Vincenzo Cuoco - Saggio Storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799
Prefazione alla seconda edizione
Caedo cur vestram rempublicam tantam perdidistis tam cito?
POMPONIO ATTICO, presso CICERONE, De senectute.
Quando questo Saggio fu pubblicato per la prima volta, i giudizi pronunziati sul medesimo furon molti e diversi, siccome suole inevitabilmente avvenire ad ogni libro, del quale l’autore ha professata imparzialitá, ma non sono imparziali i lettori.
Il tempo però ed il maggior numero han resa giustizia, non al mio ingegno né alla mia dottrina (ché né quello né questa abbondavano nel mio libro), ma alla imparzialitá ed alla sinceritá colla quale io avea in esso narrati avvenimenti che per me non eran stati al certo indifferenti.
Della prima edizione da lungo tempo non rimaneva piú un esemplare; e, ad onta delle molte richieste che ne avea, io avrei ancora differita per qualche altro tempo la seconda, se alcuni, che han tentato ristamparla senza il mio assentimento, non mi avessero costretto ad accelerarla.
Dopo la prima edizione, ho raccolti i giudizi che il pubblico ha pronunziati, ed ho cercato, per quanto era in me, di usarne per rendere il mio libro quanto piú si potesse migliore.
Alcuni avrebbero desiderato un numero maggiore di fatti. Ed in veritá io non nego che nella prima edizione alcuni fatti ho omessi, perché li ignorava; altri ho taciuti, perché ho creduto prudente il tacerli; altri ho trasandati, perché li reputava poco importanti; altri finalmente ho appena accennati. Ho composto il mio libro senza aver altra guida che la mia memoria: era impossibile saper tutti gl’infiniti accidenti di una rivoluzione, e tutti rammentarli.
Molti de’ medesimi ho saputi posteriormente, e, di essi, i piú importanti ho aggiunti a quelli che giá avea narrati. Ad onta però di tutte le aggiunzioni fatte, io ben mi avveggo che coloro, i quali desideravano maggior numero di fatti nella prima edizione, ne desidereranno ancora in questa seconda.
Ma il mio disegno non è stato mai quello di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, molto meno una leggenda. Gli avvenimenti di una rivoluzione sono infiniti di numero; e come no, se in una rivoluzione agiscono contemporaneamente infiniti uomini? Ma, per questa stessa ragione, è impossibile che tra tanti avvenimenti non vi sieno molti poco importanti e molti altri che si rassomiglian tra loro. I primi li ho trascurati, i secondi li ho riuniti sotto le rispettive loro classi.
Piú che delle persone, mi sono occupato delle cose e delle idee. Ciò è dispiaciuto a molti, che forse desideravano esser nominati; è piaciuto a moltissimi, che amavano di non esserlo. I nomi nella storia servon piú alla vanitá di chi è nominato che all’istruzione di chi legge. Quanti pochi sono gli uomini che han saputo vincere e dominare le cose?
Il massimo numero è servo delle medesime; è tale, quale i tempi, le idee, i costumi, gli accidenti voglion che sia: quando avete ben descritti questi, a che giova nominar gli uomini? Io sono fermamente convinto che, se la maggior parte delle storie si scrivesse in modo di sostituire ai nomi propri delle lettere dell’alfabeto, l’istruzione, che se ne ritrarrebbe, sarebbe la medesima.
Finalmente, nella considerazione e nella narrazione degli avvenimenti, mi sono piú occupato degli effetti e delle cagioni delle cose che di que’ piccioli accidenti che non sono né effetti né cagioni di nulla, e che piaccion tanto al lettore ozioso sol perché gli forniscono il modo di poter usare di quel tempo che non saprebbe impiegare a riflettere.
Dopo tali osservazioni, ognun vede che i fatti che mi rimanevano ad aggiugnere eran in minor numero di quello che si crede. Ragionando con molti di coloro i quali avrebbero desiderati piú fatti, spesso mi sono avveduto che ciò che essi desideravano nel mio libro giá vi era: ma essi desideravano nomi, dettagli, ripetizioni; e queste non vi dovean essere.
Per qual ragione distrarrò io l’attenzione del lettore tra un numero infinito d’inezie e lo distoglierò da quello ch’io reputo vero scopo di ogni istoria, dalla osservazione del corso che hanno, non gli uomini, che brillano un momento solo, ma le idee e le cose, che sono eterne? Si dirá che il mio libro non merita il nome di «storia»; ed io risponderò che non mi sono giammai proposto di scriverne. Ma è forse indispensabile che un libro, perché sia utile, sia una storia?
Una censura mi fu fatta, appena uscí alla luce il primo volume. Siccome essa nasceva da un equivoco, credei mio dovere dileguarlo; e lo feci con quell’avvertimento che, nella prima edizione, leggesi al principio del secondo volume, e che ora inserisco qui:
Tutte le volte che in quest’opera si parla di «nome», di «opinione», di «grado», s’intende sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni.
Taluni, per non aver fatta questa riflessione, hanno creduto che, quando nel primo tomo, pagina 34, io parlo di coloro che furono perseguitati dall’inquisizione di Stato, e li chiamo «giovinetti senza nome, senza grado, senza fortuna», abbia voluto dichiararli persone di niun merito, quasi della feccia del popolo, che desideravano una rivoluzione per far una fortuna.
Questo era contrario a tutto il resto dell’opera, in cui mille volte si ripete che in Napoli eran repubblicani tutti coloro che avevano beni e fortuna; che niuna nazione conta tanti che bramassero una riforma per solo amor della patria; che in Napoli la repubblica è caduta quasi per soverchia virtú de’ repubblicani... Nell’istesso luogo si dice che i lumi della filosofia erano sparsi in Napoli piú che altrove, e che i saggi travagliavano a diffonderli, sperando che un giorno non rimarrebbero inutili.
I primi repubblicani furono tutti delle migliori famiglie della capitale e delle province: molti nobili, tutti gentiluomini, ricchi e pieni di lumi; cosicché l’eccesso istesso de’ lumi, che superava l’esperienza dell’etá, faceva lor credere facile ciò che realmente era impossibile per lo stato in cui il popolaccio si ritrovava. Essi desideravano il bene, ma non potevano produrre senza il popolo una rivoluzione; e questo appunto è quello che rende inescusabile la tirannica persecuzione destata contro di loro.
Chi legge con attenzione vede chiaramente che questo appunto ivi si vuol dire. Io altro non ho fatto che riferire quello che allora disse in difesa de’ repubblicani il rispettabile presidente del Consiglio, Cito; e Cito era molto lontano dall’ignorare le persone o dal volerle offendere. Sarebbe stoltezza dire che le famiglie Carafa, Riari, Serra, Colonna, Pignatelli... fossero povere; ma, per produrre una rivoluzione nello stato in cui allora era il popolo napoletano, si richiedevano almeno trenta milioni di ducati, e questa somma si può dir, senza far loro alcun torto, che essi non l’aveano.
La ricchezza è relativa all’oggetto a cui taluno tende: un uomo che abbia trecentomila scudi di rendita è un ricchissimo privato, ma sarebbe un miserabile sovrano. Si può occupare nella societá un grado eminentissimo, e non essere intanto atto a produrre una rivoluzione. Il presidente del Consiglio occupava la prima magistratura del Regno, e non potea farlo: ad un reggente di Vicaria, molto inferiore ad un presidente, ad un eletto del popolo, moltissimo inferiore al reggente, era molto piú facile sommovere il popolo. Lo stesso si dice del nome.
Chi può dire che le famiglie Serra, Colonna, Pignatelli... fossero famiglie oscure? Che Pagano, Cirillo, Conforti fossero uomini senza nome?... Ma essi aveano un nome tra i saggi, i quali a produr la rivoluzione sono inutili, e non ne aveano tra il popolo, che era necessario, ed a cui intanto erano ignoti per esser troppo superiori. Paggio, capo de’ lazzaroni del Mercato, è un uomo dispregevole per tutti i versi; ma intanto Paggio, e non Pagano, era l’uomo del popolo, il quale bestemmia sempre tutto ciò che ignora.
Credo superfluo poi avvertire che i giudizi del popolo non sono i miei; ma è necessario ricordare che, in un’opera destinata alla veritá ed all’istruzione, è necessario riferire tanto i giudizi miei quanto quelli del popolo. Ciascuno sará al suo luogo: è necessario saperli distinguere e riconoscere; e perciò è necessario aver la pazienza di leggere l’opera intera, e non giudicarne da tratti separati.
Questo Saggio è stato tradotto in tedesco. Son molto grato al signor Kellert, il quale, senza che ne conoscesse l’autore credette il libro degno degli studi suoi: piú grato gli sono, perché lo ha tradotto in modo da farlo apparir degno dell’approvazione de’ letterati di Germania; de’ favorevoli giudizi de’ quali io andrei superbo, se non sapessi che si debbono in grandissima parte ai nuovi pregi che al mio libro ha saputo dare l’elegante traduttore.
Pure, tra gli elogi che il libro ha ottenuti, non è mancata qualche censura, ed una, tra le altre, scritta collo stile di un cavalier errante che unisce la ragione alla spada, leggesi nel giornale del signor Archenholz, intitolato:
La Minerva. L’articolo è sottoscritto dal signor Dietrikstein, che io non conosco, ma che ho ragion di credere essere al tempo istesso valentissimo scrittore e guerriero, poiché si mostra pronto egualmente a sostener contro di me colla penna e colla spada che il signor barone di Mack sia un eccellente condottiero di armata, ad onta che nel mio libro io avessi tentato di far credere il contrario. In veritá, io dichiaro che valuto pochissimo i talenti militari del generale Mack.
