Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Storia e post - modernità

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Per quanto popolare il concetto di “post-modernità” possa essere oggi, in realtà nessuno è in grado di specificare che cosa significa vivere in un tempo post-moderno o post-storico.

Eppure tale concetto ha assunto, nella filosofia e nella teoria politica dei nostri giorni, un ruolo di grande importanza.

Prendendo spunto da considerazioni di Nietzsche e di Heidegger, alcuni autori contemporanei sono giunti alla conclusione che l’epoca moderna, dominata dall’idea di storia del pensiero come progressiva “illuminazione”, è finita, ragion per cui saremmo ora entrati in un periodo definibile, per l’appunto, come post-moderno.

Tra i sostenitori di questa tesi troviamo in Italia Gianni Vattimo, secondo il quale “ciò che caratterizza la fine della storia nell’esperienza post-moderna è che, mentre nella teoria la nozione di storicità si fa sempre più problematica, nella pratica storiografica l’idea di una storia come processo unitario si dissolve.

L’emancipazione dell’uomo consiste certo anche nel riappropriarsi del senso della storia da parte di coloro che concretamente la fanno.

Ma questa riappropriazione è una ‘dissoluzione’: Sartre scrive che il senso della storia deve ‘dissolversi’ negli uomini concreti che, insieme, la costruiscono.

Questa dissoluzione va intesa in un senso molto più letterale di quanto non la intenda Sartre. Del senso della storia ci si riappropria a patto di accettare che essa non ha un senso di peso e perentorietà metafisica”.

Simili argomentazioni rivestono un certo interesse, soprattutto come manifestazione evidente dello spirito che domina buona parte del pensiero odierno.

 

Sostiene quindi Vattimo che Nietzsche e Heidegger, negando radicalmente la nozione di fondamento, si trovano nella condizione, da un lato, di dover prendere criticamente le distanze dal pensiero occidentale in quanto pensiero del fondamento; dall’altro, però, non possono criticare questo stesso pensiero in nome di un’altra - e più vera - fondazione.

Non avrebbe allora più senso parlare di “progresso”, essendo ormai finita la storia intesa come succedersi di epoche in cui ognuna apporta idee nuove e un affinamento della nostra comprensione del mondo rispetto alle precedenti.

Collocandosi da questo punto di vista, Vattimo afferma che il marxismo è fallito perché, non accorgendosi della crisi irreversibile dell’umanismo, ha preteso invece di rinnovarlo proponendo un’immagine utopica dell’uomo da conseguire mediante la rivoluzione.

La conclusione è che l’uomo contemporaneo, per realizzarsi compiutamente, deve invece accettare il suo destino, che è poi quello di vivere in un “mondo debole” nel quale anche il pensiero non può essere che debole, un mondo in cui “l’essere si dissolve nei reticoli di una società trasformata sempre più in un sensibilissimo organismo di comunicazione”.

In effetti, la stessa nozione di “modernità” è molto ambigua. Quando si cerca una definizione, quando si chiede di cosa si stia parlando, si rimane con il classico pugno di mosche.

Che cos’è la modernità? S’identifica, tout court, con il razionalismo, con l’illuminismo, con l’Occidente, con la società borghese, con il mercato?

E, in caso contrario, quali rapporti intrattiene con queste altre entità ideali? O, per essere ancora più precisi, chi è moderno e rispetto a chi e in che cosa? La vaghezza del concetto è analoga a quella delle entificazioni ideologiche, screditate dalla storia recente.

Da tutto ciò si può trarre un’importante lezione. La conoscenza del filosofo, come quello dello storico o dello scienziato, è per forza di cose limitata al presente, e l’aggiunta di un “post-qualcosa” non è in grado di modificare la situazione.

Il filosofo non può dirci in che cosa consista il tempo post-storico per il semplice fatto che egli, come tutti gli esseri umani, vive “nella” storia e non al di là di essa.

L’essere umano è incapace di conseguire un qualsiasi tipo di conoscenza assoluta, anche se può immaginare che la conoscenza assoluta esista.

La “fine della storia”, pertanto, si rivela una mera astrazione, il cui conseguimento porterebbe a trascendere la nostra natura intrinsecamente limitata.

Scrive per esempio Richard Rorty che “lo spirito di serietà può solo esistere in un mondo intellettuale in cui la vita umana sia un tentativo di raggiungere una meta al di là di essa, una fuga dalla libertà nell’atemporalità.

Questo genere di concezione del mondo permea tuttora la nostra educazione”.

Come accade nell’analisi della scienza condotta dai post-empiristi, acquista dunque valenza essenziale la considerazione del fattore-tempo.

La filosofia non è più il tentativo di avere accesso a un mondo in cui nulla può cambiare, bensì la creazione di immagini possibili di un futuro in perenne divenire, nel quale non v’è alcuna ragione di pensare che il flusso del tempo si arresterà per dar luogo a un ordine finalmente stabile e perfetto.

La differenza tra il fluire del passato e il fluire del futuro è semplicemente inesistente, e chi non comprende questo fatto si balocca con mere illusioni. Il fattore-tempo, in altri termini, dev’essere preso sul serio e posto al centro dell’attenzione.

Vanno abbandonati i tentativi platonici di giudicare la società e la tradizione culturale in cui viviamo da un punto di vista esterno, il quale può essere giustificato soltanto basandolo su un concetto di verità che sia contemporaneamente ineluttabile e impermeabile al cambiamento.

Ma ciò significa, per l’appunto, prendere sul serio il fattore-tempo e privilegiare l’azione rispetto alla contemplazione, senza presupporre che la filosofia possa vantare qualche tipo di supremazia fondativa nei confronti della politica.

La storia della filosofia diventa a sua volta una serie ininterrotta di ridescrizioni volte a mutare l’immagine che gli uomini hanno di se stessi in una determinata epoca o in un certo contesto culturale, e va da sé che il susseguirsi delle immagini, e dei linguaggi che le esprimono, è spiegato dalla necessità del cambiamento culturale e dall’obsolescenza cui vanno incontro tutti i prodotti umani.

Come afferma Isaiah Berlin, se si considera illusoria la pretesa di risolvere in modo definitivo i conflitti di valori, “non foss’altro perché alcuni valori ultimi possono essere incompatibili tra loro, e che la nozione stessa di un mondo ideale in cui essi si trovino riconciliati è un’impossibilità concettuale (e non meramente pratica), allora, forse, il meglio che si possa fare è tentare di promuovere una qualche specie di equilibrio, fatalmente instabile, tra le diverse aspirazioni di gruppi differenti di esseri umani”.

Si potrà quindi parlare di un’immagine “migliore” rispetto a un’altra, senza però scordare che tale aggettivo deve essere relativizzato a un contesto che dal flusso del tempo acquista il suo vero significato.

Poiché l’illusione dell’autotrascendimento e del superamento dei limiti è una caratteristica insita nella natura umana, non v’è motivo di pensare che tale illusione sia davvero finita: i nostri successori continueranno a illudersi proprio come abbiamo fatto noi e coloro che ci hanno preceduto.

L’antidoto a tutto ciò - ma si tratta di un antidoto debole, che non è in grado di contrastare la seduzione delle illusioni - consiste nel considerare la storia come sede delle azioni umane, azioni che a loro volta si compiono in uno scenario contingente.

Sfuggire alla dimensione della contingenza significa, se si vuol essere coerenti, introdurre nella storia elementi non umani, vale a dire fattori che rimandano a qualcosa in grado di conferire un significato ultimo alle azioni e alla storia stessa.

 

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