, o siciliani? Io dimando il vostro amore”.

 

Intanto a Napoli sta nascendo la Repubblica. In piazza mercato, il 25 gennaio 1799, si organizza una grande festa, con la sfilata di carri e maschere. Su un carro vi è un Pulcinella – Ferdinando, con la corona in testa e due corni (allusivi) nelle mani; su di un altro carro sfila una discinta Maria Carolina (la “cagna austriaca”, come la chiamano i Francesi) che si lascia baciare da un appassionato ministro Acton. Ed il popolo, già col berretto frigio e rosso, esultante canta:

Siente a me, vattenne a Vienna

Li peccata a seppellì.

I primi mesi del forzato “esilio” siciliano si accavallano alle speranze di un immediato ritorno nella reggia napoletana. Poi subentra la disperazione e la quasi certezza di una lunga permanenza a Palermo. Se i potenti europei non si coalizzano – è questo il pensiero della regina - il ritorno a Napoli resta un miraggio.

Porre fiducia nel re, manco a parlarne!” Che importa a lui l’onore del trono, i diritti del sovrano? Per il piacere di una buona caccia diverrebbe anche un ardente repubblicano: e non ha fondato egli per avventura un modello di repubblica a San Leucio, appunto come si stabilisce un parco per la caccia? E chi avrebbe mai potuto immaginare che da quel sogno potesse nascere una realtà così amara?”.

Anche la spedizione del cardinale Ruffo sembra dimenticata e con scarse speranze di successo.

Ed invece proprio dalle vittorie dell’armata del cardinale arrivano buone notizie per la regina. Le truppe sanfediste inanellano successi e si avvicinano sempre più a Napoli.”… Ho appreso con vera soddisfazione della presa di Altamura che è di somma importanza. Spero che il Signore voglia benedirvi e condurvi felicemente avanti nelle imprese. Qui a Palermo non v’è che una voce acclamante, benedicente il coraggio e la fermezza e la saviezza di Vostra Eccellenza.Vivo sicura che metterò ogni mio studio e attività per facilitare con tutti i mezzi la vostra azione perché so che Vostra Eccellenza soltanto ci può salvare. La Vostra, vera, grata, e riconoscentissima amica. Carolina”.

Il cardinale, annusando la possibilità di una definitiva vittoria, chiede che re Ferdinando gli spedisca truppe regolari, artiglierie, una legione di volontari siciliani, un capo militare…e che, per i meriti conquistati sul campo, nomini Michele Pezza – il brigante Fra Diavolo - colonnello di fanteria e Gaetano Mammone – un altro brigante - generale.

Poi la notizia tanto agognata dalla regina: il 13 giugno 1799 l’armata del cardinale Ruffo è entrata in Napoli! L’iniziale gioia, però, subito si tramuta in rabbia. Con la notizia della caduta della Repubblica giacobina, giungono anche i termini della capitalozione sottoscritti dal cardinale Ruffo, a nome del re e come vicario generale del regno: ai ribelli si riconosce l’onore delle armi e la possibilità di emigrare in Francia, senza persecuzioni da parte del governo borbonico.

E’un affronto troppo grave per la regina. Com’è possibile scendere a patti coi ribelli? “Un regno riacquistato a questo prezzo disonora tutti i prìncipi della terra… Non più vendette, non più supplizi, e che sono allora i monarchi?… nulla, o meno di nulla… Il carnefice, le mannaie, i capestri, sono le più fulgide gemme delle regali corone. Lo spavento ed il terrore rendono devoto i popoli, e come dinanzi alla divinità corrucciata essi tremano e l’adorano, così imparino a tremare e adorare noi che rappresentiamo Iddio sulla terra”.

Contro i  giacobini napoletani, contro gli uomini e le donne che hanno osato sfidare il potere dei re, esiste una sola parola: vendetta!

Carolina, allora, si serve dell’ammiraglio Nelson, che sta navigando verso Napoli, per revocare “l’infame trattato”. Non si può essere benevoli coi ribelli; necessita che una giunta di stato punisca i principali artefici dell’insurrezione con la pena di morte; necessita che tutti siano puniti e che si confischino i beni a tutti  i congiurati.

Il popolo sente la novità e canta: “Liparotti,venerdì sentirete li botti!” (Nell’isola di Lipari sono ormeggiate alcune navi inglesi).

“Adesso quel che occorre è un generale ripurgo!”, dice Carolina a lady Liona;” ripurgo è una parola che io stessa ho inventato.Vuol dire purgare due volte, - purgo e ripurgo - per ripulire a fondo le viscere di Napoli dai ribelli… Il regno sarà purgato dai cattivi umori. E dopo il ripurgo, dovrà calare il silenzio. Nessuno dovrà più parlare di questi fatti. Come se non fossero mai avvenuti. La storia sarà cancellata”.

Alle leggi di Ferdinando IV – tornato temporaneamente a Napoli e stabilitosi a bordo di una nave - che sanzionano tremende pene ai repubblicani, si aggiungono le liste inviate dalla regina che, rimasta a Palermo, compila elenchi di morte dettati da vecchi rancori, da odii personali e da infiltrati nelle schiere repubblicane. “Grande fu la strage nella capitale sì pe’ giudizi, sì per la rabbia popolare. Non fu minore nelle province: perironvi in modo sempre violento, spesso crudele, quattromila persone quasi tutte eminenti o per dottrina o per lignaggio o per virtù;carneficina orribile”.

Intanto, mentre Napoli affoga nel sangue, la corte palermitana festeggia il martirio della repubblica napoletana e la vittoria del re Borbone. Si fa festa a palazzo reale. Ed i festini continuano anche al teatro di corte, dove si rappresentano allegorie per celebrare i trionfi reali e le miserie del popolo napoletano. Nel palco reale siedono il re (raffigurato sulla scena con le sembianze di Saturno) e la regina (raffigurata come dea Vesta), Nelson (raffigurato come dio della forza) ed Emma Lyona. Il popolo palermitano grida:”Viva il nostro buon padre Ferdinando…viva l’eroico Nelson”.

“Un fisionomista che guarda attentamente Ferdinando IV, gli ravvisa subito la pigrizia, la viltà, la frivolezza e l’egoismo che formano il fondo del suo carattere. La ferocia e la sensualità sono qualità accessorie in lui e principali in Carolina. Da siffatto impasto morale ne nasce, che quando l’uno teme, l’altro spera e non si avvilisce nelle perdite; quando l’uno vuol frammischiarsi negli affari di stato, un divertimento che gli si prepara dalla moglie, una Frine (la cortigiana greca del IV sec. a. C.) che gli si presenta, gli fa tutto obliare; quando l’uno vuol usare qualche ombra di indulgenza, l’altra gli istilla il furore e lo fa entrare a parte dei di lei pravi disegni; quando il primo desidera la pace, l’altra trova i mezzi pronti, onde fargli comparire meno truce il demonio della guerra.

Il ministro Tanucci, uomo di gran merito, aveva conosciuto bene la perversità della moglie di Ferdinando IV allorché si ostinò a non farla intervenire nel consiglio di stato, ed escluderla affatto dal maneggio dei pubblici affari. Ma Tanucci fu sacrificato, e Carolina abusando dell’inerzia di un marito imbecille si pose in mano le redini del governo. Allora tutto andò male. Questa donna lavorò a rovinare il regno perché odiava la famiglia dei Borboni, disprezzava la nazione, e perché aveva un talento particolare di tutto distruggere, senza saper niente edificare”.

 

 

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