Karl Popper e la filosofia della scienza
Karl Raimund Popper è unanimemente considerato uno dei maggiori filosofi del secolo scorso. Spentosi a Londra nel 1994 all’età di 92 anni, era nato in quel grande crogiolo culturale che fu Vienna a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del ’900. A causa del suo anti-nazismo e delle ascendenze ebraiche della famiglia, emigrò prima in Nuova Zelanda e poi in Inghilterra, dove insegnò presso la celebre London School of Economics. L’importanza del pensiero popperiano è testimoniata dal fatto che le sue idee ancor oggi influenzano non solo i filosofi di professione, ma anche i politici, gli economisti e gli scienziati sociali. Popper ha tra l’altro coerentemente applicato le sue vedute all’analisi della società e della politica, fino a diventare uno dei maggiori teorici contemporanei del pensiero liberale.
Per comprendere l’apporto originale di Popper alla filosofia della scienza, occorre parlare del celebre “principio di falsificazione” (la sua epistemologia, infatti, si definisce in modo standard come “falsificazionismo”). In che cosa consiste questo principio? Secondo la visione tradizionale, i cui inizi risalgono al Novum Organum di F. Bacone, la conoscenza scientifica avanza in base al principio di induzione. Esso ci dice che gli scienziati accumulano un grande numero di osservazioni empiriche ripetute, sulle quali vengono poi costruite le asserzioni generali e le teorie.
Queste ultime, pertanto, si fonderebbero su cumuli di osservazioni di esempi singoli. Tuttavia, già Hume condusse una critica esplicita di questa visione della conoscenza scientifica. Il filosofo inglese notò infatti che nessun numero di asserzioni singolari, per quanto grande esso sia, può implicare “logicamente” un’asserzione illimitatamente generale. Ad esempio, il fatto che alla fine della notte sorga sempre il sole non ci autorizza, dal punto di vista logico, a dire che esso sorgerà anche domani. Noi, in effetti, ci attendiamo che sorga, ma questa attesa è basata su una sorta di abitudine psicologica, e non possiede alcun carattere di necessità (detto per inciso, questa è la base della famosa contestazione humeana del principio di causalità). Da tutto ciò deriva che, contrariamente a quanto pensava Bacone (e molti altri dopo di lui), l’induzione non può essere giustificata dal punto di vista logico.
Nella sua maggiore opera epistemologica, Logica della scoperta scientifica, Popper accetta le osservazioni di Hume, ma tenta pure di fornire una soluzione alle difficoltà che essa comporta. Egli concorda sul fatto che, se abbiamo fino a questo momento osservato tantissimi corvi neri (A è un corvo nero, B è un corvo nero, C è un corvo nero, etc.) ciò non autorizza, dal punto di vista logico, ad affermare che tutti i corvi sono neri. Chi può escludere che, domani, da qualche parte nel mondo, qualcuno possa osservare un corvo che nero non è? Qual è, a tale proposito, la conclusione di Popper? Che le generalizzazioni empiriche non sono verificabili come sostengono gli induttivisti, ma falsificabili. Altrimenti detto, secondo l’epistemologo austriaco nella scienza è sufficiente una singola osservazione empirica a falsificare una teoria, mentre ripetute osservazioni non bastano a verificarla.
Da un punto di vista storico, è importante rammentare che, adottando questa linea d’indagine, Popper si contrappone a quella che nella prima metà del secolo scorso è stata la corrente epistemologica dominante: il neopositivismo logico. I neopositivisti sono induttivisti e sostengono il principio di verificazione, secondo il quale una teoria può effettivamente essere verificata con metodi induttivi. Popper, invece, afferma che le teorie possono soltanto essere poste continuamente alla prova da tentativi sistematici volti a confutarle. Ne deriva che una teoria è valida quando resiste ai tentativi di confutazione, e non lo è in caso contrario. E tutto ciò - come vedremo - ha delle conseguenze rilevanti quando dall’epistemologia si passa all’analisi della società e della politica.
Che cosa succede, dunque, quando si rifiuta la confutazione introducendo ipotesi o definizioni “ad hoc”? Secondo Popper si fuoriesce automaticamente dalla scienza. Non si deve aggirare la confutazione rifiutando di accettare l’attendibilità di risultati sperimentali che riteniamo scomodi o formulando le nostre teorie in modo ambiguo, poiché in tal caso non potremmo qualificare le teorie stesse come “scientifiche”.