Quando io scriveva il mio Saggio, avea presenti al mio pensiero la campagna di Napoli e la seconda campagna delle Fiandre, ambedue dirette da Mack: vedeva nell’una e nell’altra gli stessi rovesci e le stesse cagioni di rovesci; e credei poter ragionevolmente conchiudere che la colpa fosse del generale. Ciò che è effetto di sola fortuna non si ripete con tanta simiglianza due volte. Quando poi pervenne in Milano l’articolo del signor Dietrikstein, era giá aperta l’ultima campagna.
L’amico, che mi comunicò l’articolo, avrebbe desiderato che io avessi fatta qualche risposta. Ma, due giorni appresso, il cannone della piazza annunziò la vittoria di Ulma, ed io rimandai all’amico l’articolo, e vi scrissi a’ piè della pagina: «La risposta è fatta». Questo mio libro non deve esser considerato come una storia, ma bensí come una raccolta di osservazioni sulla storia. Gli avvenimenti posteriori han dimostrato che io ho osservato con imparzialitá e non senza qualche acume.
Gran parte delle cose che io avea previste si sono avverate; l’esperimento delle cose posteriori ha confermati i giudizi che avea pronunziati sulle antecedenti. Mentre quasi tutta l’Europa teneva Mack in conto di gran generale, io solo, io il primo, ho vendicato l’onor della mia nazione, ed ho asserito che le disgrazie da lui sofferte nelle sue campagne non eran tanto effetto di fortuna quanto d’ignoranza.
Fin dal 1800 io ho indicato il vizio fondamentale che vi era in tutte le leghe che si concertavano contro la Francia, e pel quale tutt’i tentativi de’ collegati dovean sempre avere un esito infelice, ad onta di tutte le vittorie che avessero potuto ottenere; e tutto ciò perché le vittorie consumano le forze al pari o poco meno delle disfatte, e le forze si perdono inutilmente se son prive di consiglio, né vi è consiglio ove o non vi è scopo o lo scopo è tale che non possa ottenersi.
Desidero che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti de’ quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione. Troverá che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una predizione di questi, e che l’esperienza posteriore ha confermate le antecedenti mie osservazioni.
Il gabinetto di Napoli ha continuato negli stessi errori: sempre lo stesso incerto oscillar nella condotta, la stessa alternativa di speranze e di timore, e quella sempre temeraria, questo sempre precipitoso; moltissima fiducia negli aiuti stranieri, nessuna fiducia e perciò nessuna cura delle forze proprie; non mai un’operazione ben concertata;
nella prima lega, il trattato di Tolentino e la spedizione di Tolone conchiuso e fatta fuori di ogni ragione e di ogni opportunitá; nella seconda, l’invasione dello Stato pontificio fatta prima che l’Austria pensasse a mover le sue armate, le operazioni del picciolo corpo che Damas comandava in Arezzo incominciate quando le forze austriache non esistevano piú; nella terza finalmente, un trattato segnato colla Francia, mentre forse non era necessario poiché si pensava di infrangerlo; i russi e gl’inglesi chiamati quando giá la somma delle cose era stata decisa in Austerlitz;
l’inutile macchia di traditore, e l’inopportunitá del tradimento, e l’obbrobrio di vedere un re che comanda a sette milioni di uomini divenire, per colpa de’ suoi ministri, quasi il fattore degl’inglesi e cedere il comando delle sue proprie truppe entro il suo proprio regno ad un generale russo. Ricercate le cagioni di tutti questi avvenimenti, e trovate esser sempre le stesse: un ministro che traeva gran parte del suo potere dall’Inghilterra, ove avea messe in serbo le sue ricchezze;
l’ignoranza delle forze della propria nazione, la nessuna cura di migliorare la di lei sorte, di ridestare negli animi degli abitanti l’amor della patria, della milizia e della gloria; lo stato di violenza che naturalmente dovea sorgere da quella specie di lotta, che era inevitabile tra un popolo naturalmente pieno di energia ed un ministro straniero che volea tenerlo nella miseria e nell’oppressione; la diffidenza che questo stesso ministro avea ispirata nell’animo de’ sovrani contro la sua nazione; tutto insomma quello che io avea predetto, dicendo che la condotta di quel gabinetto avrebbe finalmente perduto un’altra volta, ed irreparabilmente, il Regno.
Avrei potuto aggiugnere alla storia della rivoluzione anche quella degli avvenimenti posteriori fino ai nostri giorni. Riserbo questa occupazione a’ tempi ne’ quali avrò piú ozio e maggior facilitá di istruirmene io stesso, ritornato che sarò nella mia patria. Ne formerò un altro volume dello stesso sesto, carta e caratteri del presente. Intanto nulla ho voluto cangiare al libro che avea pubblicato nel 1800.
Quando io componeva quel libro, il gran Napoleone era appena ritornato dall’Egitto; quando si stampava, egli avea appena prese le redini delle cose, appena avea incominciata la magnanima impresa di ricomporre le idee e gli ordini della Francia e dell’Europa.
Ma io ho il vanto di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli posteriormente ha fatte; ed, in tempi ne’ quali tutt’i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giustizia, e che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l’uomo grandissimo.
Egli ha verificato l’adagio greco per cui si dice che gl’iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritte al mio amico Russo sul progetto di costituzione composto dall’illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come un monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quegli ordini che allora credevansi costituzionali non eran che anarchici.
La Francia non ha incominciato ad aver ordine, l’Italia non ha incominciato ad aver vita, se non dopo Napoleone; e, tra li tanti benefíci che egli all’Italia ha fatti, non è l’ultimo certamente quello di aver donato a Milano Eugenio ed alla mia patria Giuseppe.
CAPITOLO I
INTRODUZIONE
Io imprendo a scriver la storia di una rivoluzione che dovea formare la felicitá di una nazione, e che intanto ha prodotta la sua ruina[1]. Si vedrá in meno di un anno un gran regno rovesciato, mentre minacciava conquistar tutta l’Italia; un’armata di ottantamila uomini battuta, dissipata, distrutta da un pugno di soldati; un re debole, consigliato da ministri vili, abbandonare i suoi Stati senza verun pericolo; la libertá nascere e stabilirsi quando meno si sperava; il fato istesso combattere per la buona causa, e gli errori degli uomini distruggere l’opera del fato e far risorgere dal seno della libertá un nuovo dispotismo e piú feroce.
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell’uomo quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura. Per molti secoli le generazioni si succedono tranquillamente come i giorni dell’anno: esse non hanno che i nomi diversi, e chi ne conosce una le conosce tutte. Un avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita; nuovi oggetti si presentano ai nostri sguardi; ed in mezzo a quel disordine generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell’ordine, del quale prima si vedevano solamente gli effetti.
Ma una catastrofe fisica è, per l’ordinario, piú esattamente osservata e piú veracemente descritta di una catastrofe politica. La mente, in osservar questa, segue sempre i moti irresistibili del cuore; e degli avvenimenti che piú interessano il genere umano, invece di aversene la storia, non se ne ha per lo piú che l’elogio o la satira. Troppo vicini ai fatti de’ quali vogliam fare il racconto, noi siamo oppressi dal loro numero istesso; non ne vediamo l’insieme; ne ignoriamo le cagioni e gli effetti; non possiamo distinguere gli utili dagl’inutili, i frivoli dagl’importanti, finché il tempo non li abbia separati l’uno dall’altro, e, facendo cader nell’obblio ciò che non merita di esser conservato, trasmetta alla posteritá solo ciò che è degno della memoria ed utile all’istruzione di tutt’i secoli.
La posteritá, che ci deve giudicare, scriverá la nostra storia. Ma, siccome a noi spetta di prepararle il materiale de’ fatti, cosí sia permesso di prevenirne il giudizio. Senza pretendere di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, mi sia permesso trattenermi un momento sopra alcuni avvenimenti che in essa mi sembrano piú importanti, ed indicare ciò che ne’ medesimi vi sia da lodare, ciò che vi sia da biasimare. La posteritá, esente da passioni, non è sempre libera da pregiudizi in favor di colui che rimane ultimo vincitore; e le nostre azioni potrebbero esser calunniate sol perché sono state infelici.
Dichiaro che non sono addetto ad alcun partito, a meno che la ragione e l’umanitá non ne abbiano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de’ quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei concittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare. Coloro i quali, colle piú pure intenzioni e col piú ardente zelo per la buona causa, per mancanza di lumi o di coraggio l’han fatta rovinare; coloro i quali o son morti gloriosamente o gemono tuttavia vittime del buon partito oppresso, mi debbono perdonare se nemmen per amicizia offendo quella veritá che deve esser sempre cara a chiunque ama la patria, e debbono esser lieti se, non avendo potuto giovare ai posteri colle loro operazioni, possano almeno esser utili cogli esempi de’ loro errori e delle sventure loro.
Di qualunque partito io mi sia, di qualunque partito sia il lettore, sempre gioverá osservare come i falsi consigli, i capricci del momento, l’ambizione de’ privati, la debolezza de’ magistrati, l’ignoranza de’ propri doveri e della propria nazione, sieno egualmente funesti alle repubbliche ed ai regni; ed i nostri posteri dagli esempi nostri vedranno che qualunque forza senza saviezza non fa che distrugger se stessa, e che non vi è vera saviezza senza quella virtú che tutto consacra al bene universale.
