Scienza e Metafisica
La razionalità umana è, in buona misura, capacità di idealizzare e di trascendere il mero dato empirico. Si tratta di una facoltà che noi soli nel mondo naturale possediamo, la quale ci consente di costruire una dimensione ideale della realtà e di staccarci dalla realtà stessa come è percepita dai sensi. Questa “dimensione del possibile” svolge dunque una funzione essenziale in tutte le nostre azioni, poiché ci permette di pianificare il futuro e di ragionare in termini ipotetici. E se qualcuno trova inappropriato insistere sulla dimensione della possibilità quando si parla di scienza, si rifletta su queste parole dello scienziato Giuseppe Sermonti: “Le teorie scientifiche, chiediamoci, riguardano veramente la realtà, oppure si occupano del possibile? Pensiamo alla teoria della gravitazione universale di Newton: riguarda masse particolari, là dove sono, oppure la massa ideale nello spazio ideale? Essa è verificata dal comportamento di gravi particolari, ma certamente è teoria perché vale per ogni massa: questa realtà scientifica non la si incontra per strada”.
Considerazioni come queste sono molto importanti quando si affronta il tema dei rapporti tra scienza e metafisica. E’ un dato di fatto che il contrasto scienza/metafisica, come è stato impostato da una parte almeno della filosofia del ’900, appare oggi assai meno netto rispetto a pochi decenni orsono. In particolare, è problematico stabilire dei criteri di demarcazione tra i due campi che siano, da un lato, adeguatamente precisi, e che godano dall’altro di un consenso sufficientemente vasto. Con il fallimento dei tentativi volti a dimostrare che il mondo è una costruzione logica ottenibile da descrizioni semplici dei dati di esperienza, e la conseguente crisi del principio di verificazione, il problema di separare la scienza dalla metafisica ha manifestato di nuovo tutta la sua complessità. E’ stato notato, a tale proposito, che il principio di verificazione fu introdotto per risolvere le perplessità metafisiche, ma esse alla fine hanno vinto.
Nel constatare che si verifica una relazione di feed-back tra scienza e metafisica, molti autori contemporanei sono giunti alla conclusione che una linea di confine precisa tra i due campi non può essere tracciata. Si noti, a questo punto, che la metafisica diventa una disciplina di tipo anche (ma non soltanto) osservativo, nel senso che essa ha bisogno di ricorrere a un’attenta fenomenologia delle caratteristiche più generali della realtà. La struttura della metafisica è come quella di un edificio molto complesso, dove il punto di partenza - le fondamenta dell’edificio - è dato dalla nostra esperienza globale e primaria del mondo. Contrariamente a quanto si erano illusi di poter fare Bacone e Stuart Mill, non è possibile trovare delle regole per dedurre dai fatti le ipotesi universali.
La novità è che, oggi, occuparsi di problemi metafisici senza tener conto di quanto gli scienziati fanno è piuttosto arduo: la figura del metafisico che si propone di svelare la struttura della realtà ricorrendo soltanto alla ragion pura appare superata. Naturalmente ciò non implica affermare che scienza e metafisica sono la stessa cosa. Più semplicemente significa riconoscere che, una volta appurato il fallimento del programma di eliminazione della metafisica, esiste un ambito d’indagine legittimo che non è identificabile in toto con quello scientifico, ma nemmeno è separabile da esso completamente a causa dei rapporti di feed-back cui prima accennavo. I continui mutamenti della visione scientifica del mondo dovrebbero invece indurci a riflettere sul carattere eminentemente storico dell’impresa scientifica.
Da quanto detto finora si desume che il nodo dei rapporti tra scienza e metafisica è molto complesso, e non si presta a strategie eliminative o riduzioniste come quelle elaborate da alcune correnti filosofiche del secolo scorso. Per esempio, ai nostri giorni è in aumento il numero degli scienziati che attribuiscono alla natura caratteri di creatività, ragion per cui due dei quesiti che si pongono con maggiore frequenza sono: “Come possono i semplici processi fisici spiegare la continua creatività della natura?”, e “Esistono dei principi organizzativi di ordine superiore che danno forma a materia ed energia spingendole verso stati più elevati di ordine e di complessità?”. Solo di recente gli scienziati hanno cominciato a comprendere come complessità e organizzazione possono emergere dall’informe e dal caos, e a ipotizzare la presenza di principi e processi di auto-organizzazione in ogni ramo della scienza.