È opportuno sottolineare che la strategia popperiana conduce ad affermare il carattere provvisorio e controvertibile della conoscenza scientifica. In altri termini, è sempre possibile che quanto conosciamo o riteniamo vero oggi si riveli, in futuro, falso. E la storia della scienza è costellata di teorie che, ritenute vere e definitive in una certa epoca, si sono poi dimostrate fallaci. Ad esempio, la teoria di Einstein ha sostituito quella di Newton, la quale aveva a sua volta soppiantato quella tolemaica. Ma niente ci autorizza a credere che la teoria einsteiniana sarà vera per sempre: prima o poi essa verrà superata come è accaduto alle precedenti. Limitiamoci per ora ad osservare che questa strategia, secondo il nostro autore, è valida in ogni ramo della conoscenza, ivi incluso l’ambito di competenza della politica. Egli ha espresso in modo suggestivo questa idea con la frase “La ricerca non ha fine”, che è poi il titolo della sua autobiografia.
Il filosofo austriaco afferma che l’avvenimento che gli fece comprendere la natura perennemente ipotetica della conoscenza scientifica fu proprio la sostituzione della teoria di Newton da parte di quella di Einstein. Per quale motivo? Perché è difficile trovare nella storia della scienza una teoria che abbia conseguito successi maggiori di quella newtoniana. Le sue leggi erano corroborate dalle osservazioni, ed essa era in grado di predire gli avvenimenti in modo assai preciso.
Ebbene, Einstein propose una nuova teoria che, oltre a spiegare tutto ciò che era incluso in quella newtoniana, spiegava di più. E quando i complicati calcoli di Einstein furono confermati dalle osservazioni sperimentali, Popper si rese conto che è profondamente errato supporre che una teoria, per quanto utile e perfetta possa sembrare, abbia raggiunto la verità definitiva circa la struttura del mondo. È insomma errata la credenza che la scienza ci conduca in qualche modo alla certezza di una spiegazione ultima e definitiva: il destino di tutte le teorie scientifiche è quello di essere, prima o poi, falsificate in modo parziale o totale. Anzi, si deve accettare la falsificazione, poiché essa ci testimonia che abbiamo compiuto passi innanzi nella conoscenza del mondo. Ed è, questo, il modo migliore per non cadere nel dogmatismo, nella difesa di posizioni che, per esser state smentite dai fatti, non risultano più sostenibili. Essendo la scienza un tipo d’indagine in cui occorre l’apertura della mente al mondo così come esso è, e non come noi pensiamo che sia, i difetti devono essere eliminati, e non ignorati o nascosti, poiché ciò permette il progresso intellettuale e materiale.
Venendo ora all’applicazione dell’epistemologia allo studio della società e della politica, riprendiamo l’invito popperiano a formulare le nostre teorie nel modo più chiaro possibile, così da esporle spontaneamente alla confutazione. In primo luogo, Popper rivolge le proprie critiche alla psicoanalisi e al marxismo, accusati entrambi di evadere sistematicamente la confutazione, riformulando in continuazione la teoria per evitare le prove e conservarne a tutti i costi la validità.
Ma facciamo un passo indietro. Per Popper, il criterio di demarcazione tra ciò che è scientifico e ciò che non lo viene fornito dalla falsificabilità. Se tutti i fatti possibili vanno d’accordo con una teoria, allora nessun fatto reale può essere presentato come una prova a suo favore. Soltanto se qualche concepibile osservazione può confutarla, la teoria si può provare, e soltanto se può essere provata la teoria è scientifica. La teoria di Einstein, ad esempio, si espose, all’inizio, alla confutazione senza erigere alcuna barriera difensiva: essa prevedeva il verificarsi di eventi osservabili che nessuno, sino a quel momento, aveva ipotizzato. Tali effetti furono in seguito osservati, e quindi la validità della teoria venne confermata. Ma era chiaro che, ove ciò non si fosse verificato, Einstein era pronto ad accettare la confutazione. Non così per psicoanalisi e marxismo: essi, secondo Popper, sono congegnati in modo tale che nessuna concepibile osservazione può contraddirli.
