Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il brigante Carmine Crocco: un delinquente comune

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Il capobanda Carmine Crocco è stato presentato da taluni libellisti quale una specie di ribelle sociale. Un’analisi obiettiva delle sue azioni e delle sue parole dimostra che questi altro non fu che un criminale comune.

Crocco nacque a Rionero in Vulture (in Lucania, nel territorio di Potenza) il 5 giugno 1830. I suoi  genitori erano Francesco, un contadino che lavorava terra presa in affitto, e  Maria Gerardi, che saltuariamente lavorava come cardatrice di lana.

Le condizioni  sociali di provenienza di Carmine Crocco lo collocavano nei ceti bassi della società dell’epoca, ma non al fondo della scala sociale, come dimostra il fatto che egli apprese da uno zio i rudimenti dell’alfabeto, quindi una capacità seppure stentata di leggere e scrivere, quel che all’epoca era appannaggio di una piccola minoranza nel Mezzogiorno.

Egli lavorò come bracciante e pastore in alcune aziende della Lucania e della Puglia, finché fu arruolato nell’esercito borbonico nel 1849 e prese parte alla repressione della rivoluzione siciliana. Nel 1851 egli disertò dal suo reggimento, ritornò nella propria regione d’origine e si diede al brigantaggio con una serie di furti e rapine compiute nel 1852-1852.

L’inizio della vita da delinquente di Crocco viene descritta nella sua autobiografia come presunta  reazione ad un torto. Questo capobanda, che scriveva dal carcere in cui scontava una condanna all’ergastolo, sosteneva che il  suo primo reato sarebbe consistito  in un omicidio compiuto per ragioni di “onore”, avendo voluto vendicarsi di un “galantuomo” che avrebbe avanzato delle profferte amorose a sua sorella. Questo episodio è però del tutto inventato ed è stato inserito dall’ergastolano nelle sue memorie per cercare di ingraziarsi i lettori e giustificare se stesso.

Già Eugenio Massa, che ha curato la pubblicazione dell’autobiografia di Crocco inserendo anche un apparato critico, smentisce la veridicità del fantasioso delitto d’onore. [E. Massa, in Gli ultimi briganti della Basilicata. C. Donatelli Crocco e G. Caruso, Melfi 1903]

Successivamente, lo storico Basilide del Zio nella sua biografia di Crocco ha dimostrato in modo irrefutabile la falsità di quanto questi scriveva: «dallo studio del processo e dalle notizie assunte dai contemporanei del suo paese, come nel Municipio, mi è risultato essere completamente falso. È un’asserzione gratuita del bandito, che, per non classificarsi ladro, e condannato come tale, inventa una storia di onore, la crea con tutte le forme della fantasia, la dipinge minutamente e cerca contornarla talmente bene da crederla quasi egli stesso.» [B. Del Zio, Il brigante Crocco e la sua autobiografia, Melfi 1903].

Il Del Zio ha quindi potuto fare riferimento a fonti archivistiche, che confutano totalmente le asserzioni di Crocco. Lo storico riporta nella sua opera un ampio stralcio di un documento della magistratura borbonica, che segnala minutamente i reati per i quali il futuro “generale dei briganti” era stato condannato sotto il regno delle Due Sicilie: «dal registro della Gran Corte criminale, n. 12, distretto di Melfi, risulta al n. 5312: Crocco Carmine Donatelli […] di anni 23 […]; furto di 2 cavalli ed altri oggetti del valore di ducati 144 e 70 grane, qualificato per la violenza, luogo e valore in danno di Giuseppe Nicola Lettini, da Trani, e Giovanni Pugliese, da Venosa, accompagnato da percosse in persona di Lettini, commesso il 2 maggio 1853 in tenimento di Lavello. […] furto di un cavallo e ducati 10, qualificato per la violenza e pel luogo, in danno di Benedetto Spaducci, da Maschito, commesso il 3 maggio 1853 in tenimento di Montemilone. Furto qualificato per la violenza e luogo, accompagnato da violenza pubblica in danno di Lorenzo Coletta, di Bella, commesso il 5 settembre 1852 in quel tenimento. Furto qualificato per la violenza e luogo, accompagnato da violenza pubblica in danno di Antonio Capuano ed altri, commesso l’8 maggio 1852, nel tenimento di Bella. Tentato furto di un cavallo a danno di don Giovanni Giudice, da Melfi, in data 12 giugno 1853.» Tutte queste imputazioni si ritrovano, precisa il Del Zio, al volume II degli atti della Gran Corte speciale della Basilicata. [Del Zio, Il brigante Crocco, cit.].