Note
CAPITOLO II STATO DELL’EUROPA DOPO IL 1793
La Francia, fin dal 1789, avea fatta la piú gran rivoluzione di cui ci parli la storia. Non vi era esempio di rivoluzione, che, volendo tutto riformare, avea tutto distrutto. Le altre aveano combattuto e vinto un pregiudizio con un altro pregiudizio, un’opinione con un’altra opinione, un costume con un altro costume: questa avea nel tempo istesso attaccato e rovesciato l’altare, il trono, i diritti e le proprietá delle famiglie, e finanche i nomi che nove secoli avean resi rispettabili agli occhi de’ popoli. La rivoluzione francese, sebbene prevista da alcuni pochi saggi, ai quali il volgo non suole prestar fede, scoppiò improvvisa e sbalordí tutta l’Europa. Tutti gli altri sovrani, parte per parentela che li univa a Luigi decimosesto, parte per proprio interesse, temettero un esempio che potea divenir contagioso. Si credette facile impresa estinguere un incendio nascente. Si sperò molto sui torbidi interni che agitavano la Francia, non tornando in mente ad alcuno che all’avvicinar dell’inimico esterno l’orgoglio nazionale avrebbe riuniti tutt’i partiti divisi. Si sperò molto nella decadenza delle arti e del commercio, nella mancanza assoluta di tutto, in cui era caduta la Francia; si sperò a buon conto vincerla per miseria e per fame, senza ricordarsi che il periglio rende gli entusiasti guerrieri, e la fame rende i guerrieri eroi. Una guerra esterna, mossa con eguale ingiustizia ed imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile. L’Inghilterra meditava conquiste immense e vantaggi infiniti nel suo commercio sulla ruina di una nazione che sola allora era la sua rivale. La corte di Londra, piú che ogni altra corte di Europa, temer dovea il contagio delle nuove opinioni, che si potean dire quasi nate nel seno dell’Inghilterra; e, per renderle odiose al popolo inglese, mezzo migliore non ritrovò che risvegliare l’antica rivalitá nazionale, onde farle odiare, se non come irragionevoli, almen come francesi. Pitt vedeva che gli abitanti della Gran Brettagna, e specialmente gl’irlandesi e scozzesi, eran disposti a fare altrettanto: la rivoluzione sarebbe scoppiata in Inghilterra, se gl’inglesi quasi non avessero sdegnato d’imitare i francesi[1]. L’Inghilterra, sebbene non fosse stata la prima a dichiarar la guerra, fu però la prima a soffiare il fuoco della discordia. L’Austria seguí l’invito della sua antica e naturale alleata. Le corti di Europa non conoscevano le repubbliche. Dalla perdita inevitabile della Francia speravano un guadagno sicuro. La Prussia l’avea giá ottenuto nel congresso di Pilnitz colla divisione della Polonia. L’Inghilterra e la Prussia mossero lo statolder, il quale volea distrarre con una guerra esterna gli animi non troppo tranquilli de’ batavi, resi da poco suoi sudditi, ed amava veder distrutti coloro che potevan essere un giorno non deboli protettori de’ medesimi. La Prussia e l’Austria strascinarono i piccoli principi dell’impero, i quali, piú che dalla perdita di pochi, incerti, inutili dritti, che la rivoluzione di Francia avea lor tolti in Alsazia ed in Lorena, erano mossi dall’oro degl’inglesi, ai quali da lungo tempo erano avvezzi a vendere il sangue de’ propri sudditi. Il re di Sardegna seguí le vie di sua antica politica, ed avvezzo ad ingrandirsi tra le dissensioni della Francia e dell’Austria, alle quali vendeva alternativamente i suoi soccorsi, tenne sulle prime il partito della lega, che gli parve il piú forte. Finalmente anche la Spagna seguí l’impulso generale; e la guerra fu risoluta. Si aprí la campagna con grandissime vittorie degli alleati; ma ben presto furono seguite dai piú terribili rovesci. I francesi seppero distaccar la Prussia dalla lega; la quale, ottenuta la sua porzione di Polonia, comprese che, tra due potenze di prim’ordine che si laceravano e distruggevano a vicenda, suo meglio era quello di rimaner neutrale. La corte di Spagna s’ingelosí ben presto dell’Inghilterra, che sola voleva ritrar profitto dalla guerra comune. La condotta degl’inglesi in Tolone fece scoppiare il malumore che da lungo tempo covava nel suo seno, e Carlo quarto non volle piú impiegar le sue forze ad accrescere una nazione che egli dovea temere piú della francese. Mentre i suoi eserciti erano battuti per terra, le sue flotte rimanevano inoperose per mare; mentre i francesi guadagnavano in Europa, egli avrebbe potuto aver un compenso in America e dar fine cosí alla guerra con una vicendevole restituzione, senza quelle perdite che fu costretto a soffrire per ottenere la pace. Il desiderio de’ francesi era appunto quello che molti lor dichiarassero la guerra e niuno la facesse con tutte le sue forze; cosí ogni nuovo nemico dava ai francesi una nuova vittoria, e quella lega, che dovea abbassarli, serviva ad ingrandirli. La guerra era ormai divenuta, come nell’antica Roma, indispensabile alla Francia, tra perché teneva luogo di tutte le arti e di tutto il commercio, che prima formavano la sussistenza del popolo, tra perché un governo quasi sempre fazioso la considerava come un mezzo di occupare e distrarre gli animi troppo attivi degli abitanti ed allontanare i torbidi che soglion fermentar nella pace. Quindi si sviluppò quel sistema di democratizzazione universale, di cui i politici si servivan per interesse, a cui i filosofi applaudivano per soverchia buona fede; sistema che alla forza delle armi riunisce quella dell’opinione, che suol produrre, e talora ha prodotti, quegl’imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale.
Note
CAPITOLO III
STATO D’ITALIA FINO ALLA PACE DI CAMPOFORMIO
Quando l’impresa d’Italia fu affidata a Bonaparte, era quasi che disperata. Egli si trovò alla testa di un’armata alla quale mancava tutto, ma che era uscita dalla Francia nel momento del suo maggiore entusiasmo e che era da tre anni avvezza ai disagi ed alle fatiche; si trovò alla testa di coraggiosi avventurieri, risoluti di vincere o morire. Egli avea tutti i talenti, e quello specialmente di farsi amare dai soldati, senza del quale ogni altro talento non val nulla. Se le campagne di Bonaparte in Italia si vogliono paragonare a quelle che i romani fecero in paesi stranieri, si potranno dir simili solo a quelle colle quali conquistarono la Macedonia. Scipione ebbe a combattere un grandissimo capitano che non avea nazione; molti altri non ebbero a fronte né generali né nazioni guerriere: solo nella Macedonia i romani trovarono potenza bene ordinata, nazione agguerrita ed audace per freschi trionfi, e generali i quali, se non aveano il genio, sapevano almeno la pratica dell’arte. Bonaparte cangiò la tattica, cangiò la pratica dell’arte; e le pesanti evoluzioni de’ tedeschi divennero inutili come le falangi de’ macedoni in faccia ai romani. Supera le Alpi e piomba nel Piemonte. Costringe il re di Sardegna, stanco forsi da una guerra di cinque anni, privato di buona porzione de’ suoi domini, abbandonato dagli austriaci, ridotti a difendere il loro paese, a sottoscrivere un armistizio, forse necessario, ma al certo non onorevole, ed a cedere a titolo di deposito fino alla pace quelle piazze che ancora potea e che difender dovea fino alla morte. Dopo ciò, la campagna non fu che una serie continua di vittorie. L’Italia era divisa in tanti piccoli Stati, i quali però, riuniti, pur potevano opporre qualche resistenza. Bonaparte fu sí destro da dividere i loro interessi. Questa è la sorte, dice Machiavelli, di quelle nazioni le quali han giá guadagnata la riputazione delle armi: ciascuno brama la loro amicizia, ciascuno procura distornare una guerra che teme. Cosí i romani han combattuto sempre i loro nemici ad uno ad uno e li han vinti tutti. Il papa tentò di stringere una lega italica. Concorrevano volentieri a questa alleanza le corti di Napoli e di Sardegna, la prima delle quali s’incaricò d’invitarvi anche la repubblica veneta. Ma i «savi» di questa repubblica alle proposizioni del residente napolitano risposero che nel senato veneto era giá quasi un secolo che non parlavasi di alleanza, che si sarebbe proposta inutilmente; ma che, se mai la lega fosse stata stretta tra gli altri principi, non era difficile che la repubblica vi accedesse. Ma, quando il gabinetto di Vienna ebbe cognizione di tali trattative, vi si oppose acremente e mostrò con parole e con fatti che piú della rivoluzione francese temeva l’unione italiana! Allora si vide quanto lo stato politico degl’italiani fosse infelice, non solo perché divisi in tanti piccoli Stati (ché pure la divisione non sarebbe stata il piú grave de’ mali), ma perché da duecento anni o conquistati o, quel che è peggio, protetti dagli stranieri, all’ombra del sistema generale di Europa, senza aver guerra tra loro, senza temerne dagli esteri, tra la servitú e la protezione, avean perduto ogni amor di patria ed ogni virtú militare. Noi, in questi ultimi tempi, non solo non abbiam potuto rinnovar gli esempi antichi de’ nostri avi antichissimi, i quali, riuniti, conquistarono tanta parte dell’universo, ma neanche quei meno illustri dei tempi a noi piú vicini, quando, divisi tra noi, ma indipendenti da tutto il rimanente dell’Europa, eravamo italiani, liberi ed armati. Gli austriaci, rimasti soli, non poterono sostener l’impeto nemico: tutta la Lombardia fu invasa, Mantova cadde, ed essi furono respinti fino al Tirolo. Bonaparte era giá poco lontano da Vienna, l’Europa aspettava da momento a momento azioni piú strepitose; quando si vide la Francia condiscendere ad una pace, colla quale essa acquistava il possesso della sinistra sponda del Reno e dell’importante piazza di Magonza, e l’Austria riconosceva l’indipendenza della repubblica cisalpina, in compenso della quale le si davano i domíni della repubblica veneta. Questa, col risolversi troppo tardi alla guerra, altro non avea fatto che dare ai piú potenti un plausibile motivo di accelerare la sua ruina. Per qual forza di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtú ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de’ sudditi e, piú che ogni nemico esterno, temer doveano la virtú de’ propri sudditi? Non so che avverrá dell’Italia; ma il compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille oligarchia veneta, sará sempre per l’Italia un gran bene. Ed io che, tra i beni che posson ricevere i popoli, il primo luogo do a quelli della mente, cioè al giudicar retto, onde vien poi l’oprar virtuoso e nobile; io credo esser giá sommo vantaggio il veder tolto l’antico errore per cui i gentiluomini veneziani godevan nelle menti del volgo fama di sapienti reggitori di Stato. Il trattato di Campoformio era vantaggioso a tutt’e due le potenze contraenti. L’Austria, sopra tutto, vi avea guadagnato massimo; e, se rimaneva ancora qualche altro oggetto a determinarsi, era facile prevedere che a spese de’ piú piccoli principi di Germania essa avrebbe guadagnato anche dippiú. Ma era facile egualmente prevedere che l’Inghilterra, avendo sola tra gli alleati colla guerra guadagnato e dovendo sola restituire, esser dovea lontana dai pensieri di pace. Il governo che allora avea la Francia, checché molti credessero, avea, almen per poco, rinunciato al progetto di democratizzazione universale, il quale, al modo come l’aveano i francesi immaginato, era solo eseguibile in un momento di entusiasmo. I romani mostravan di rendere ai popoli gli ordini che essi bramavano, ma non avevan la smania di portar dappertutto gli ordini di Roma. Quindi i romani conservarono meglio e piú lungamente l’apparenza di liberatori de’ popoli. Ma il governo francese riteneva tuttavia il primiero linguaggio per vendere a piú caro prezzo le sue promesse e le sue minacce: eravi sempre una contraddizione tra i proclami de’ generali e le negoziazioni de’ ministri, tra le parole date ai popoli e quelle date ai re; e, tra queste continue contraddizioni, si faceva, ora coi popoli ora coi re, un traffico continuo di speranze e di timori. Giá da questo ognuno prevedeva che il trattato di Campoformio avea sol per poco sospesa la democratizzazione di tutta l’Italia. Il re di Sardegna non era che il ministro della repubblica francese in Torino; il duca di Toscana ed il papa non erano nulla. Berthier finalmente occupò Roma; la distruzione di un vecchio governo teocratico non costò che il volerla; tale è lo stato dell’Italia, che chiunque vuole o salvarla o occuparla deve riunirla, e non si può riunire senza cangiare il governo di Roma. L’indifferenza colla quale l’Italia riguardò tale avvenimento mostrò bene qual progresso le nuove opinioni avean fatto negli animi degl’italiani.
