Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Napoli 1799. Cap. I - Il vento rivoluzionario (2)

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Intanto il giovane generale Napoleone Bonaparte, dopo aver sconfitto l’esercito piemontese e quello austriaco, entra da trionfatore in Milano. E’il 16 maggio 1796. Nello stesso mese,  il 28, Ferdinando di Borbone, preoccupato chiede ai suoi sudditi di indire una vera e propria “crociata contro la Francia, nemica della religione, della famiglia, della società civile”.

Quindi, Bonaparte, acclamato dalle popolazioni come un liberatore, rivolge la sua attenzione alle truppe pontificie, che affronta e sconfigge. In seguito al Trattato di Tolentino (19 febbraio 1797), da lui sottoscritto congiuntamente al papa Pio VI, poi, il generale francese costringe la Santa Sede ad abbandonare la sovranità su Bologna e Ferrara, a pagare un grosso tributo in denaro ai vincitori e ad avviare una serie di capolavori d’arte e preziosi codici alla volta della Francia.

Incoraggiate dal generale Bonaparte nascono la Repubblica Cispadana e quella Transpadana: sono un primo esperimento, pur sorretto da forze straniere, di un governo autonomo dopo anni di regimi autoritari ed assolutistici. Il 9 luglio 1797 le due repubbliche si fondono in un unico organismo politico, che prende il nome di Repubblica Cisalpina.

Nell’ottobre 1797, con la pace di Campoformio siglata tra la Francia e l’Austria, anche il Regno di Napoli è costretto a riconoscere la Repubblica Cisalpina ed obbligato a versare un indennizzo alla Francia. Ferdinando IV di Borbone accetta tutte le clausole del patto; la moglie Maria Carolina, invece, non perde occasione per mostrare la sua avversione alla Francia e manifestare la sua preoccupazione per  la crescente potenza militare francese.

Nel febbraio 1798 la Francia invade lo Stato pontificio, obbliga Pio VI ad abbandonare Roma, mentre i giacobini piantano l’albero della libertà nella città eterna. Intanto, mentre Napoleone affronta la campagna d’Egitto, il Regno di Napoli continua a guardare in cagnesco la Francia e si convince della necessità di una spedizione militare contro la Repubblica Romana.

A tal proposito, il re borbone stringe un patto di alleanza (17 maggio 1798) con l’Austria. L’impero asburgico, anzi, manda a Napoli il generale Carl Mack von Leiberich, ”un uomo di quarantacinque o quarantasei anni, alto, biodo, pallido che sull’uniforme austriaca, tra due decorazioni, mostra le onorificenze e i cordoni di Maria Teresa e di san Gennaro”,  col compito di assumere il comando dell’esercito, al momento sfornito di una personalità in grado di guidare le allegre truppe napoletane. Tutto ciò avviene mentre si stipula un ulteriore patto con l’Inghilterra, con il quale si concede alla flotta britannica di controllare il Mediterraneo, in previsione di eventuali attacchi francesi.

Quindi Ferdinando IV, più su insistenza della moglie Maria Carolina che per convinzione propria, decide di invadere la Repubblica Romana, con lo scopo di ripristinare l’ordine e la tranquillità e con l’intento  – a suo dire -  di far trionfare la vera fede.

“La guerra fu risoluta. Si pubblica un proclama, col quale il re di Napoli, con equivoche parole, dichiara che egli voleva conservar l’amicizia che aveva colla repubblica francese ,ma che si credeva oltraggiato per l’occupazione di Malta, isola che apparteneva al regno di Sicilia, e non poteva soffrire che fossero invase le terre del papa,che amava come suo antico alleato e rispettava come capo della Chiesa; che avrebbe fatto marciare il suo esercito per restituire il territorio romano al legittimo sovrano (si lascia in dubbio se questo sovrano fosse o no il papa); ed invita qualunque forza armata a ritirarsi dal territorio romano, perché, in altro caso, se le sarebbe dichiarata la guerra”.

 L’esercito partenopeo, guidato dal generale Mack e ricco di moltissime ed inesperte reclute, in pochissimo tempo entra, senza trovare alcuna resistenza nella città del Campidoglio. Ferdinando spedisce immediatamente messi a Napoli per annunciare la vittoria. Quindi scrive al papa: ”Vostra santità sappia per queste lettere che aiutati dalle grazie divine e del miracolosissimo san Gennaro oggi con l’esercito siamo entrati trionfatori nella santa città di Roma già profanata dagli empj; ma che fuggono spaventati all’apparire della croce e dalle mie armi. Cosicchè vostra santità può riassumere la suprema e paterna potestà che io coprirò col mio esercito. Lasci dunque la troppo modesta dimora della Certosa e su le ali dei Cherubini, come già la nostra Vergine di Loreto, venga e discenda al vaticano, per purificarlo con la santa sua presenza. Tutto è preparato a riceverla; vostra santità potrà celebrare i divini offizj nel giorno del prossimo natale del Salvatore”. Al re di Sardegna, invece, Ferdinando IV scrive: ” I napoletani guidati dal generale Mack hanno sonato i primi l’ora di  morte ai francesi; e dalle cime del Campidoglio avvisano l’Europa che la sveglia dei re è giunta. Sfortunati piemontesi, scuotete le vostre catene, spezzatele, opprimete gli oppressi  vostri; rispondete all’invito del re di Napoli ”.