Più di recente, anche lo storico Ettore Cinnella ha respinto le infondate affermazioni di  Crocco sull’origine della sua carriera banditesca, provando sulla base di fonti precise che l’aneddoto del delitto d’onore è  destituito da ogni fondamento e puramente inventato. [E. Cinnella, Carmine Crocco: un brigante nella grande storia, Pisa-Cagliari, 2010].

Carmine Crocco fu quindi condannato dalla magistratura borbonica a 19 anni di prigione per i reati suddetti, finendo rinchiuso nel carcere di Brindisi. Egli tentò un’evasione nella notte del 19 luglio 1856, venendo fermato e condannato nel 2 ottobre di quell’anno ad un anno e mezzo di aumento della pena. Egli riuscì però successivamente ad evadere dalla prigione brindisina il 13 dicembre del 1859, dandosi alla latitanza e costituendo una prima piccola banda con cui si dava alle grassazioni, come il sequestro della persona di Michele Anastasia, compiuto il 14 luglio 1860 per estorcere un riscatto. [Del Zio, Il brigante Crocco, cit.].

Al momento della costituzione della sua ed ingrossata banda nel 1861 Crocco aveva ormai una lunga serie di delitti, che Marc Monnier calcola nel numero di 30, fra cui: 15 furti; 3 tentativi di furto; 4 sequestri di persona; 3 omicidi; 2 tentati omicidi ecc. [M. Monnier, Storia del Brigantaggio nelle Province Napoletane, Firenze 1862].

Il 22 ottobre del 1861 il Crocco s’incontrò nel bosco di Lagopesole con José Borjes e pochissimi altri ex ufficiali  spagnoli dell’esercito “carlista” (legittimisti ispanici), che erano giunti nel Mezzogiorno dopo essere stati assoldati da Francesco II.  Pochi giorni più tardi la banda fu raggiunta da un mercenario francese, Augustin De Langlais (questo era il suo  vero cognome, anche se era spesso storpiato in De Langlois), un impiegato delle dogane francesi conosciuto nella sua famiglia come persona balzana e con ogni verosimiglianza inviato da Napoleone III che foraggiava il brigantaggio nella prospettiva di frantumare lo stato italiano e creare al sud un suo stato fantoccio mettendo sul  trono di Napoli un francese. [A. Albònico, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia, Milano 1979]

Testimonianza diretta ed inoppugnabile del comportamento puramente criminale della banda di Crocco è offerta proprio da Borjes. Questi fu un ufficiale d’idee assolutistiche, in esilio dalla Spagna  per aver preso  parte ad una guerra civile colà avvenuta, reclutato da emissari di Francesco II di Borbone per andare a capeggiare la banda di briganti di Crocco, divenendo testimone oculare delle molte e gravi violenze compiute da questi delinquenti a discapito dell’inerme popolazione civile.

Simili atti sono testimoniati dallo stesso Borjes nel suo diario personale, risultando quindi incontestabili, facendo riferimento alla scorreria brigantesca avvenuta tra il 3 ed il 16 novembre di quell’anno, da Trivigno sino ai pressi di Potenza.

A Trivigno, scrive Borjes «il disordine più completo regna fra i nostri, cominciando dai capi. Furti, eccidi e altri fatti biasimevoli furono la conseguenza di questo assalto […] Crocco, Langlois e Serravalle hanno commesso a Trevigno le più grandi violenze. L’aristocrazia del luogo erasi nascosta in casa del sindaco, e i sopraddetti individui, che hanno ivi preso alloggio, l’hanno ignobilmente sottoposta a riscatto.

Più: percorrevano la città , minacciavano di bruciare le case de’ privati, se non davano loro danaro.» Secondo quanto riportato dallo storico Basilide Del Zio, a Trivigno in quell'occasione furono massacrate sei persone: Domenico Antonio Sassano, Michele Petrone, Teresa Destefano, Giambattista Guarini, Cristina Brindisi e Rocco Luigi Volino. Crocco riconobbe nelle sue memorie che coloro che si rifiutavano di consegnare i propri beni venivano trucidati.

