Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Rovelli su apparenza e realtà

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Molti sono gli scienziati che sentono il bisogno di spiegare al pubblico le implicazioni filosofiche di ciò che fanno. I fisici sono spesso all’avanguardia in questo campo, forse perché la loro disciplina ha sempre intrattenuto con la filosofia (o, almeno, con alcuni suoi settori) un rapporto privilegiato.

Ma anche biologi, medici, chimici etc. non disdegnano affatto le divagazioni filosofiche. Senza scordare gli scienziati sociali per i quali il dialogo con la filosofia è ancora più spontaneo.

Carlo Rovelli, attualmente professore ordinario di fisica teorica a Aix-Marseille e con una lunga esperienza all’università di Pittsburgh (USA), ha appena pubblicato un bel libro intitolato “La realtà non è come ci appare.

La struttura elementare delle cose” (Raffaello Cortina editore). L’autore è noto soprattutto per i suoi contributi originali al problema della gravità quantistica, che cerca di conciliare la relatività generale einsteiniana con la teoria dei quanti e, in collaborazione con altri studiosi, ha elaborato la “loop quantum gravity”, linea di ricerca teorica che si propone di descrivere le proprietà quantistiche dello spazio e del tempo.

Chi scrive lo ha conosciuto anni orsono al dipartimento di Filosofia dell’Università di Pittsburgh, dove Rovelli partecipava con passione alle discussioni di filosofia della scienza. Passione rimasta intatta, come ben si evince scorrendo le pagine del volume di cui sopra.

All’inizio troviamo un prezioso rimando a Platone: “gli uomini sono incatenati nel fondo di una caverna buia e vedono solo ombre, proiettate da un fuoco alle loro spalle sulla parete davanti a loro. Uno si libera, esce e scopre la luce del sole e il vasto mondo. All’inizio la luce lo stordisce, lo confonde: i suoi occhi non sono abituati.

Ma riesce a guardare e torna felice dai compagni per dire loro quello che ha visto. I compagni stentano a credergli. Noi siamo tutti in fondo a una caverna, legati alla catena della nostra ignoranza, dei nostri pregiudizi, e i nostri deboli sensi ci mostrano ombre. Cercare di vedere più lontano spesso ci confonde: non siamo abituati. Ma ci proviamo. La scienza è questo”.

Dunque il pensiero scientifico altro non fa che ridisegnare continuamente il mondo, abbattendo idee preconcette e costruendo immagini della realtà nuove e più efficaci (anche se di difficile comprensione). “Il mondo – afferma Rovelli – è sterminato e iridescente; vogliamo andarlo a vedere.

Siamo immersi nel suo mistero e nella sua bellezza, e oltre la collina ci sono territori ancora inesplorati. L’incertezza in cui siamo immersi, la nostra precarietà, sospesa sull’abisso di ciò che non sappiamo, non rende la vita insensata: la rende più preziosa”.

Interessante il fatto che l’autore – un fisico teorico – faccia iniziare tale avventura a Mileto, nel 450 A.C. A suo avviso sono infatti i presocratici ad aver per primi intuito che, per l’appunto, “la realtà non è come ci appare”, che dietro le immagini che i nostri sensi ci forniscono c’è un mondo ben diverso, quasi indescrivibile mediante il linguaggio comune. Da allora la ricerca non è mai cessata.

Tante volte ci si è illusi di aver raggiunto la “teoria finale” che tutto spiega senza alcun residuo. E altrettante si è dovuto ammettere che la teoria così faticosamente costruita finale non era affatto: occorreva rimettersi in cammino verso mete sconosciute e appena intuite. Questo è dunque il compito della scienza: restare sempre all’erta con la coscienza che i nostri limiti cognitivi non possono essere trascesi una volta per tutte.

Per quanto Rovelli non parli esplicitamente di filosofia della scienza, nel suo libro sono trattati con chiarezza almeno due dei grandi temi epistemologici tuttora al centro del dibattito contemporaneo. Da un lato il contrasto tra scienza e senso comune, sul quale scrisse pagine magistrali il filosofo Wilfrid Sellars (pure lui, non a caso, attivo per lungo tempo a Pittsburgh). E, dall’altro, l’inesauribilità della ricerca scientifica, espressa in modo icastico nel titolo dell’autobiografia di Karl Popper: “La ricerca non ha fine”.

In perfetto stile popperiano, del resto, è scritta una delle pagine finali del testo di Rovelli: “Da parte mia, preferisco guardare in faccia la nostra ignoranza, accettarla e cercare di guardare oltre, di provare a capire quello che riusciamo a capire. Non solo perché accettare questa ignoranza è la strada maestra per non restare impigliati nelle superstizioni e nei pregiudizi, ma in primo luogo perché accettare la nostra ignoranza mi sembra la strada più vera, più bella e, soprattutto, più onesta”.

Come ho avuto già modo di notare in altre occasioni, hanno torto coloro che oggi insistono sull’inutilità dell’epistemologia popperiana poiché non rispecchierebbe la pratica scientifica. Sir Karl aveva invece capito qual è la molla che spinge la scienza in avanti, e aveva pure compreso che tale “avanti” ha sempre spazi aperti in cui procedere senza sosta.

 

 

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