Basta, però, poco perché le truppe francesi  - pur di numero di gran lungo inferiore rispetto all’esercito borbonico - guidate dal generale Jean-Etienne Championnet, organizzino la difesa e riescano ad avere un immediato sopravvento su un esercito di sbandati. Delle truppe del generale Mack, infatti, si dice che siano rimaste senza scarpe, senza abiti e digiune per tre giorni. Si dice anche che, in una caserma di Roma, alcuni soldati  borbonici abbiano scoperto di avere sabbia al posto della polvere da sparo e che ciò abbia provocato il massacro di due ufficiali!

A metà dicembre  (il giorno 17), mentre l’esercito borbonico, ormai alla deriva, è in ritirata verso Napoli, Ferdinando IV di Borbone dichiara ufficialmente guerra alla Francia, colpevole unicamente di aver opposto una forte resistenza nella difesa della Repubblica Romana.

Ormai la strada per entrare in Napoli è, così, offerta su un piatto d’oro ai Francesi, che trovano l’unica opposizione nell’avversione di gran parte dei territori, per i quali son costretti a passare, per raggiungere la capitale del regno borbonico.

Il re Borbone pensa bene di preservare se stesso e la sua famiglia, per cui, in precipitosa fuga, organizza di trasferirsi a Palermo. Roma è stato solo un miraggio; e la fuga del re di Napoli è l’occasione che giustifica un non troppo irriverente epigramma:

                                                    

Del Tirreno dai liti

Con soldati infiniti,

 venne in Roma bravando

 il re don Ferdinando;

e in pochissimi dì

venne,vide e fuggì.

.

L’esercito borbonico, che in verità è solo un’accozzaglia di reclute male addestrate, in massa  abbandona la divisa e si mette in salvo. Il generale Mack è un capo d’armata senza uomini, è un generale che si è rivelato solo un incapace, tanto che  il popolino –non escludendo i due ufficiali superiori Taxis e Pacz, suoi diretti collaboratori- provocatoriamente canta :

       

Mark, Tac e Pacca

Vennero a Napoli

A  far la cacca

Mo la puzza, e po la botta;

Simmo lesti, Maestà!

 

 La città di Napoli, come gran parte delle province borboniche, vive così gli ultimi giorni dell’anno 1798, nello sbando più totale. Nelle strade e nelle piazze ci sono solo cittadini che si combattano fra loro. Sono, da una parte, i giacobini che attendono l’arrivo dei Francesi e, dall’altra parte,  la maggioranza del popolo, che li avversa. E’un braccio di ferro tra i repubblicani e tutti i filomonarchici che, nonostante siano stati abbandonati dal proprio re, difendono ad oltranza la corona borbonica.

Il giorno 22 dicembre 1798 Carlo De Nicola annota: ”Questa mattina si è trovato affisso un editto di S.M. con cui faceva sapere che andava in Sicilia per trarne soccorso e mettere in salvo la sua Real famiglia, lasciando il generale don Francesco Pignatelli alla testa del governo da Vicario generale, ed il Barone de Mack alla testa delle truppe. Si è pubblicata insieme lettera di S.M. diretta al popolo in data de’16, colla quale lo anima a levarsi in massa per respingere il nemico. Il Real Palazzo e le Reali Segreterie si sono trovate chiuse. La costernazione di tutta la città è stata grande, e molti tra Signori e particolari l’avevano già cominciata ad abbandonare. Il cambio delle carte di Banco per ridurle in contante è giunto al 68% , e neanco si trovava; ma il popolo non ha dato in nessun trasporto”.

E, continua, il giorno di Natale: ”Tutto è quieto: il Re è già partito ed ha lasciato noi tra i palpiti e la miseria. Le disposizioni che si danno ci fanno temere le più gravi sciagure. La notte scorsa fu gittata in mare tutta la polvere da sparo che si conservava sotto il monte di Posillipo; la notte ventura s’incendieranno tutte le barche cannoniere che son costate tesori, i cannoni che difendevano la nostra rada son tutti inchiodati: tali disposizioni che dinotano si vedrà col tempo, per ora si dice che sia perché venendo i Francesi non possano servirsene di difesa contro la squadra Inglese, il cui ammiraglio Nelson si è compromesso fra sei ore di rendere Napoli un mucchio di pietre bombardandola. Si puol credere che un Re tanto amato dai suoi sudditi voglia vederli così distrutti, dopo di aver da essi ottenuto quanto ha voluto?  Iddio sarà per noi, ed Iddio lo perdonerà: egli è tradito da chi gli è a fianco, gli Inglesi lo hanno sacrificato, ed il desiderio di vendetta da cui era animata la moglie, ha rovinato lei e noi. Se queste mie memorie si leggessero ora, sarei rovinato, e pure parla in me l’affezione pel mio Sovrano, ed il dolore che sento al cuore. Egli era adorato, ed ora gli animi dei Napoletani son già da lui alienati: un miracolo può salvarci, e pure da noi si spera”.

 

 

Napoli 1799. Cap. I - Il vento rivoluzionario (1)

 

 

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