A Calciano, scrive ancora Borjes, «è stato saccheggiato tutto, senza distinzione a realisti o a liberali in un modo orribile: è stata anche assassinata una donna e, a quanto mi dicono, tre o quattro contadini.»

A Garaguso, nonostante il parroco assieme ad altri paesani fosse uscito incontro ai briganti tenendo il crocifisso in mano e chiedendo pietà, avvenne ciò che Borjes definisce ambiguamente «scena» e di cui si rifiuta di raccontare alcunché, tranne che si trattava di «disordine». Insomma, anche questa cittadina era stata saccheggiata.

A Salandra, avviene un altro saccheggio («La città è stata saccheggiata»), non senza un assassinio da parte di Crocco, di cui fu vittima un tale Spazziano.

A Craco, nonostante la popolazione intera fosse venuta incontro ai banditi, nella speranza d’evitare le loro  violenze, «avvennero non pochi disordini»

Ad Aliano, «dove la popolazione ci riceve col prete e colla croce alla testa, alle grida di Viva Francesco II; ciò non impedisce che il maggior disordine non regni durante la notte. Sarebbe cosa da recar sorpresa, se il capo della banda e i suoi satelliti non fossero i primi ladri che io abbia mai conosciuto.»

Ad Astagnano, si ripete la situazione d’altri paesi. I sacerdoti e la popolazione vanno incontro ai briganti con croci e bandiere bianche in mano, in segno di pace e di resa, il che non frena i criminali, che, a dir del Borjes, «hanno cominciato a farne delle loro solite».

A Grassano, il saccheggio riprende: «i nostri capi vanno a rubare dove più lor piace.»

A Pietragalla, lo spagnolo rinuncia persino a cercare di frenare i suoi uomini e la città è anch’essa messa a sacco.

A Balbano, Borjes è testimone di fatti tali che si rifiuta persino di menzionarli, limitandosi a definirli  quali assolutamente orribili: «I disordini più inauditi avvennero in questa città; non voglio darne i particolari, tanti sono orribili sotto ogni aspetto.»

Per farla breve, ogniqualvolta l’orda capitanata da Crocco entrò in una città, la sottopose a saccheggio e devastazione, non senza stragi di cittadini inermi, anche quando la popolazione si era arresa senza combattere. [J. Borjes, Giornale, Firenze 1862]

Borjes ammise che si stava recando da Francesco II a Roma per dirgli che questi non aveva altro che “miserabili e scellerati” dalla sua parte, che Crocco era un criminale della peggior specie e Langlois un bruto: «J’allais dire au roi Francois II qu’il n’y a que des miserables et des scelerats pour la defendre que Crocco est un sacripant et Langlois un brute».

Borjes nel suo diario privato esprimeva quindi giudizi durissimi su questo brigante, il più famoso ed importante di tutti, che così riassume lo storico Aldo Albònico nel suo studio, fondamentale sulle trame della corte borbonica in esilio per ritornare sul trono e sugli appoggi internazionali ricevuti: «Lo spagnolo rimproverava al brigante di essere: il maggiore ladro da lui mai conosciuto; un vigliacco che faceva sostenere agli spagnoli le azioni più pericolose e non si azzardava ad uscire dal territorio conosciuto; un meschino timoroso di perdere il denaro accumulato con le ruberie; un presuntuoso, preoccupato di perdere  parte della propria autorità in caso venisse data alla lotta un’organizzazione davvero militare». [A. Albònico, La mobilitazione legittimista contro il Regno d’Italia, Milano 1979, p. 72].

Conclusa la sua collaborazione  con Borjes (è rimasto aperto il sospetto che Crocco abbia tradito lo spagnolo, facendo in modo che venisse arrestato quando era ormai nei pressi della frontiera pontificia), il capobanda continuò con azioni di semplice malandrinaggio su ampia scala, con rapine a danno di viaggiatori, sequestri  di persona, estorsioni e ricatti. Il Del Zio enumera i numerosi crimini compiuti dalla banda Crocco, incluse infanticidi, torture e stupri, riportando anche i biglietti sgrammaticati con cui  le bande minacciavano la popolazione civile e richiedevano denaro. [Del Zio, Il brigante Crocco, cit.].