CAPITOLO IV
NAPOLI - REGINA
Rimaneva il regno di Napoli; e forse, almen per quel tempo, i francesi non aveano né interesse né forza né volontá di attaccarlo. Ma la parentela coi sovrani di Francia, l’influenza preponderante del gabinetto inglese, il carattere della regina, tutto contribuiva a fomentare nella corte di Napoli l’odio che fin da principio, piú caldo che ogni altra corte di Europa, avea spiegato contro la rivoluzione francese. La regina, nel viaggio che avea fatto per la Germania e per l’Italia in occasione del matrimonio delle sue figlie, era stata la prima motrice di quella lega che poi si vide scoppiare contro la Francia. La forza costrinse la corte di Napoli a sottoscrivere una neutralitá, quando Latouche venne con una squadra in faccia alla stessa capitale. Forse allora temette piú di quel che dovea: se avesse prolungate per due altri giorni le trattative, la stagione ed i venti avrebbero fatta vendetta di una flotta che troppo imprudentemente si era avventurata entro un golfo pericoloso in una stagione pericolosissima.
La presa di Tolone fece rompere di nuovo la neutralitá. Al pari delle altre corti, quella di Napoli inviò delle truppe a sostenere una sciagurata impresa piú mercantile che guerriera, la quale, nel modo in cui fu immaginata e diretta, potea esser utile solo agl’inglesi. Nella primavera seguente inviò due brigate di cavalleria nella Cisalpina in soccorso dell’imperatore: esse si condussero molto bene. Ma le vittorie di Bonaparte in Italia fecero ricadere la corte ne’ suoi timori, e si affrettò a conchiudere una pace nel tempo appunto in cui l’imperatore avea maggior bisogno de’ suoi aiuti; nel tempo in cui, non presa ancora Mantova, non distrutte ancora tutte le forze imperiali in Italia, poteva, facendo avanzar le sue truppe, produrre un potente e forse pericoloso diversivo. Il governo francese ad una corte che non sapeva far la guerra seppe vendere quella pace, che esso avrebbe dovuto e che forse era pronto a comprare.
Perché si ebbe tanta paura della flotta di Latouche? Perché si credeva che in Napoli vi fossero cinquantamila pronti a prender l’armi in di lui favore. Non vi era nessuno, nessuno... Qual fu nella trattativa di questa pace il grande oggetto del quale si occupò la corte di Napoli? La liberazione di circa duecento scolaretti, che teneva arrestati nelle sue fortezze. Che non si fece, che non si pagò per far sí che il Direttorio non insistesse, come allora era di moda, per la liberazione de’ «rei di opinione»? La regina non approvava quella pace, e forse avea ragione; ma credette aver ottenuto molto, avendo ottenuto il diritto di poter incrudelire inutilmente contro pochi giovinetti che conveniva disprezzare... Non si perdano mai di vista questi fatti. La corte di Napoli non sapeva né che temere né che sperare: come si poteva pretendere che agisse saviamente?
La corte di Napoli era la corte delle irresoluzioni, della viltá ed, in conseguenza, delle perfidie. La regina ed il re eran concordi solo nell’odiare i francesi; ma l’odio del re era indolente, quello della regina attivissimo: il primo si sarebbe contentato di tenerli lontani, la seconda volea vederli distrutti. Ne’ momenti di pericolo, il re ascoltava i suoi timori e, piú de’ timori, la sua indolenza; al primo favore di fortuna, al primo raggio di nuove e liete speranze, per cagione della stessa indolenza, abbandonava di nuovo gli affari alla regina.
Acton fomentava nel re un’indolenza che accresceva l’imperio suo e della regina; e questa, per desiderio di comandare, non si avvedeva che Acton turbava tutte le cose e spingeva ad inevitabile rovina il re, il Regno e lei stessa. La regina era ambiziosa; ma l’ambizione è un vizio o una virtú, secondo le vie che sceglie, secondo il bene o il male che produce. Ella venne la prima volta da Germania col disegno d’invadere il trono, né si ristette finché, per mezzo degl’intrighi e dell’ascendente che una colta educazione le dava sull’animo del marito, non giunse a cangiar tutt’i rapporti interni ed esterni dello Stato.
Il marchese Tanucci previde le funeste conseguenze del genio novatore della giovine regina, e volle opporvisi fin da quel momento in cui pretese di aver entrata e voto nel Consiglio di Stato. Era questa una novitá inudita nel regno di Napoli, e molto piú nella famiglia di Borbone, ma la regina vinse e giurò vendicarsi di Tanucci: né la sua etá, né il suo merito, né li suoi lunghi e fedeli servizi poterono salvar questo vecchio amico di Carlo terzo ed aio, per cosí dire, di suo figlio dalla umiliazione e dalla disgrazia.
Sotto un re, debole inimico ed infedele amico, tutti compresero non esservi da temere, non da sperare, se non dalla regina; e tutti furono a lei venduti. Ella creò anche al di fuori nuovi sostegni all’impero.
Tutti gl’interessi politici univano il regno di Napoli a quello di Francia e di Spagna, e questi legami potevano formar la felicitá della nazione coi vantaggi del commercio e della pace. Ma gl’interessi della nazione poteano bene essere quelli del re, non mai però quelli della regina: ella volea nuovi rapporti politici, che la sostenessero, se bisognasse, contro il re e, se fosse possibile, anche contro la nazione. Noi diventammo ligi dell’Austria, potenza lontana, dalla quale la nazione nostra nulla potea sperare e tutto dovea temere; potenza, la quale, involta in continue guerre, ci strascinava ogni momento a prender parte negl’interessi altrui, senza poter mai sperare di veder difesi li nostri. La preponderanza che l’Austria andava acquistando sulle nostre coste offese la Spagna; ma la regina, lungi dal temere il suo sdegno, lo fomentò, lo spinse agli estremi, onde togliere al re ogni via di ravvedimento.
I ministri del re doveano esser i favoriti della regina; ma questa sacrificava sempre i suoi favoriti ai disegni suoi. L’ultimo è stato il piú fortunato di tutti, non perché avesse piú merito, ma perché avea piú audacia degli altri, li quali non combattevano con lui ad armi eguali, perché non si permettevano tutto ciò ch’egli ardiva fare. Conservavano ancora costoro qualche vecchio sentimento di giustizia, di amicizia, di pubblico bene: come contrastare con uno che tutto sacrificava alla distruzione de’ suoi nemici ed al favore della sua sovrana?[1].