Dal marxismo si possono in effetti trarre delle predizioni sottoponibili alla procedura della falsificazione. Anzi, parecchie predizioni della teoria marxista erano già state falsificate negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, quando Popper elaborava le proprie tesi di filosofia politica (esempi: il crollo del sistema economico capitalistico, e la naturale estensione di una rivoluzione di tipo marxista a tutti i Paesi). Il problema era che i marxisti in pratica rifiutavano di accettare la falsificazione, e continuavano a modificare la propria teoria per tenere in scacco la falsificazione stessa. Le loro idee finivano insomma per assumere la certezza - non certo falsificabile - di una fede religiosa, per cui ogni controdeduzione si arenava di fronte al loro rifiuto di sottoporre la teoria a test di falsificabilità. La cosa non avrebbe ovviamente avuto importanza alcuna se i marxisti non avessero insistito a qualificare la loro teoria come “scientifica”. E, invece, proprio questo essi facevano.
La confutazione popperiana del marxismo si trova nella sua principale opera di filosofia politica, La società aperta e i suoi nemici. Il nostro autore la scrisse, pur pubblicandola soltanto nel 1945, negli anni ’30, e cioè mentre Hitler e Stalin sembravano non incontrare ostacoli in Europa. E’ un libro contro il totalitarismo in genere, di qualunque colore esso sia, e contiene un atto di accusa spietato nei confronti tanto della Germania nazista quanto dell’Unione Sovietica staliniana. Per spiegare l’attrazione che il totalitarismo da sempre esercita sull’animo delle masse, Popper ricorre a concetti di tipo psicologico: la libertà comporta responsabilità, e a sua volta la responsabilità spaventa. Accettare di vivere con responsabilità significa dover compiere continuamente delle scelte; le scelte a loro volta implicano la possibilità dell’errore e, di conseguenza, si rivelano gravose. Esiste in noi un perenne elemento infantile, il quale ci fa desiderare di sfuggire a tale condizione per ricercare invece la sicurezza, non importa come conseguita. Vogliamo quindi che le decisioni gravose vengano assunte da qualcuno che riteniamo più forte di noi: il capo o il partito.
Le società pre-critiche, con il loro autoritarismo, la gerarchia, i riti e i tabù, offrivano delle certezze immutabili in grado di soddisfare tali bisogni. L’emanciparsi dell’uomo dal tribalismo dà inizio al pensiero critico, il quale rivendica la dignità dell’individuo che mai deve annullarsi nel tutto (tipico è l’esempio di Socrate). Platone, secondo Popper, è l’allievo di Socrate contrario all’eventualità che la società divenga più aperta. In lui l’epistemologo austriaco vede l’iniziatore di una tendenza filosofico-politica che avrà molta fortuna nei secoli e che potremmo definire, schematizzando, “controrivoluzionaria e nostalgica dei bei tempi andati”. Tutti i pensatori che si rifanno - in qualche caso senza esserne coscienti - a Platone, predicano il ritorno alla società del passato, a una società più chiusa rispetto a quella in cui vivono. Sin dagli inizi del pensiero critico, alla tradizione della civiltà se ne contrappone un’altra, che reagisce alle difficoltà ingenerate dal progresso propugnando il ritorno alla sicurezza della società pre-critica e tribale.
E’ interessante notare come Popper giudichi in realtà assai simili, specialmente con riguardo agli effetti che producono, le idee reazionarie e quelle utopiche. In entrambi i casi, la società nel suo stato attuale viene rifiutata; il pensiero reazionario afferma che una società perfetta esisteva in passato, quello utopico che una società ideale esisterà nel futuro. Tanto i reazionari che gli utopisti non disdegnano l’uso della violenza. Mentre i primi vogliono bloccare i processi di mutamento della società, i secondi, che si considerano chiamati a costruire la società perfetta del futuro, cercano, quando a loro parere è stata realizzata, di renderla immobile e perpetua. Come negare che il risultato, pur perseguito con fini diversi, sia il medesimo, e cioè il blocco del mutamento sociale?