Crocco medesimo rispose in fatto di stupri in termini sì vaghi e reticenti, ma di sostanziale ammissione, paragonandosi al beccafico, ossia ad un uccello che becca quando e dove vuole, con una chiara metafora sessuale: «— Avevate con voi nella vostra banda qualche donna? — No, quando si trovavano si faceva come il beccafico: si beccava e via.» [R. Ribolla, Voci dall'ergastolo. Documenti Psicologici-criminali dal vero. Roma 1903.]

Anche Benedetto Croce riconosce che «Carmine Crocco […] nel 1862 depose ogni maschera politica e continuò a fare alla scoperta quello che in sostanza aveva fatto sempre, puro brigantaggio, e poi dal grosso brigantaggio discese al piccolo» [B. Croce Il romanticismo legittimistico e la caduta del Regno di Napoli, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, vol. II].

Nel 1864 Carmine Crocco comprese che ormai la fine della sua banda era vicina e pensò a salvare sé stesso ed il suo bottino. Facendosi accompagnare da un piccolissimo gruppo dei suoi uomini, dopo  aver abbandonato gli altri al loro destino, egli si incamminò a luglio in direzione del Lazio pontificio, giungendovi il 24 agosto con quattro altri briganti e la preda raccolta nei saccheggi e nelle estorsioni.

Il capobanda sperava di poter essere accolto come un eroe o comunque accettato dalle autorità papaline, che avevano supportato indirettamente il brigantaggio e consentito che il loro territorio divenisse base d’appoggio per le bande che operavano nel Meridione. Egli invece finì subito incarcerato con l’accusa d’essere stato il responsabile della morte del Borjes. Il malloppo, secondo quanto afferma Crocco, gli fu sottratto da un cardinale corrotto.

Il governo del papa accettava malvolentieri la presenza nelle sue carceri di questo prigioniero, che era scomodo sia perché ricercato dallo stato italiano, sia perché era testimone diretto delle complicità dei legittimisti nelle sue attività brigantesche, cosicché cercò di liberarsene spedendolo  in Algeria, ma il governo francese si oppose rimandandolo a Roma.

Nel 1871, con l’unione del Lazio al regno d’Italia, Crocco fu trasferito dalla carceri di Frosinone a quelle di Avellino prima e di  Potenza poi.  Questo capobanda venne quindi sottoposto ad un regolare processo, finendo condannato per una lunga serie di reati comuni come associazione a delinquere contro le persone e contro le proprietà, formazione di bande armate, furti, rapine, assassini, estorsioni, incendi di proprietà ecc. [Del Zio, Il brigante Crocco, cit.].

Gli studi di Basilide Del  Zio e di Ettore Cinnella, assieme a molti altri, sulla base d’una enorme ed analitica documentazione demoliscono l’interpretazione marxista del brigantaggio, risalente sino ad Eric Hobsbawm, a Tommaso Pedio ed in parte a Franco Molfese stesso, secondo cui questo fenomeno, pur essendo stato  fondamentalmente criminale, avrebbe avuto vaghe e confuse coloriture rivoluzionarie d’impronta sociale. [E. Hobsbawm, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, 2002; edizione originale Primitive Rebels. Studies in Archaic Forms of Social Movement in the 19th ann 20th Centuries, Manchester 1959; T. Pedio, Brigantaggio meridionale (1806-1863), Lecce 1987; F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano 1962]

Del Zio e Cinnella non hanno difficoltà a provare che “il generale dei briganti” era un delinquente comune, interessato ad arricchirsi con saccheggi, rapine, estorsioni, furti e dedito a pratiche  come assassini e stupri.

Se si considera l’operato concreto di Crocco e degli altri briganti si scopre che: 1) le loro vittime erano quasi sempre membri delle classi povere; 2) i  manutengoli, che erano coloro che in buona misura controllavano i briganti, erano invece i latifondisti locali.

Questo legame fra manutengoli e briganti, ossia fra i pupari, di norma personaggi altolocati, ed i banditi manovrati strumentalmente, era stato ben individuato già negli anni ’60 del secolo XIX. Enrico Pani Rossi, per alcuni anni sottoprefetto di Melfi, nella sua famosa opera sulla Basilicata, ricchissima di dati statistici e di cui un terzo è riservato alla descrizione ed analisi del brigantaggio, pone fra le cause del fenomeno la connivenza delle classi  alte con i banditi, che faceva sì che “galantuomini”, inclusi sindaci ed ecclesiastici, si servissero dei briganti per le proprie vendette personali o per le lotte di fazione all’interno dei municipi [E. Pani Rossi, La Basilicata. Libri Tre. Studi politici amministrativi e di economia politica, Verona 1868].

