"Nirudi Kwangu" ('Ritorno a me stesso')
Il 19 giugno 2012, alle ore 21.00, presso il Teatro Araldo di Torino è stato messo in scena lo spettacolo teatrale “Nirudi Kwangu” (‘Ritorno a me stesso’), un progetto realizzato in collaborazione con l'Università degli Studi di Torino (Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Comunicazione Interculturale; Centro Piemontese di Studi Africani; Comitato Collaborazione Medica). Per la prima volta, nella città di Torino è stato realizzato uno spettacolo teatrale ricreato da brani tratti da opere letterarie swahili. Un incontro di voci, un incontro di culture, quella Swahili e quella italiana. Il titolo stesso, “Nirudi kwangu” (‘Ritorno a me stesso’) è ricco di significati metaforici: ritorno a me stesso, ai miei luoghi, ai miei spazi interiori, al mio centro. Sullo sfondo, una scenografia suggestiva ed evocativa: un grande sole in plastica, lenzuola lise ma rese vive da macchie di colore secondo la tecnica del batik africano, una cascata centrale di bottiglie sempre in plastica la cui trasparenza lascia immaginare il fluire dell’acqua, simbolo universale di rinascita, in contrasto con il fiume di sangue racchiuso in una bacinella di plastica, simbolo di vita e di morte. Espressione materica del percorso dell’anima, i daimones che si alternano sulla scena rincorrendosi e circondando il protagonista, Nagona, l’uomo, l’umanità. Per lui è giunto il tempo di cominciare il suo viaggio iniziatico, un viaggio dentro di sè che lo porterà ad affrontare i suoi demoni, le sue paure, le sue resistenze, le sue fragilità. Nel suo viaggio è però accompagnato dalle forze della natura, gli alberi danzanti, che lo sorreggono e lo circondano, che lo accarezzano e lo proteggono.
La parola "detta", la "parola cantata", la “parola recitata”, la “parola danzata” prendono corpo attraverso il movimento, respirano anima accompagnate, nel loro infinito viaggio, dalla forza carezzevole e invisibile di una vibrazione, di un suono, quello creato dalle musiche composte ed eseguite dai SAMADI QUARTET. Un gruppo musicale nato a Torino nel 2010 dall’incontro di Sandro Paolotti (Chitarra) e Massimo Lodoletti (Hang: 1a e 2a generazione e Integral) che uniscono le loro precendenti esperienze musicali e danno vita al progetto che vede, nell’anno successivo, l’arrivo di Daniele Manzo (Basso elettrico) e di Fabio Partemi (Batteria, djembe, darbuka, frame drum, gong). Da un così variegato melting pot nascono i Samadi Quartet, dando vita ad un sound che mescola elementi di musica dal mondo, una rivisitazione di strumenti prettamente “occidentali”e quello che può essere considerato come lo strumento più innovativo degli ultimi anni: l’HANG. Attraverso fraseggi delicati, pezzi meditativi frammisti al pulsare ritmico della terra, I Samadi Quartet cercano di arrivare a ciò che si nasconde dietro le apparenze, al cuore, all’anima, sia la propria che quella di chi assiste allo spettacolo, che si trasforma così in una sorta di catarsi. Dietro le quinte, la parola agli attori, studenti del corso di lingua e cultura swahili Università degli studi di Torino La “parola detta” (Sara Braga, Costanza Puppo, Valentina Russo, Adele Manassero, Elena Bernini, Giulia Russo, Serena Nadal, Eugenio Sgroi, Giacomo Mario Dei Rossi) “Dare vita alle “voci” di scrittori provenienti da un continente così distante da noi e cercare di immaginare cosa quelle voci volessero trasmettere, è stata per noi la più grande sfida. Il timore di non comprendere appieno il significato, la metafora, il simbolismo che quelle parole, apparentemente chiare, nascondevano ci ha spinti sempre più ad approfondire la comprensione di aspetti peculiari della cultura swahili di cui noi ci eravamo assunti la responsabilità di diffondere il messaggio. Tecnicamente abbiamo dovuto imparare a modulare e armonizzare la voce di uno alla voce dell’altro e poi, tutte le voci insieme a creare la voce narrante fuori campo. E questo ci ha fatto tornare indietro nel tempo, alle modalità espressive della tragedia greca. Una grande esperienza anche di crescita dal punto di vista dell’apprendimento. E solo alla fine del nostro lavoro abbiamo compreso il concetto di “apprendimento consapevole” di cui tante volte avevamo discusso con la nostra prof. Graziella Acquaviva.” Sara Braga
La “parola cantata” (Nicolò Maggiora, Hegle Gramaglia, Claudia Cavaliere) “L’esperienza di cantare in una lingua già così musicale, come è la lingua swahili, è stata vissuta da noi in maniera particolare. Bello è stato il passaggio dalla memorizzazione del testo poetico alla musicalità. Un suono che fermenta e rimane dentro, cantando quasi senza voce nel corpo e che quando, finalmente, esce fuori conserva l’anima di una lingua che porta in sè flussi sonori cui non siamo abituati e manifestazioni emozionali ancor più sconosciute. E’ il “cantare” che si fa spazio dentro e ti consente, in maniera silente, di sentire il canto poetico.” Claudia Cavaliere
La “parola recitata” (Dario la Stella, Valeria Tardivo, Nicolò Maggiora, Gilberto Borri, Alessandro Parodi, Roberto Cascino , Federico Ferrara, Luca Trevisani, Anita Franze’, Silvia Cannarsa) “La parola recitata racchiude in sé molti aspetti dell’essere umano, diviene donna anziana, quando a parlare è Bibi, la madre che non riesce più a danzare bloccata dal dolore per la morte del figlio. Lei è disperazione e rabbia, ed è a sua volta figlia, una figlia disperata che chiede aiuto ai suoi genitori affinché resuscitino per portare indietro Daudi. Valeria Tardivo La “parola danzata” (Adele Fioravera, Margherita Piccioni, Stefania Calandra, Sara Pelliccia, Chiara Andena, Marta Turroni, Giulia Laconi, Alice Bonomo) “Muoversi, seguire il suono degli strumenti, giocare con il proprio corpo: tutto ciò è stato danzare insieme. Questa danza è nata da un’intimità riscoperta grazie a parole lette, osservate e vissute; parole che hanno smosso i nostri corpi a partire da tutto quello che i testi ci avevano trasmesso. La bellezza di affacciarsi, seguire, lasciarsi trasportare dalla parola scritta in una lingua così affascinante come quella swahili ,sta proprio nel risultato che abbiamo ottenuto: il corpo divenuto contenitore di messaggi rivelatori di emozioni nascoste, sconosciute eppure creatrici di energia. Leggendo i testi di E. Kezilahabi e di F. Topan ci siamo immedesimate nella gestualità del corpo e nel battito della ngoma (tamburo) che segnava il ritmo dei nostri passi. L’emozione più grande è stata quella di scoprire come il corpo possa rendersi evocatore di forze ctonie, ancestrali.” Adele Fioravera
Quando la parola diviene consapevolezza, l’individuo rinasce...
Graziella Acquaviva, docente di Lingua, Letteratura e Cultura Swahili presso l'Università degli Studi di Torino e l'Istituto Universitario "L'Orientale" di Napoli.
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