E come si può bloccare la società? Praticando un controllo pervasivo e onnipresente, togliendo spazio all’iniziativa individuale sia in campo politico che economico (in quanto essa potrebbe turbare l’equilibrio così faticosamente raggiunto). Non si può comunque sorvolare sul fatto che lo sbocco, in entrambi i casi, è il totalitarismo. Ora, secondo Popper reazionari ed utopisti non possono affermare che gli effetti perversi delle loro teorie sono dovuti a travisamenti; il fatto è che le teorie reazionarie e quelle utopistiche appaiono perfette, appunto, “in teoria”, ma sfortunatamente non funzionano nella pratica. Ma questo è a suo parere un sofisma: non vi possono essere teorie perfette che non funzionano dal punto di vista fattuale, poiché compito primario di ogni teoria è quello di essere messa alla prova (per essere confermata o invalidata). Dunque, se una teoria nella pratica non funziona, ciò è più che sufficiente a mostrare che in essa c’è qualcosa di sbagliato.
Popper, tuttavia, si rende ben conto che le conseguenze aberranti non possono far ritenere che il desiderio di costruire una società perfetta sia esso stesso perverso. Anzi, sono di solito proprio gli uomini intelligenti e generosi che più si battono per la società ideale, e molti orrori compiuti nel corso della storia si possono far risalire a un insaziabile desiderio di giustizia sociale e di perfezione morale. Marx viene visto da Popper quale esempio paradigmatico del filosofo geniale la cui teoria politica progetta un futuro perfetto e, nel valutare le tesi marxiane, egli adotta un metodo desunto dai suoi principi epistemologici: individuare il lato più resistente delle idee dell’avversario sferrando proprio contro di esso l’attacco. Il risultato è di solito buono poiché, se le argomentazioni risultano stringenti, l’interlocutore sarà alla fine costretto a concordare con lui. Popper parte dalla pretesa di scientificità della teoria marxiana. Marx, in effetti, si considerava il Newton delle scienze storico-sociali, e pensava di aver scoperto le leggi definitive dello sviluppo storico ed economico. Ne consegue che i suoi seguaci devono riuscire a difendersi mantenendosi sul piano scientifico, poiché altrimenti possono senza troppe difficoltà essere accusati di incoerenza. In altri termini, se il marxista viene confutato scientificamente su un qualche punto, non gli è permesso ricorrere ad altre forme di analisi e di valutazione (quella ideologica, ad esempio): è necessario che si sottoponga ai controlli e che accetti le loro conseguenze, positive o negative che siano.
E il pensiero di Marx - da non confondersi con il marxismo divulgativo diffusosi nei decenni passati - ha in effetti dato origine a una serie di previsioni che si possono sottoporre a falsificazione. Popper aggiunge che le più importanti tra esse sono appunto state falsificate nel periodo che passa dalla loro elaborazione ai giorni nostri. Ne citiamo solo una paio, per non essere accusati di voler troppo entrare in dettagli storico-politici contingenti. Secondo la teoria marxiana, solo i Paesi capitalistici ad alto livello di sviluppo possono diventare comunisti, mentre gli altri debbono completare lo stadio dello sviluppo capitalistico maturo. Ciò, tuttavia, non è avvenuto, e sono diventate comuniste nazioni a uno stadio largamente pre-industriale. Sempre secondo la teoria marxiana, per motivi scientificamente dimostrabili il proletariato industriale è destinato a diventare sempre più povero, acquistando così uno slancio rivoluzionario crescente. Ciò è falso; in realtà, dai tempi di Marx in avanti, esso è diventato più ricco, meno numeroso e meno interessato a ipotesi di tipo rivoluzionario.
Popper critica pure in modo tenace lo “storicismo”, termine che nel suo pensiero acquista un significato diverso da quello usuale. È per lui storicista il filosofo che pensa che la storia abbia una meta, un piano che deve attuarsi seguendo qualche modello coerente. A suo parere, invece, il mutamento avviene secondo canoni di tipo indeterministico: esso è il risultato dei nostri tentativi di risolvere i problemi che si presentano nella vita. I tentativi di risolvere i problemi, a loro volta, comportano immaginazione, capacità di scelta, fortuna; tutti i fattori imponderabili che nulla hanno a che fare con l’inevitabilità deterministica di tipo storicista.
