Sul sapere scientifico
Collocandoci da questo punto di vista, l’impossibilità di raggiungere il sapere definitivo dipende dai limiti, tanto fisici quanto cognitivi, della natura umana. Dipende, cioè, dall’impossibilità per l’uomo di conseguire quello che nella filosofia contemporanea si definisce “il punto di vista dell’occhio di Dio”. È opportuno notare a tale proposito come il positivismo, pur dopo il suo declino, continui a influenzare non solo numerosi esponenti del mondo filosofico e scientifico, ma anche la visione della scienza dell’uomo comune. Ancor oggi, infatti, è diffusa nel grande pubblico l’opinione che il sapere scientifico possieda un’assolutezza e una incontrovertibilità che lo rende immune da obiezioni, ragion per cui la scienza viene spesso considerata come l’unico paradigma cognitivo di cui disponiamo. Ne discende la concezione di un’umanità che, attraverso l’attività scientifica, diventa la dominatrice del reale poiché alla potenza del pensiero umano nulla può rimanere estraneo. Si tratta di una concezione al contempo ingenua e arrogante. Il mondo che ci circonda, infatti, appare sempre più complesso e aperto, tanto nell’infinitamente grande quanto nell’infinitamente piccolo. Ai nostri fini è interessante rilevare che molti scienziati notano che la visione della scienza come unico paradigma del sapere ha fatto il suo tempo. Da un lato la dimensione dell’osservabilità diretta non è più giudicata come tratto che sia in grado di tracciare confini netti tra scienza e metafisica. Le Regole dell’Accademia degli Oziosi. La stesura inquisita
Le notizie furono riprese più tardi dal curatore della Biblioteca Brancacciana, Carlo Padiglione in seguito al ritrovamento di un inedito statuto manoscritto costituito da otto carte in fogli, non datati, ma di «carattere del sec. XVII assai minuto e stretto».2 La fondazione dell’Accademia degli Oziosi ha avuto nelle fonti e nella bibliografia un grande risalto perché si trattava di un avvenimento politico di notevole importanza in quanto, con la venuta del viceré, il conte di Lemos, si erano concretamente aperte le premesse di una nuova alleanza tra il potere spagnolo e gli intellettuali napoletani. Il viceré aveva fama di mecenate, era accompagnato da una corte di segretari-letterati e dimostrò una disponibilità politica e culturale per la fondazione di un’accademia “ufficiale” che in qualche modo ripeteva esperienza di quella “Alfonsina”, poi Pontaniana, sorta nel 1443 intorno alla biblioteca di Alfonso il Magnanimo, V Re d’Aragona e I di Napoli.3 I fondatori dell’Accademia degli Oziosi furono il letterato Giambattista Manso4 ed il principe cardinale Francesco Brancaccio.5 Traendolo dal ciceroniano Otium letterario, l’avvocato umanista Francesco De Pietri si incaricò di trovare all’Accademia sia il titolo che gli emblemi: Non Pigra Quies. Leggi tutto: Le Regole dell’Accademia degli Oziosi. La stesura inquisita La miseria dello storico
La stessa frase interrogativa nell'incipit è dirimente: «La storia umana è modificabile?» Questa domanda, ovviamente strettamente legata al titolo, è il filo rosso che lega la trama del saggio. Nell’analisi di Prosperi la storia è la testimonianza di un passato che di fatto è facilmente cancellabile, come ad oggi lo sta testimoniando il fenomeno della cancel culture, che non si riduce all’eliminazione dei monumenti imbrattandoli o demolendoli, ma agisce anche nel modificare in toto la narrazione del passato. Si tratta di una cancellazione del passato che ha l'obiettivo di migliorare la storia umana nella percezione del presente. Tale fenomeno, di natura esclusivamente antropica, si è verificato in diverse occasioni nel passato e che solamente lo storico può scovare negli anfratti dell'esistenza umana. Lo storico non ha la capacità di modificare ciò che è avvenuto, ma può confermare se il falso è riuscito a determinare l'esistenza umana, operazioni che si sono mirabilmente effettuate anche nel passato tramite la redazione di documenti apocrifi, abilmente costituiti, che hanno avuto l'obiettivo di alterare il corso degli eventi. Prosperi, per addurre ciò, si è concentrato su diverse falsificazioni che hanno modificato la verità storica e forse uno dei casi più eclatanti è stato il documento della falsa Donazione di Costantino, che è stata al centro del dibattito della questione del potere temporale del papato dal XV secolo e che si è dibattuta fino al Concordato del 1929 tra Stato della Chiesa e Regno d'Italia. La teoria del Rimland, scienze politiche in crisi