Giovanni Acton venne dalla Toscana, cioè da uno Stato che non avea marina, a crearne una in Napoli. Avea due titoli, oltre un terzo che gli attribuisce la fama, a meritare il favore della regina: era, tra’ ministri del re, il solo straniero e seppe prima degli altri comprendere che in Napoli la regina era tutto ed il re era un nulla. Giunse nel tempo in cui ardevano piú che mai i disgusti colla corte di Spagna. Sambuca, che allora era primo ministro, prese il partito spagnuolo: fu male accorto e vile; perdette la grazia della regina e poco dipoi, come era inevitabile, anche quella del re. Si vide per poco suo successore Caracciolo: ma costui, rotto dagli anni e per natura portato all’indolenza, in una corte ove non si voleva il bene né si soffriva il vero, non fu che l’ombra di un gran nome e serví, senza saperlo o almeno senza curarlo, a far risplendere Acton, che la regina voleva esaltare, ma che ancora non poteva vincere la riputazione de’ piú vecchi. La morte di Caracciolo diede luogo finalmente ai suoi disegni: Acton fu posto alla testa degli affari, il vecchio De Marco confinato ai minuti dettagli di casa reale, tutti gli altri ministri non furono che creature di Acton. La sola parte d’ingegno, che Acton veramente possedeva, era quella di conoscer gli uomini. Non vi era alcuno che meglio di lui sapesse definire il carattere morale de’ suoi favoriti. Riputava Castelcicala vile e crudele nella sua viltá; Vanni entusiasta, ambizioso e crudele per furore quanto lo era Castelcicala per riflessione; Simonetti e Corradini ambedue uomini dabbene, ma il primo indolente, il secondo pedante, ed incapaci ambedue di opporsi a lui. Si serví di Castelcicala fin da che era ministro in Londra.
Note
CAPITOLO V
STATO DEL REGNO - AVVILIMENTO DELLA NAZIONE
Quel nobile sentimento di orgoglio, che solo ispira le grandi azioni, facendocene credere capaci; quel sentimento, che solo ispira lo spirito pubblico e l’amor della patria; quel sentimento, che in altri tempi ci fece esser grandi e che oggi fa grandi tante altre nazioni di Europa, delle quali fummo un tempo e maestri e signori, era interamente estinto presso di noi. Noi diventammo a vicenda or francesi or tedeschi ora inglesi; noi non eravamo piú nulla. Tante volte e sí altamente per venti anni ci era ripetuto che noi non valevamo nulla, che quasi si era giunto a farcelo credere.
La nazione napoletana sviluppò prima una frivola mania per le mode degli esteri. Questo produceva un male al nostro commercio ed alle nostre manifatture: in Napoli un sartore non sapeva cucire un abito, se il disegno non fosse venuto da Londra o da Parigi. Dall’imitazione delle vesti si passò a quella del costume e delle maniere, indi all’imitazione delle lingue: si apprendeva il francese e l’inglese, mentre era piú vergognoso il non sapere l’italiano[2]. L’imitazione delle lingue portò seco finalmente quella delle opinioni. La mania per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammiserisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose sue. La regina fu la prima ad aprir la porta a quelle novitá, che ella stessa poi con tanto furore ha perseguitate. Una nazione, che troppo ammira le cose straniere, alle cagioni di rivoluzione che porta seco il corso politico di ogni popolo aggiunge anche quelle degli altri popoli. Quanti tra noi erano democratici solo perché lo erano i francesi? Sopra cento teste voi dovete contare, in ogni nazione, cinquanta donne e quarantotto uomini piú frivoli delle donne: essi non ragionano in altro modo che in questo: - In... si pettina meglio, si veste meglio, si cucina meglio, si parla meglio: la prova n’è che noi ci pettiniamo, mangiamo, ci vestiamo com’essi fanno. Come è possibile che quella nazione non pensi e non operi meglio di noi?[3].
Note
CAPITOLO VI
INQUISIZIONE DI STATO
I nostri affetti, preso che abbiano un corso, piú non si arrestano. L’odio segue il disprezzo, e dietro l’odio vengono il sospetto ed il timore. La regina, che non amava la nazione, temeva di esserne odiata; e questo affetto, sebbene penoso, ha bisogno, al pari di ogni altro, di essere fomentato. Chiunque le parlò male della nazione fu da lei ben accolto.
Le novitá delle opinioni politiche accrebbero i suoi sospetti e diedero nuovi mezzi ai cortigiani per guadagnare il suo cuore. Acton non mancò di servirsene per perder Medici e qualche altro illustre suo rivale. Quindi si sciolse il freno e si portò la desolazione nel seno di tutte le famiglie.
Un esempio. I nostri giovinetti in quegli anni aveano per moda di far delle corse a cavallo per Chiaia ed ai Bagnuoli. Si dette a credere ad Acton, o piuttosto Acton volle dar a credere alla corte, che essi volessero rinnovare le corse olimpiche. Qual rapporto tra le corse de’ nostri giovani napolitani e quelle de’ greci? E, quando anche quelle fossero state un’imitazione di queste, qual male? qual pericolo? Acton intanto incaricò la polizia di vegliare su queste corse, come se si fosse trattato della marcia di venti squadroni nemici che piombassero sulla capitale.
Alcuni giovani entusiasti, ripieni la testa delle nuove teorie, leggevano ne’ fogli periodici gli avvenimenti della rivoluzione francese e ne parlavano tra di loro o, ciocché val molto meno, ne parlavano alle loro innamorate ad ai loro parrucchieri. Essi non aveano altro delitto che questo, né giovani senza grado, senza fortuna, senza opinione potevano tentarne altro. Fu eretto un tribunale di sangue col nome di «Giunta di Stato» per giudicarli, come se avessero giá ucciso il re e rovesciata la costituzione.
Pochi magistrati, tra coloro che componevano la Giunta, amanti veracemente del re e della patria, vedendo che il primo, il vero, il solo delitto di Stato era quello di seminar diffidenze tra il sovrano e la nazione, ardirono prendere la difesa dell’innocenza e proporre al re che la pena de’ rei di Stato mal si applicava a pochi giovani inesperti, i quali non di altro delitto eran rei che di aver parlato di ciò che era meglio tacere, di aver approvato ciò che era meglio esaminare; delitto di giovani, i quali si sarebbero corretti coll’etá e coll’esperienza, che avrebbe smentite le brillanti ma fallaci teorie onde erano le loro menti invasate. I mali di opinione si guariscono col disprezzo e coll’obblio: il popolo non intenderá, non seguirá mai i filosofi. Ma, se voi perseguitate le opinioni, allora esse diventano sentimenti; il sentimento produce l’entusiasmo; l’entusiasmo si comunica; vi inimicate chi soffre la persecuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l’uomo indifferente che la condanna; e finalmente l’opinione perseguitata diventa generale e trionfa.
Ma, ove si tratta di delitto di Stato, le piú evidenti ragioni rimangono inefficaci. Imperciocché di rado un tal delitto esiste, e di rado avviene che un uomo attenti con atto non equivoco alla costituzione o al sovrano di una nazione: il piú delle volte si tratta di parole che vaglion meno delle minacce, o di pensieri che vagliono anche meno delle parole. Tali cose vagliono quanto le fa valere il timore di chi regna[1]. Guai a chi ha ascoltato una volta le voci del timore! Quanto piú ha temuto, piú dovrá temere. Molto temeva la regina di Napoli, ed Acton voleva che temesse di piú. Le frequenti impressioni di sospetti e di timori, che aveva sofferte, avevano quasi alterato il di lei fisico e turbata interamente la serie e l’associazione delle sue idee. Persone degne di fede mi narrano che non senza pericolo di dispiacerle taluno le attestava la fedeltá de’ sudditi suoi.
Si volle del sangue, e se n’ebbe. Furono condannati a morte tre infelici, tra’ quali il virtuoso Emmanuele de Deo, a cui si fece offrire la vita purché rivelasse i suoi complici, e che in faccia all’istessa morte seppe preferirla all’infamia.
Ecco un esempio di ciò che possa e che produca il timore negli animi, una volta turbati. Nel giorno dell’esecuzione della sentenza si presero quelle precauzioni che altre volte si erano trascurate e che anche allora erano superflue. Si temeva che il popolo volesse salvare tre sciagurati, che appena conosceva; si temeva una sedizione di circa cinquantamila rivoluzionari, che per lo meno si diceva dover esser in Napoli. Intanto, le truppe che quasi assediavano la cittá, gli ordini minaccevoli del governo, tutto allarmava la fantasia del popolo; qualunque moto piú leggiero, che in altri tempi sarebbe stato indifferente, doveva turbarlo; temeva i sollevatori, temeva gli ordini del governo, temeva tutto; ed il minimo timore dovea produrre, come difatti produsse, in una gran massa di popolo un’agitazione tumultuosa. Cosí i sospetti del governo rendono piú sospettoso il popolo. Da quell’epoca il popolo napolitano, che prima quasi si conteneva da se stesso senza veruna polizia, fu piú difficile a maneggiarsi; tutte le pubbliche feste furono fatte con maggiori precauzioni, ma non furono perciò piú tranquille.
Si sciolse la prima Giunta. Si sperava poter respirare finalmente da tanti orrori; ma, pochi mesi dopo, si vide in campo una nuova congiura ed una Giunta piú terribile della prima. Si vollero allontanati tutti que’ magistrati che conservavano ancora qualche sentimento di giustizia e di umanitá. Si mostrò di volere i scellerati, ed i scellerati corsero in folla. Castelcicala, Vanni, Guidobaldi si misero alla loro testa. La nazione fu assediata da un numero infinito di spie e di delatori, che contavano i passi, registravano le parole, notavano il colore del volto, osservavano finanche i sospiri. Non vi fu piú sicurezza. Gli odii privati trovarono una strada sicura per ottener la vendetta, e coloro che non avevano nemici furono oppressi dagli amici loro medesimi, che la sete dell’oro e l’ambizione aveva venduti ad Acton ed a Vanni. Che si può difatti conservare di buono in una nazione, dove chi regna non dá le ricchezze, le cariche, gli onori se non ai delatori? dove, se si presenta un uomo onesto a chiedere il premio delle sue fatiche o delle sue virtú, gli si risponde che «si faccia prima del merito»? Per «farsi del merito» s’intendeva divenir delatore, cioè formar la ruina almeno di dieci persone oneste. Questo merito aveano tanti, i nomi de’ quali la giusta vendetta della posteritá non deve permettere che cadano nell’obblio. La regina, indispettita contro un sentimento di virtú che la massima parte della nazione ancora conservava, diceva pubblicamente che «ella sarebbe un giorno giunta a distruggere quell’antico pregiudizio per cui si reputava infame il mestiere di delatore». Tutte queste e molte altre simili cose si narravano: forse, siccome sempre suole avvenire, in picciola parte vere, pel maggior numero false e finte per odio. Ma queste cose, o vere o false che sieno, sono sempre dannose quando e si dicono da molti e da molti si credono, perché rendono piú audaci gli scellerati e piú timidi i buoni. Che se esse son false, meritano doppiamente la pubblica esecrazione que’ ministri i quali colla loro condotta dánno occasione a dirle e ragione a crederle. Per cagioni intanto di queste voci, una parte della nazione si armò contro l’altra; non vi furono piú che spie ed uomini onesti, e chi era onesto era in conseguenza un «giacobino». Vanni avea detto mille volte alla regina che il Regno era pieno di giacobini: Vanni volle apparir veridico, e colla sua condotta li creò.