A un osservatore attento non sfuggirà che le questioni cui ho appena accennato si collocano in un alveo tipicamente metafisico, riguardando proprio la natura della realtà in quanto tale. Esse nascono dalla ricerca scientifica pura, e rappresentano le conseguenze metafisiche che gli stessi scienziati cercano di trarre riflettendo sui risultati ottenuti. Chiedersi se la varietà delle forme e delle strutture naturali sia il risultato del caso oppure l’esito di un’attività creativa spinge a porre un ulteriore quesito: fino a che punto siamo autorizzati a supporre che lo stato attuale dell’universo sia in qualche senso frutto di predestinazione? Si tratta di domande che lo scienziato si pone ma che riguardano certamente anche il filosofo, in quanto il problema del determinismo è da sempre una delle questioni centrali della metafisica.
Si può inoltre sottolineare che il passaggio dal paradigma newtoniano a quello che oggi si definisce “paradigma della complessità” offre all’epistemologo abbondanti spunti su cui lavorare. E’ un dato di fatto che tale passaggio modifica la percezione che gli scienziati hanno della natura dell’universo. Nei secoli passati le concezioni newtoniana e termodinamica hanno presentato l’universo come una sorta di macchina sterile. Il nuovo paradigma dell’universo creativo, invece, riconosce il carattere innovativo degli stessi processi fisici. Ne consegue che vengono posti in rilievo gli aspetti collettivi e organizzativi della natura. Mentre la prospettiva del vecchio paradigma era analitica e riduzionistica, quella del nuovo è sintetica e olistica. Come affermano Ilya Prigogine e Isabelle Stengers, “Il nostro universo ha un carattere complesso e pluralistico. Le strutture possono scomparire, ma possono anche apparire”.
L’attenzione viene dunque dedicata alla complessità e all’organizzazione piuttosto che alla semplicità. Si noti, a ogni buon conto, la ripresa di un termine come “olismo” che aveva goduto di cattiva reputazione tra gli scienziati per molto tempo. Si può bensì tendere a cogliere la totalità del reale, ma occorre essere coscienti che nemmeno la metafisica riesce a realizzare tale obiettivo in modo completo. Ciò equivarrebbe, infatti, alla pretesa di riunire in un’unica conoscenza tutti i tipi di realtà, che sono potenzialmente infiniti in quanto dipendono dalle prospettive che noi adottiamo nel rapportarci alla realtà stessa.
L’immagine dello scienziato che fa ricerca senza avere in mente ipotesi metafisiche è, dunque, un mito. La distinzione tra scienza e metafisica è di difficile esplicitazione perché presuppone che ci sia una sola scienza e una sola metafisica, il che non è. Occorre relativizzare tale distinzione a un particolare periodo storico, prendendo in considerazione i punti di vista di positivismo, neopositivismo, filosofia analitica o tradizione ermeneutica. Sono sempre la scienza e la metafisica di una certa epoca a confrontarsi, e occorre comprendere che in futuro la situazione probabilmente muterà. Non esiste una “immagine scientifica del mondo” atemporale, ma tante immagini inserite nel flusso del tempo. Ne consegue che il contrasto scienza/metafisica, con tutti i suoi problemi di demarcazione, va visto come un episodio della storia del pensiero del secolo passato e, in quanto tale, deve essere storicizzato. Mentre è possibile avere una visione del mondo ignorando la scienza, non si può fare attività scientifica senza avere una visione del mondo: ogni metafisica è teorizzazione e interpretazione della realtà.
Ma fino a che punto la metafisica può essere autonoma? Questo è probabilmente il maggior punto di debolezza di coloro che insistono in qualche modo sulla superiorità della metafisica. Non c’è superiorità della scienza sulla metafisica o viceversa, ma un rapporto di interscambio dialettico. Occorre, insomma, una metafisica meno pretenziosa: i criteri di intelligibilità del reale cambiano ed evolvono, proprio come accade per le teorie scientifiche. Lo stesso fatto che altre civiltà abbiano elaborato altre metafisiche, diverse da quelle prevalenti nella cultura occidentale, è un punto a favore del pluralismo metafisico. Si noti inoltre che, se parliamo di “condizioni di intelligibilità del reale”, risulta arduo determinare dei confini rigidi tra la dimensione ontologica e quella epistemologica (cognitiva). Per poter far questo, infatti, dovremmo adottare quel punto di vista - che ci è precluso a causa dei nostri limiti cognitivi - definito da Hilary Putnam “visione dell’occhio di Dio”.
Si può sostenere che la scienza stessa ha una sua metafisica? Per rispondere, è opportuno chiarire che la metafisica ha - in riferimento alla scienza - due significati principali; in termini kantiani essi possono essere definiti significato “trascendentale” e significato “trascendente”. La dimensione trascendentale della metafisica è riconducibile alle convinzioni fondamentali che ogni individuo intrattiene a proposito della realtà. Esse ovviamente determinano la visione del mondo dell’uomo, ed è importante sottolineare che possono essere inconsapevoli, nel senso che molto spesso l’individuo non è conscio di averle. Si deve altresì notare che la dimensione trascendentale non è indipendente dall’esperienza. Certamente le credenze non sono mere generalizzazioni empiriche, ma vengono raggiunte mediante l’interazione tra esperienza e teorizzazione. Una volta conseguite, inoltre, esse costituiscono le pre-condizioni per esperire la realtà.