A differenza di Mackinder, che vedeva il controllo dell'entroterra eurasiatico (Heartland) come chiave del potere globale, Spykman riteneva decisivo dominare le coste dell'Eurasia, cioè l'arco che va dall’Europa occidentale fino all’Asia orientale passando per il Medio Oriente e l’Asia meridionale. Spykman sosteneva che «chi controlla il Rimland domina l’Eurasia, chi domina l’Eurasia controlla i destini del mondo», questa intuizione non era una semplice variazione del modello di Mackinder, ma una revisione sostanziale ovvero il potere globale non scaturisce dalla conquista delle profondità continentali, bensì dalla capacità di proiettare forza e influenza lungo le aree costiere dove si concentrano popolazione, commercio e interscambi. Il Rimland è, per Spykman, il vero teatro delle grandi contese storiche, il luogo in cui si decidono gli equilibri di potere globali. Se l’Heartland è geograficamente isolato, economicamente limitato e militarmente difficile da conquistare, il Rimland, al contrario, è denso di snodi strategici, passaggi obbligati e popolazioni eterogenee. È lì che si gioca la partita tra potenze continentali e marittime, tra chi cerca di espandere la propria influenza da terra e chi punta a contenerla dal mare. Per questo, Spykman rovescia la massima di Mackinder: non è il centro a dominare la periferia, ma la periferia a determinare la sorte del centro. L’influenza della teoria del Rimland è stata immediata e duratura, soprattutto nella formulazione delle dottrine strategiche degli Stati Uniti durante e dopo la Guerra Fredda. Leggi tutto: La teoria del Rimland, scienze politiche in crisi Il 25 aprile 1945: fu lotta di nazione, non di fazione
Autorevoli editorialisti, come Pierluigi Battista, ritengono che archiviato l’appuntamento di quest’anno sarebbe meglio mettere in naftalina questa data pubblica perché divisiva. Ma è proprio vero che la guerra di liberazione rappresenti una “frattura” nell’Italia dell’oggi? In realtà per troppo tempo la Resistenza è stata raccontata in modo parziale e con paraocchi ideologici, dovuti al clima di contrapposizione tra Occidente e Unione Sovietica. Grazie alla storiografia del nuovo millennio, più libera di quella del passato, e grazie agli sforzi degli ultimi presidenti della Repubblica, da Carlo Azeglio Ciampi a Sergio Mattarella, ora invece abbiamo gli strumenti per una lettura inedita della guerra di liberazione e la possibilità per tutti di riconoscersi in quei valori. Cosa sappiamo di nuovo e di diverso? Innanzitutto, che la Resistenza fu un movimento di Nazione, non di fazione. Un movimento che, al fianco degli Alleati, coinvolse comunisti, socialisti, azionisti, repubblicani, democristiani ma anche parroci come don Pietro Pappagallo e don Giuseppe Morosini, entrambi uccisi dai nazifascisti (a loro due s’ispirò Roberto Rossellini nel film Roma Città Aperta raccontando la storia di don Pietro, interpretato da Aldo Fabrizi), militari monarchici e anticomunisti come Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, capo del Fronte militare clandestino, poliziotti, finanzieri e carabinieri come Giovanni Frignani, cattolico e liberale, l’uomo che arrestò Mussolini, finito alle Fosse Ardeatine, e il napoletano Salvo D’Acquisto, che offrì la sua vita per salvare dei civili innocenti. Non fu una storia declinata solo al maschile. Leggi tutto: Il 25 aprile 1945: fu lotta di nazione, non di fazione
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