Tutt’i castelli, tutte le carceri furono ripiene d’infelici. Si gittarono in orribili prigioni, privi di luce e di tutto ciò ch’era necessario alla vita, e vi languirono per anni, senza poter ottenere né la loro assoluzione né la loro condanna, senza neanche poter sapere la cagione della loro disgrazia. Quasi tutti, dopo quattro anni, uscirono liberi, come innocenti; e sarebbero usciti tutti, se non si fossero loro tolti i legittimi mezzi di difesa. Vanni, che era allor il direttor supremo di tali affari, non si curava piú di chi era giá in carcere; non pensava che a carcerarne degli altri: ardí dire che «almeno dovevano arrestarsene ventimila». Se il fratello, se il figlio, se il padre, se la moglie di qualche infelice ricorreva a costui per sollecitare la decisione della di lui sorte, un tal atto di umanitá si ascriveva a delitto. Se si ricorreva al re e che il re qualche volta ne chiedeva conto a Vanni, ciò anche era inutile, perché per Vanni rispondeva la regina, la quale credeva che Vanni operasse bene. Vanni diceva sempre che vi erano altre fila della congiura da scoprire, altri rei da arrestare; e la regina tutto approvava, perché temeva sempre altri rei ed altre congiure.
Vanni, il quale meglio di ogni altro sapeva con quali arti si era ordita un’inquisizione, diretta piú a fomentare i timori della regina che a calmarli, tremava ogni volta che gli si parlava di esame e di sentenza. Ei volea trovare il reo, e temea che si fosse ricercata la veritá[2].
Sembrerá a molti inverisimile tutto ciò che io narro di Vanni. E difatti il carattere morale di quell’uomo era singolare. Egli riuniva un’estrema ambizione ad una crudeltá estrema e, per colmo delle sciagure dell’umanitá, era un entusiasta. Ogni affare che gli si addossava era grandissimo; ma egli voleva sempre apparir piú grande di tutti gli affari. Uomini tali sono sempre funesti, perché, non potendo o non sapendo soddisfare l’ambizione loro con azioni veramente grandi, si sforzano di fare apparir tali tutte quelle che possono e che sanno fare, e le corrompono.
Vanni incominciò ad acquistar fama di giudice integro e severissimo colla condotta che tenne col principe di Tarsia, il quale era stato per qualche anno direttore della fabbrica di seterie che il re avea stabilita in San Leucio. Il primo errore forse lo commise il re, affidando tale impresa al principe di Tarsia anziché ad un fabbricante; il secondo lo fu di Tarsia, il quale, non essendo fabbricante, non dovea accettar tale commissione. Ne avvenne quello che ne dovea avvenire. Tarsia era un onestissimo cavaliere, cioè un onestissimo spensierato, incapace di malversare un soldo, ma incapace al tempo istesso d’impedir che gli altri malversassero. Si trovò ne’ conti una mancanza di circa cinquantamila scudi. Fu data a Vanni la commissione di liquidare i conti. Non eravi affare piú semplice, perché Tarsia era un uomo che poteva e voleva pagare. Pure Vanni prolungò l’affare non so per quanti anni: cadde il trono, e l’affare di Tarsia ancora pendeva indeciso; ed intanto non eravi genere di vessazioni e d’insulti ai quali non sottoponesse la famiglia di Tarsia, perché, dicesi, tale era l’intenzione di Acton. Gli uomini di buon senso, alcuni dicevano: - Che imbecille! - altri: - Che impostore! - Ma nella corte si faceva dire: - Che giudice integro! Con quanto zelo, con quanta fermezza affronta il principe di Tarsia, un grande di Spagna, un grande officiale del palazzo! - Come se l’ingiustizia che si commette contro i grandi non possa derivar dalle stesse cagioni ed essere egualmente vile che quella che si commette contro i piccioli.
Si avea bisogno d’un inquisitor di Stato, e si scelse Vanni per la ragione istessa per la quale non si avrebbe dovuto scegliere. La prima volta che Vanni entrò nell’assemblea de’ magistrati che dovean giudicare, si mostrò tutto affannato, cogli occhi mezzo stralunati, e, raccomandando ai giudici la giustizia, soggiunse: - Son due mesi da che io non dormo, vedendo i pericoli che ha corsi il mio re. - «Il mio re»: questo era il modo col quale egli usava chiamarlo dopo che gli fu affidata l’inquisizione di Stato. - Il vostro re! - gli disse un giorno il presidente del Consiglio, Cito, uomo rispettabile e per la carica e per cento anni di vita irreprensibile - il vostro re! Che volete intender mai con questa parola, che, sotto apparenza di zelo, nasconde tanta superbia? E perché non dite «il nostro re»? Egli è re di tutti noi, e tutti l’amiamo egualmente. - Queste poche parole bastano per far giudicare di due uomini; ma, in un governo debole, colui che pronunzia piú alto «il mio re» suole vincere chi si contenta di dire «il nostro re».
Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in se stesso; il colore del volto pallido-cinereo, come suole essere il colore degli uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt’i suoi affetti atterrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar di piú di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de’ signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l’uomo che dovea salvare il Regno!
Ma la macchina di quattro anni dovea finalmente sciogliersi. Gl’interessati fremevano; gli uomini di buon senso ridevano di una nuova specie di delitto di Stato che in quattro anni d’inquisizione non si era ancora scoperto; nel popolaccio istesso andava raffreddandosi quel caldo che nei primi tempi avea mostrato contro i rei, e quasi incominciava a sentir pietá di tanti infelici, i quali non vedendo condannati, incominciava a credere innocenti. Acton, che da principio era stato il principal autore dell’inquisizione, dopo averne usato quanto bastava ai suoi disegni, vedendola innoltrar piú di quel che conveniva e non volendo e non potendo arrestarla, avea ceduto il suo luogo a Castelcicala. Costui, il piú vile degli uomini, avea bisogno, per guadagnare il favore della regina, di quel mezzo che Acton avea adoperato solo per atterrare i suoi rivali, ed in conseguenza dovea spingerne l’abuso piú oltre, e lo spinse. Fece di tutto perché la cabala non si scoprisse: giunse ad imputare a delitto la religiositá di coloro che diedero il voto per la veritá; giunse a minacciare un castigo agli avvocati da lui stesso destinati, perché difendevano i rei con zelo. Ma la nazione era oppressa e non corrotta, e, se diede grandi esempi di pazienza, ne diede anche moltissimi, ed egualmente splendidi, di virtú. Nulla potette smuovere la costanza de’ giudici e lo zelo degli avvocati. Quando si vide la veritá trionfare, ed uscir liberi quei che si volevano morti, Castelcicala, per giustificarsi agli occhi del pubblico e del re, il quale finalmente si era occupato di un tal affare, immolò Vanni, e tutta la colpa ricadde sopra costui.
Vanni avea accusati al re tutti i giudici, il presidente del Consiglio Mazzocchi, Ferreri, Chinigò, gli uomini forse i piú rispettabili che Napoli avesse e per dottrina e per integritá e per attaccamento al proprio sovrano; e un momento forse si dubitò se dovessero esser puniti questi tali o Vanni. Se Vanni rimaneva vincitore, avrebbe compíta l’opera della perdita del Regno e della rovina del trono. Per buona sorte era giunto all’estremo, e rovinò se stesso per aver voluto troppo. Ma, prima che ciò avvenisse, di quanti altri uomini utili avrebbe privato lo Stato, e quanti fedeli servitori avrebbe tolti al re? Quando anche il rovescio del trono di Napoli non fosse avvenuto per effetto della guerra, Vanni sarebbe bastato solo a cagionarlo, e lo avrebbe fatto.
Vanni fu deposto ed esiliato dalla capitale: si tentò di raddolcire in segreto il suo esilio, ma invano. L’anima ambiziosa di Vanni cadde in un furore melanconico, il quale finalmente lo spinse a darsi da se stesso una morte, che, per soddisfazione della giustizia e per bene dell’umanitá, avrebbe meritato da altra mano e molto tempo prima. La sua morte precedette di poco l’entrata de’ francesi in Napoli. Egli li temea, avea chiesta alla corte un asilo in Sicilia, e gli era stato negato. Prima di uccidersi scrisse un biglietto, in cui diceva: «L’ingratitudine di una corte perfida, l’avvicinamento di un nemico terribile, la mancanza di asilo mi han determinato a togliermi una vita che ormai mi è di peso. Non s’incolpi nessuno della mia morte; ed il mio esempio serva a render saggi gli altri inquisitori di Stato». Ma gli altri inquisitori di Stato risero della sua morte, ne rise Castelcicala; e l’inquisizione continuò collo stesso furore, finché i francesi non furono a Capua.