Contrariamente ai marxisti, il filosofo austriaco afferma che nessuna entità è in grado di prevedere il futuro in modo scientifico, e ciò vale sia per gli scienziati sia per le macchine: se potessimo prevedere le scoperte del futuro, verrebbe annullata la stessa differenza tra futuro e presente. E’ importante rammentare che, se si parte da simili premesse, risulta impossibile costruire una “storia teorica” nello stesso modo in cui si può costruire una fisica teorica. Ma se entra in crisi l’idea di un futuro scientificamente prevedibile, allora entra parimenti in crisi l’esigenza - a essa correlata - di una società totalmente pianificata. Le azioni umane hanno sempre delle conseguenze impreviste, e l’idea della pianificazione totale si rivela così un mito e null’altro.
Rivendicare la razionalità di progetti illimitati che si propongono di modificare in modo totale la società significa presupporre un grado di conoscenza elevatissimo, che noi mai potremo possedere a causa dei nostri limiti naturali. Si noti, comunque, che una società libera non può imporre che tutti condividano gli stessi scopi, mentre un governo che si basi su un programma di tipo utopistico è costretto ad andare esattamente in quella direzione per mantenersi fedele ai propri obiettivi primari. Autoritarismo e utopia sono insomma abbinati sin dalle origini (e poco importa, ai fini pratici, che tale autoritarismo venga perseguito per ottenere il massimo della giustizia e della felicità).
Chi si propone di donare all’umanità la felicità definitiva non può lasciarsi deviare da considerazioni di carattere meramente umanitario: ciò sarebbe un segno di debolezza. Ma gli obiettivi ideali si rivelano ben presto irraggiungibili, ragion per cui si prolunga all’infinito il periodo in cui è necessario reprimere con spietatezza gli oppositori; e così intolleranza e autoritarismo si consolidano al di là delle buone intenzioni delle origini. Se si pensa che il mutamento sociale, nel corso della storia, non ha mai subito arresti, la stessa idea di una società perfetta è per Popper priva di senso: anche se si può ammettere che una simile società potrebbe iniziare ad essere costruita, essa comincerebbe tuttavia ad evolversi contestualmente, modificandosi nell’atto stesso di venir edificata. E’ dunque fuorviante ipotizzarne la realizzazione, poiché essa dovrebbe essere immobile mentre lo sviluppo sociale non ammette, per definizione, l’immobilità.
Veniamo infine ad un concetto fondamentale della filosofia politica popperiana: quello di “società aperta”. Il nostro autore considera la vita come un processo in cui gli esseri animati sono senza posa impegnati a risolvere problemi, e una società sarà dunque aperta se reca dei contributi alla soluzione di detti problemi. Ma come risolverli? Azzardando dei tentativi di soluzione, ai quali fa seguito la critica e l’eliminazione degli errori eventualmente commessi; ecco quindi Popper auspicare forme di società che permettano di avanzare liberamente molte proposte, ognuna delle quali deve poi essere sottoposta al vaglio critico. E, a tale proposito, una società è destinata a conseguire maggiori successi sul piano materiale se possiede istituzioni libere piuttosto che ordinamenti autoritari. In questo senso, un indirizzo politico è una “ipotesi” che può essere equiparata a quelle scientifiche: deve essere messa alla prova nella realtà e corretta alla luce dell’esperienza. L’indagine critica consente di scoprire gli errori nascosti e di innestare procedure di correzione, prima che essi possano causare troppi danni.
E’ pericoloso chiudere gli occhi di fronte ai propri sbagli: anzi, è proprio a essi che occorre prestare la massima attenzione. La razionalità scientifica indica un procedimento che conduce a una società aperta e pluralista, in cui trovano espressione prospettive diverse senza arrivare alla rottura del sistema. Gli indirizzi di governo possono mutare sotto l’incalzare delle critiche, e coloro che sono al potere devono poter venire rimossi senza drammi di alcun genere per essere sostituiti da persone che perseguono obiettivi politici anche molto distanti. La tolleranza non può comunque essere senza limiti, giacché il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. Posto che la società perfetta e la felicità assoluta non sono di questo mondo, occorre minimizzare l’infelicità praticando un sano realismo riformatore. Si rammenti, per concludere, che molte delle tesi popperiane paiono oggi scontate, ma non lo erano affatto negli anni ’30 del secolo scorso quando vennero elaborate.
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