Francesco Saverio Nitti ha scritto un brigantaggio un breve testo, in cui ha il merito di presentare seppure in forma succinta alcune interpretazioni e considerazioni  interessanti, fra cui l’individuazione del rapporto fra baronaggio e brigantaggio:

«Essere inquisito, cioè aver commesso dei reati, essere ciò che noi diremmo un criminale, era un requisito quasi indispensabile per essere ammesso al servizio di un barone. […] In alcuni casi e non rari i baroni stessi partecipavano al brigantaggio e lo proteggevano, sia per misura di difesa, sia per desiderio di guadagno.». Si servirono dei briganti contro i propri avversari politici sia i sovrani contro i baroni, sia i baroni contro i sovrani, specialmente ma non solo durante la dominazione spagnola:

«Anche prima i banditi erano stati molte volte una forza politica di cui i sovrani si erano serviti contro i baroni e i baroni contro i sovrani. Ma, durante la dominazione spagnuola, cioè per più di due secoli, non vi è stata guerra combattuta con le forze interne del Regno, in cui una delle parti nemiche non abbia adoperato i banditi.» [F. S. Nitti, Eroi e briganti, edizione originale 1899, ristampa Venosa  2000].

In modo più approfondito, Gino  Doria ha inquadrato la storia del brigantaggio meridionale in rapporto a quella della classe sociale detta “dei galantuomini”. I notabili e le fazioni locali della nobiltà o della borghesia  si servivano dei banditi per le proprie lotte e per imporsi sui rivali. [G. Doria, Per la storia del Brigantaggio nelle Provincie Meridionali, in “Archivio Storico per le Province Napoletane”, nuova serie, anno XVII, 1931].

Il ricorso alla violenza in epoca borbonica era praticato regolarmente dai notabilati e dalle èlites locali per assicurarsi dai contadini il pagamento dei canoni e dei debiti, oppure per competere nel controllo delle amministrazioni locali. [A. Massafra (a cura di), Il mezzogiorno preunitario: economia, società, istituzioni, Bari 1988, p. 915] Lucy Riall dopo aver confrontato diverse ipotesi interpretative sul brigantaggio, conclude che «il banditismo in Sicilia, e in molte altre parti del Meridion», sarebbe stato «una forma di mobilità sociale ascendente». Esso era uno strumento delle lotte di potere fra i “galantuomini” locali. [L. Riall, La Sicilia e l’unificazione italiana. Politica liberale e potere locale (1815-1866), ed. or. Oxford 1998, trad. it. Torino 2004, p. 65].

Proprio per questo  legame fra brigantaggio e latifondisti ne esisteva anche un altro fra briganti e mafie, che erano anch’esse in simbiosi con il notabilato. Alcuni storici parlano d’un rapporto assai stretto fra organizzazioni mafiose e briganti.

Il modello tipico di brigantaggio era quello siciliano, che vedeva i briganti da una parte collusi e controllati dalla mafia locale, dall’altra adoperati come manovalanza armata dai latifondisti. Di fatto, esisteva un rapporto preciso fra latifondisti, mafiosi, briganti: questi ultimi erano semplicemente l’anello più basso della catena ed erano adoperati alternativamente come briganti veri e propri (contro i rivali e contro le fasce deboli della popolazione) e come campieri, quindi guardie del corpo e protettori dei grandi proprietari.

Ad esempio, Vincenzo D’Alessandro sostiene che la mafia ottocentesca fu originata anche dalla trasformazione di bande armate al servizio dei “notabili” nelle zone rurali dell’entroterra in un fenomeno urbano radicato nelle città costiere, dove strinse rapporti con il potere politico. [V. D’Alessandro, Brigantaggio e mafia in Sicilia, Messina 1950, p. 155].

