Donato De Donatis. Le imprese per nulla eroiche di un capobanda borbonico
Uno dei principali capimassa sanfedisti fu il famigerato Donato De Donatis, il maggiore alleato del capobanda Giuseppe Costantini, detto Sciabolone. Donato De Donatis nacque nel 1761 a Fioli, frazione di Rocca Santa Maria (città nel territorio di Teramo), da Gregorio e Annantonia Bilanzola di Acquaratola e fu avviato al sacerdozio dai familiari. Curiosamente questa comitiva di delinquenti era capeggiata da tre sacerdoti, il capobanda don Donato De Donatis appunto, assieme a don Carlo Emidio Cocchi ed a don Donato Naticchia. Era presente anche un ex frate, di nome Vincenzo Benignetti, originario di Camerino, che aveva praticamente le funzioni di giullare nella banda ed era un pregiudicato diverse volte incarcerato perché colpevole di truffe e furti. Non sorprende pertanto che il vescovo di Teramo avesse finito con lo scomunicarlo. Mediante le sue azioni brigantesche questo ex sacerdote s’impadronì delle cittadine di Campli e di Civitella del Tronto. Di quest’ultimo paese egli prese possesso il giorno della festa del santo patrono, sant’Ubaldo, e per festeggiarlo non trovò di meglio che far fucilare pubblicamente 17 uomini. In teoria questo brigante avrebbe dovuto soltanto aiutare il comandante borbonico regolare, il generale De Cossio, a controllare la città, ma il capobanda in breve tempo riuscì ad esautorare il rappresentante dell’autorità monarchica a cui, in astratto, egli professava obbedienza. Don Donato De Donatis provò anche ad impadronirsi di Teramo, ma fu respinto da altri briganti che avevano assunto controllo di questa città, i fratelli Fontana, gli stessi che si resero responsabili dell’eliminazione fisica d’una intera banda brigantesca rivale, quella dei fratelli Rondinoni. La presa d’Ascoli da parte dei briganti di De Donatis vide un saccheggio di grandi proporzioni e scene di sequestro di persona e ricatto: era sufficiente possedere dei beni per venire catalogato quale “giacobino” e derubato, cosicché l’ideologia diventava un semplice pretesto per il furto, il sacco e l’estorsione, secondo un modus operandi comune alle truppe sanfediste. Prima di dare l’assalto alla città d’Acquaviva questo brigante la minacciò, fra l’altro, di saccheggio, che poi effettivamente avvenne, accompagnato da massacri e da incendio d’abitazioni. Addirittura lo stesso re Ferdinando IV, nonostante avesse al suo servizio intere bande brigantesche ree di fatti criminali (fra cui il cannibale e probabile satanista Gaetano Mammone, a cui il sovrano scriveva chiamandolo “amico”), fece sapere tramite un suo messaggio a questo ex sacerdote che disapprovava la sua condotta. La richiesta fu accolta e furono riconosciute loro rendite vitalizie. Questo capobanda si vide così accordare dal “re dei lazzaroni” una pensione di 1200 ducati all’anno ed una sorta di liquidazione di molte decine di migliaia di ducati, in aggiunta al possesso d’alcuni beni fondiari. |
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