Per quanto riguarda in particolare la scienza, la dimensione trascendentale è costituita dalle credenze di base che gli scienziati - in quanto gruppo - intrattengono sulla natura della realtà; tali credenze si manifestano proprio nella loro attività scientifica. Spostandoci dal piano psicologico a quello cognitivo, si può anche affermare che la dimensione trascendentale della scienza va identificata nelle sue presupposizioni fondamentali. Ed è ovvio che, proprio per il loro carattere, esse non vengono raggiunte nel corso dell’attività scientifica, ma devono essere pre-scientifiche o meta-scientifiche. Ne consegue che possono essere riviste o addirittura abbandonate in favore di presupposizioni diverse o anche alternative. Proprio per questo, il fatto che la scienza abbia delle presupposizioni trascendentali non è in conflitto con il concetto di scienza intesa come attività dinamica e in continua evoluzione.
Il secondo significato del termine “metafisica” (in relazione alla scienza) è quello trascendente, identificabile nella dimensione che si colloca al di là dei limiti dell’esperienza. E’ essenziale, quando si studia la scienza, comprendere la possibilità che ci sia qualcosa che si colloca al di là dei limiti della conoscenza empirica. In altre parole, la scienza deve forse limitarsi a indagare ciò che può essere conosciuto empiricamente, oppure deve penetrare in un regno di entità teoriche? Una risposta positiva alla seconda parte di questo quesito appare ineludibile, ove si rammenti che in ambito scientifico è costante la tendenza a postulare entità inosservabili per spiegare la realtà direttamente esperibile. Lungo queste linee si svolge il dibattito, tuttora aperto nella filosofia della scienza, tra empiristi e realisti.
Ma occorre pure notare che al termine “trascendente”, come è stato utilizzato in questo contesto, non vanno attribuite caratteristiche di stabilità e di rigidità che esso non possiede. Ciò che è trascendente in un certo periodo della storia della scienza può cessare di esserlo in una fase successiva dello sviluppo scientifico, poiché in tale storia si verificano in continuazione casi in cui questioni ipotetiche diventano questioni di fatto. Si può infine rilevare che il realista non è obbligato a sostenere che si possa “conoscere” un regno di entità trascendenti l’evidenza empirica; può invece limitarsi ad affermare che la dimensione empirica è resa intelligibile mediante la teorizzazione circa la natura del non-empirico e le sue relazioni con la dimensione dell’empiria.
Quali sono le conclusioni generali che si possono trarre dalle considerazioni sin qui svolte? In primo luogo, appare chiaro che esiste un senso minimale del termine “metafisica” cui risulta praticamente impossibile rinunciare, vale a dire quello secondo cui la metafisica incorpora la concezione più generale della realtà. Poiché nessun individuo può esimersi dall’avere alcune idee fondamentali circa il reale, neanche gli scienziati sono esenti da questa regola: al massimo si può riconoscere che alcuni di essi adottano una cornice metafisica implicita.
In secondo luogo, pare arduo negare che vi sia un rapporto di feed-back fra conoscenza scientifica e riflessione filosofica. Ciò accade perché l’indagine scientifica muove sempre da uno schema concettuale di carattere generale rispetto agli enti che costituiscono oggetto d’indagine. Ma tale schema concettuale è in buona parte formato proprio da elementi di carattere metafisico. A differenza di quanto si sosteneva in passato, tuttavia, tali elementi metafisici risultano tutt’altro che rigidi e immodificabili. Basti pensare al fatto che le concezioni metafisiche tradizionali dello spazio e del tempo sono state in effetti modificate, in quanto esse non erano più compatibili con i risultati conseguiti della scienza odierna. Sono quindi più che mai attuali le considerazioni di William James, secondo il quale le grandi teorie scientifiche e metafisiche del passato furono certamente strumenti adeguati per secoli, ma ciò non dovrebbe impedirci di capire che quei limiti sono stati oltrepassati dalla nostra esperienza.
Ciò significa riconoscere che teorie che in passato si ritenevano assolutamente vere si sono poi dimostrate vere soltanto in riferimento a ben determinati quadri concettuali. Ricondurre la metafisica entro i limiti della nostra esperienza, pertanto, non significa svalutarla, ma riconoscerne il carattere intrinsecamente dinamico.
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