Note
CAPITOLO VII
CAGIONI ED EFFETTI DELLA PERSECUZIONE
Io mi arresto; la mia mente inorridisce alla memoria di tanti orrori. Ma donde mai è nato tanto furore negli animi de’ sovrani d’Europa contro la rivoluzione francese? Molte altre nazioni aveano cangiata forma di governo; non vi è quasi secolo che non conti un cangiamento: ma né quei cangiamenti aveano mai interessati altri che le corti direttamente offese, né aveano prodotto nelle altre nazioni alcun sospetto ed alcuna persecuzione. Pochi anni prima, i saggi americani avean fatta una rivoluzione poco diversa dalla francese, e la corte di Napoli vi avea pubblicamente applaudito: nessuno avea temuto allora che i napolitani volessero imitare i rivoluzionari della Virginia. Il pericolo de’ sovrani è forse cresciuto in proporzione de’ loro timori?
I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione.
Quella Francia, che ci si presentava come un modello di governo monarchico, era una monarchia che conteneva piú abusi, piú contraddizioni: la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per iscoppiare. Grandi cause occasionali furono la debolezza del re, l’alterigia, or prepotente or debole anch’essa, della regina e di Artois, l’ambizione dello scellerato ed inetto Orléans, il debito delle finanze, Necker, l’Assemblea de’ notabili e, molto piú, gli Stati generali. Ma, prima che queste cagioni esistessero, eravi giá antica infinita materia di rivoluzione accumulata da molti secoli: la Francia riposava sopra una cenere fallace, che copriva un incendio devastatore.
Tra tanti che hanno scritta la storia della rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non giá ne’ fatti degli uomini, i quali possono modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose istesse, in quel corso che solo ne determina la natura? La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie opinioni, de’ vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non giá di quella di Francia, perché nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha descritto una monarchia assoluta, creata da Richelieu e rinforzata da Luigi decimoquarto in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre di Europa, dall’anarchia feudale, senza però averla distrutta, talché, mentre tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di Francia avea nel tempo istesso nemici ed i feudatari, ivi piú potenti che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno; una nobiltá singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre nazioni, era piú numerosa, ed a cui apparteneva chiunque voleva, talché ogni uomo, appena che fosse ricco, diventava nobile, ed il popolo perdea cosí financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col papa; i gradi militari di privativa de’ nobili, i civili venali ed ereditari, in modo che all’uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discussione delle opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni nasceva, poiché su di esse eran fondati gl’interessi reali de’ ceti; quindi la massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della corte, nell’atto che si predicava la massima tolleranza dai filosofi; quindi la massima contraddizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee, tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un’altra; contraddizione che dovea produrre l’urto vicendevole di tutte le parti, uno stato di violenza nella nazione intera, ed in séguito o il languore della distruzione o lo scoppio di una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia degna di Polibio[1].
La Francia avea nel tempo istesso infiniti abusi da riformare. Quanto maggiore è il numero degli abusi, tanto piú astratti debbono essere i princípi della riforma ai quali si deve rimontare, come quelli che debbono comprendere maggior numero di idee speciali. I francesi furono costretti a dedurre i princípi loro dalla piú astrusa metafisica, e caddero nell’errore nel qual cadono per l’ordinario gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte, che è quello di confonder le proprie idee colle leggi della natura. Tutto ciò che avean fatto o volean fare credettero esser dovere e diritto di tutti gli uomini.
Chi paragona la Dichiarazione de’ diritti dell’uomo fatta in America a quella fatta in Francia, troverá che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla ragione: la francese è la formola algebraica dell’americana. Forse quell’altra Dichiarazione che avea progettata Lafayette era molto migliore.
Idee tanto astratte portano seco loro due inconvenienti: sono piú facili ad eludersi dai scellerati, sono piú facili ad adattarsi a tutt’i capricci de’ potenti; i turbolenti e faziosi vi trovano sempre di che sostenere le loro pretensioni le piú strane, e gli uomini dabbene non ne ricevono veruna protezione. Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sará convinto.
I sovrani credettero, come i francesi, che la loro rivoluzione fosse un affare di opinione, un’opera di ragione, e la perseguitarono. Ignorarono le cagioni vere della rivoluzione francese e ne temettero gli effetti per quello stesso motivo per il quale non avrebbero dovuto temerli. Quando e dove mai la ragione ha avuto una setta? Quanto piú astratte sono le idee della riforma, quanto piú rimote dalla fantasia e da’ sensi, tanto meno sono atte a muovere un popolo. Non l’abbiamo noi veduto in Italia, in Francia istessa? Nel modo in cui i francesi aveano esposti i santi princípi dell’umanitá, tanto era sperabile che gli altri popoli si rivoluzionassero, quanto sarebbe credibile che le nostre pitture di ruote di carozze si perfezionino per i princípi di prospettiva dimostrati col calcolo differenziale ed integrale.
Se il re di Napoli avesse conosciuto lo stato della sua nazione, avrebbe capito che non mai avrebbe essa né potuto né voluto imitar gli esempi della Francia. La rivoluzione di Francia s’intendeva da pochi, da pochissimi si approvava, quasi nessuno la desiderava; e, se vi era taluno che la desiderasse, la desiderava invano, perché una rivoluzione non si può fare senza il popolo, ed il popolo non si move per raziocinio, ma per bisogno. I bisogni della nazione napolitana eran diversi da quelli della francese: i raziocini de’ rivoluzionari eran divenuti tanto astrusi e tanto furenti, che non li potea piú comprendere. Questo pel popolo. Per quella classe poi che era superiore al popolo, io credo, e fermamente credo, che il maggior numero de’ medesimi non avrebbe mai approvate le teorie dei rivoluzionari di Francia. La scuola delle scienze morali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua mente delle idee di Machiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva né prestar fede alle promesse né applaudire alle operazioni de’ rivoluzionari di Francia, tostoché abbandonarono le idee della monarchia costituzionale. Allo stesso modo la scuola antica di Francia, quella per esempio di Montesquieu, non avrebbe applaudito mai alla rivoluzione. Essa rassomigliava all’italiana, perché ambedue rassomigliavan molto alla greca e latina.
In una rivoluzione è necessitá distinguere le operazioni dalle massime. Quelle sono figlie delle circostanze, le quali non sono mai simili presso due popoli; queste sono sempre piú diverse di quelle, perché il numero delle idee è sempre molto maggiore di quello delle operazioni ed, in conseguenza, piú facile la diversitá, piú difficile la rassomiglianza. Non vi è popolo il quale non conti nella sua storia molte rivoluzioni: quando se ne paragonano le operazioni, esse si trovan somiglianti: paragonate le idee e le massime, si trovano sempre diversissime.
Chiunque vede una rivoluzione in uno Stato vicino deve temere o delle operazioni o delle idee. I mezzi per opporsi alle operazioni sono tutti militari: qualunque sieno le idee che due popoli seguono, vincerá quello che saprá meglio far la guerra; e quello la fará meglio, che avrá migliori ordini, piú amor di patria, piú valore e piú disciplina. Il mezzo per opporsi al contagio delle idee (lo dirò io?) non è che un solo: lasciarle conoscere e discutere quanto piú sia possibile. La discussione fará nascere le idee contrarie: è effetto dell’amor proprio: due uomini sono sempre piú concordi al principio della discussione che alla fine. Nate una volta queste massime contrarie, prenderanno il carattere di massime nazionali; accresceranno l’amor della patria, perché quelle nazioni piú ne hanno che piú differiscono dalle altre: accresceranno l’odio contro le nazioni straniere, la fiducia nelle proprie forze, l’energia nazionale; non solamente si eviterá il contagio delle opinioni, ma si riparerá anche alla forza delle operazioni. Mi si dice che il marchese del Gallo, quando ebbe letto l’elenco di coloro che trovavansi arrestati per cospiratori, ridendone al pari di tutti i buoni, propose al re di mandarli viaggiando. - Se son giacobini - egli diceva, - mandateli in Francia: ne ritorneranno realisti.- Questo consiglio è pieno di ragione e di buon senso, e fa onore al cuore ed alla mente del marchese del Gallo. Vince una rivoluzione colui che meno la teme. I sovrani colla persecuzione fanno diventar sentimenti le idee, ed i sentimenti si cangiano in sètte: il loro timore li tradisce, e cadono talora vittime delle stesse loro precauzioni eccessive. Si proibirono in Napoli tutti i fogli periodici: si voleva che il popolo non avesse neanche novella de’ francesi. Cosí un oggetto, che, osservato da vicino, avrebbe destato pietá o riso, fu come il fascio di sarmenti di Esopo, che dall’alto mare sembrava un vascello. Un’indomabile curiositá ne spinge a voler conoscere ciò che ci si nasconde, e l’uomo suppone sempre piú belle e piú buone quelle cose che sono coperte da un velo.
Ma io immagino talora, invece de’ nostri re, nelle crisi attuali dell’Europa, Filippo di Macedonia. La Grecia a’ di lui tempi era divisa tra i spartani ed ateniesi, i quali facevano la guerra per opinioni di governo ed uniti ai filosofi, che in quell’epoca discutevano le costituzioni greche, come appunto oggi li nostri filosofi discutono le nostre, stancavano i greci con guerre sanguinose e con cavillose dottrine. Cosí sempre suole avvenire: tra le varie rivoluzioni si obbliano le antiche idee, si perdono i costumi e, ridotte una volta le cose a tale stato, gli intriganti, tra’ quali i potenti tengono il primo luogo, guadagnano sempre, perché alla fine i popoli si riducono a seguir quelli che loro offrono maggiori beni sul momento; e cosí il massimo amore della libertá, producendo l’esaltazione de’ princípi, ne accelera la distruzione e rimena una piú dura servitú. Filippo con tali mezzi acquistò l’impero della Grecia.