Si tratta di un fenomeno di lunga durata storica, tanto che lo storico Giuseppe Galasso ha confutato per l’Italia meridionale la teoria del “banditismo sociale” di Hobsbawm, dimostrando che il brigantaggio nel Mezzogiorno del secolo XVII era manovrato da baroni per opporsi al potere monarchico. [G. Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del Sud, in "Archivio Storico per le provincie napoletane", n. CI, a. XXII terza serie, 1983]

Lungi dall’essere dei rivoluzionari sociali, i briganti erano puri e semplici criminali comuni, di cui parte della vecchia classe dirigente borbonica si servì per cercare d’abbattere il nuovo stato liberale. Il fenomeno, di per sé puramente delinquenziale, fu parzialmente gonfiato da ultrareazionari seguaci del legittimismo (tutti aristocratici di rango) che furono assoldati e spediti a finanziare, armare e talora guidare le bande, con esiti comunque fallimentari. È appena il caso di dire che il legittimismo e la nobiltà di sangue assolutistica erano l’antitesi d’ogni idea socialista od anarchica, esattamente come avveniva per il regno borbonico e per le sue politiche ultrareazionarie e legati ai soli interessi della ristrettissima oligarchia dominante.

Questo rapporto fra i  “galantuomini” ed i briganti si ritrova anche nel caso di Carmine Crocco. Manca ancora uno studio approfondito sui rapporti fra i latifondisti ed i notabili e questo capobanda, ma non esiste dubbio alcuno sulla loro esistenza. Crocco, disinteressato a questioni politiche, fu avvicinato da borbonici che lo convinsero a mettersi al loro servizio, ricevette da loro armi, denaro, appoggi di varia natura. [T. Pedio,  Brigantaggio meridionale (1806-1863), Lecce 1987].

Il capobanda nella sua autobiografia fa ampie allusioni a queste connivenze: «A molti potrà apparire strano come la mia banda, così numerosa e formidabile, abbia potuto spadroneggiare dal 1861 al 1864 e che non ostante l'accanito inseguimento della truppa, abbia io potuto attraversare incolume il territorio che separa la Basilicata da Roma. Alla nostra salvezza contribuirono in massima parte i signori col loro potente ausilio, od almeno col loro silenzio. lo stesso che scrivo, nei vari anni della mia vita di bandito, dormii poche volte al bivacco, e trovai alloggio e ristoro presso persone da tutti ritenute intangibili sotto ogni rapporto.» [C. Crocco, Io brigante,  Napoli 2005].

Crocco però si rifiuta di fare i loro nomi, preferendo conservare l’omertà: Conosco persone che dopo la caduta del potere borbonico si misero a capo della reazione, ebbero nelle loro mani migliaia e migliaia di scudi, segretamente iniziarono con me, pratiche perché colla mia banda sollevassi le popolazioni, e poscia fingendosi liberali, tradirono Francesco II come prima avevano tradito Vittorio Emanuele. […] Ma non si allarmino i compromessi e i loro congiunti, io non parlerò; i loro nomi moriranno con me.» [Crocco, Io brigante,  cit.].

Egli stesso ammette che aveva addirittura pensato di poter diventare feudatario del paese di Aliano: «mi collocai nel palazzo d'un signore, fuggito colla famiglia a Montalbano Jonico, ove venni trattato da vero sovrano dal fattore e dai suoi. E già cominciavo a credermi padrone, e dicevo tra me e me che dopo tutto mi sarei accontentato di quel piccolo ducato, purché mi si lasciasse in pace, signore e padrone di riscuotere i frutti delle mie terre». [Crocco, Io brigante, cit.].

L’aspirazione a diventare “signore e padrone” di un paese non ha nulla in comune con il presunto banditismo sociale, non più di quanto lo abbiano i rapporti di connivenza con “galantuomini” che si servivano di Crocco per i loro fini oppure i crimini che colpivano la popolazione civile.

Crocco ricorda in un’intervista con  il professor Salvatore Ottolenghi d’aver conosciuto in carcere anarchici e socialisti, ma esprime totale disprezzo per le loro idee e racconta d’essersi  anche scontrato con  loro per disaccordo. [R. Ribolla, Voci dall'ergastolo. Documenti Psicologici-criminali dal vero. Roma 1903.] Si può ben concludere con quanto afferma Basilide Del Zio, il quale sostiene che «per Crocco non vi era altra bandiera se non quella del furto, sempre il furto, e non altro che il furto.» [Del Zio, Il brigante Crocco, cit.].

 

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