È una disgrazia pel genere umano quando la guerra porta seco il cambiamento o della forma di governo o della religione: allora perde il suo oggetto vero, che è la difesa di una nazione, ed ai mali della guerra esterna si aggiungono i mali anche piú terribili dell’interna. Allora lo spirito di partito rende la persecuzione necessaria, e la persecuzione fomenta nuovo spirito di partito; allora sono que’ tempi crudeli anche nella pace. L’alta Italia ci ha rinnovati gli stessi esempi di Sparta ed Atene, quando le sue repubbliche, invece di restringersi a difender la loro costituzione, sotto il nome or di guelfi or di ghibellini, vollero riformare l’altrui; e gli stessi errori ebbero nell’Italia gli stessi effetti. Scala, Visconti, Baglioni, ecc., rinnovarono gli esempi di Filippo.
Tali epoche politiche sono meno contrarie di quello che si crede ai sovrani che sanno regnare. Ma in tali epoche vince sempre il piú umano, ed io oso dire il piú giusto. Oggi i repubblicani sono piú generosi e perdonano ai realisti; i re con una stolta crudeltá non dánno veruna tregua ai repubblicani: questo fará sí che essi avranno in breve freddi amici ed accaniti nemici. Quando l’armata del pretendente scese in Inghilterra, faceva impiccare tutt’i prigionieri di Hannover; Giorgio liberava tutt’i prigionieri del pretendente: questo solo fatto, dice molto bene Voltaire, basta a far decidere della giustizia de’ due partiti, pronosticare la loro sorte futura[2].
Note
CAPITOLO VIII
AMMINISTRAZIONE
Mentre da una parte con tali arti si avviliva e si opprimeva la nazione, dall’altra si ammiseriva col disordine in tutt’i rami di amministrazione pubblica. La nazione napolitana dalla venuta di Carlo terzo incominciava a respirare dai mali incredibili che per due secoli di governo viceregnale avea sofferti. Fu abbassata l’autoritá de’ baroni, che prima non lasciava agli abitanti né proprietá reale né personale. Si resero certe le imposizioni ordinarie con un nuovo catasto, il quale, se non era il migliore che si potesse avere, era però il migliore che fino a quel tempo si fosse avuto, e si abolí l’uso delle imposizioni straordinarie che, sotto il nome di «donativi», avean tolte somme immense alla nazione, passate senza ritorno nella Spagna[1]. Libera la nazione dalle oppressioni de’ baroni, dalle avanie del fisco, dalla perenne estrazione di denaro, incominciò a sviluppare la sua attivitá: si vide risorgere l’agricoltura, animarsi il commercio; la sussistenza divenne piú agiata, i spiriti piú colti, gli animi piú dolci. L’esserci noi separati dalla Spagna, e l’essersi la Spagna tolta alla famiglia di Austria e data a quella di Borbone, ed il patto di famiglia avean reso alla nostra nazione quella pace di cui avevamo bisogno per ristorarci dai mali sofferti; e la neutralitá, che ci fu permessa di serbare nell’ultima guerra tra la Spagna, la Francia e l’Inghilterra per le colonie americane, prodotto avea nella nostra nazione un aumento considerabile di ricchezze. In cinquant’anni avevamo fatti progressi rapidissimi, e vi era ragione di sperare di doverne fare anche di piú. La nostra nazione passava, per cosí dire, dalla fanciullezza alla sua gioventú. Ma questo stato di adolescenza politica è appunto lo stato piú pericoloso e quello da cui piú facilmente si ricade nel languore e nella desolazione. Le nazioni escono dalla barbarie accrescendo le loro forze e rendendo cosí la sussistenza sicura: non passano alla coltura se non accrescendo i loro bisogni. Ma i bisogni si sviluppano piú rapidamente delle forze, tra perché essi dipendono dalle sole nostre idee, tra perché le altre nazioni, senza comunicarci le loro forze, ci comunicano volontieri le idee, i loro costumi, gli ordini ed i vizi loro, il che per noi diventa sorgente di nuovi bisogni; e, se allora, crescendo questi, non si pensa anche ad accrescer le nostre forze, noi non avremo mai quell’equilibrio di forze e di bisogni, nel che solo consiste la sanitá degl’individui e la prosperitá delle nazioni: i passi che faremo verso la coltura non faranno che renderci servi degli stranieri, ed una coltura precoce e sterile diventerá per noi piú nociva della barbarie. Uno Stato che non fa tutto ciò che può fare è ammalato. Tale era lo stato di tutta l’Italia; e questo stato era piú pericoloso per Napoli, perché piú risorse avea dalla natura e piú estesa era la sfera della sua attivitá. Ma il governo di Napoli avea perduto gran parte delle sue forze, sopprimendo lo sviluppo delle facoltá individuali coll’avvilimento dello spirito pubblico: tutto rimaneva a fare al governo, ed il governo non sapea far nulla, né potea far tutto. Le nazioni ancora barbare amano di essere sgravate dai tributi, perché non hanno desidèri superflui; le nazioni colte si contentano di pagar molto, purché quest’aumento di tributo accresca la forza e migliori la sussistenza nazionale. Il segreto di una buona amministrazione è di far crescere la riproduzione in proporzione dell’esazione: non è tanto la somma de’ tributi, quanto l’uso de’ medesimi per rapporto alla nazione, quello che determina lo stato delle sue finanze[2]. Un governo savio ed attivo avrebbe corretti gli antichi abusi di amministrazione, avrebbe sviluppata l’energia nazionale, ci avrebbe esentati dai vettigali che pagavamo agli esteri per le loro manifatture, avrebbe protette le nostre arti, migliorate le nostre produzioni, esteso il nostro commercio: il governo sarebbe divenuto piú ricco e piú potente, e la nazione piú felice. Questo era appunto quello che la nazione bramava[3]. L’epoca in cui giunse Acton era l’epoca degli utili progetti: qual «progettista» egli si spacciò e qual «progettista» fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perché cagioni di nuove inutili spese. Acton ci voleva dare una marina. La natura avea formata la nazione per la marina, ma non aveva formato Acton per la nazione. La marina dovea prima di tutto proteggere quel commercio che allora avevamo, il quale, essendo di derrate e quasi tutte privative del Regno, o poca o niuna gelosia dar potea alle altre nazioni, le quali per lo piú un commercio aveano di manifatture. I nostri nemici erano i barbareschi, contro i quali non valeva tanto la marina grande quanto la piccola marina corsara, che Acton distrusse[4]. La marina armata dovea crescere in proporzione della marina mercantile e del commercio, senza di cui la marina guerriera è inutile e non si può sostenere. Acton, invece di estendere il nostro commercio, lo restrinse coi suoi errori diplomatici, col suo genio dispotico, colla sua mala fede, colla viltá con cui sposò gl’interessi degli stranieri in pregiudizio de’ nostri. Acton non conosceva né la nazione né le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza de’ quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire il piano delle creature di Acton, si, fosse seguíto il piano dei romani, che era quello della natura. La marina, come Acton l’avea immaginata, era un gigante coi piedi di creta. Era troppo piccola per farci del bene, troppo grande per farci del male: eccitava la rivalitá delle grandi potenze, senza darci la forza necessaria, non dico per vincere, ma almeno per poter resistere. Senza marina, saremmo rimasti in una pace profonda: con una marina grande, avremmo potuto vincere; ma, con una marina piccola, dovevamo, o presto o tardi, siccome poi è avvenuto, esser trascinati nel vortice delle grandi potenze, soffrendo tutt’i mali della guerra, senza poter mai sperare i vantaggi della vittoria. Lo stesso piano Acton seguí nella riforma delle truppe di terra. Carlo terzo ne avea fissato il numero a circa trentamila uomini; ma, come sempre suole avvenire nei piccoli Stati, i quali godono lunghissima pace, gli ordini di guerra si erano rilasciati, e di truppe effettive non esistevano piú di quindicimila uomini. Noi mancavamo assolutamente di artiglieria. Questa fu organizzata in modo da non lasciarci nulla da invidiare agli esteri. Ma il numero delle altre truppe fu accresciuto solo in apparenza, per ricoprire un’alta malversazione ed una profusione la quale non avea né leggi né limiti. Acton piú degli altri ministri vi si era prestato; e questa non fu l’ultima delle ragioni per cui meritò tanta protezione sí potente e sí lunga. Dalla morte di Iaci[5] incominciarono le riforme di abiti e di tattica. Veniva ogni anno dalla Spagna, dalla Francia, dalla Germania, dalla Svizzera un nuovo generale, il quale ora rialzava di due pollici il cappello, ora raccorciava di due dita l’uniforme, ora... Il soldato fremeva, vedendosi sottoposto a tante novitá, che un anno dopo sapeva doversi dichiarare inutili[6]. Questi generali conducevan sempre seco loro degli stranieri, i quali occupavano i primi gradi della truppa. Gli altri erano accordati agli allievi del collegio militare, dove la gioventú era invero bene istruita nelle cognizioni militari, ma non acquistava certamente né quel coraggio né quella sofferenza delle fatiche, che si acquista solo coll’etá e coi lunghi servigi. Il genio e le cognizioni debbono formare i generali: ma il coraggio e l’amor della fatica formano gli uffiziali. Il gran principio: che in tempo di pace l’anzianitá debba esser la norma delle promozioni, non era confacente al genio di Acton, il quale, quando non avesse avuto il dispotismo nel cuore, l’avea nella testa. Si videro vecchi capitani, abbandonati alla loro miseria, dover ubbidire a giovanetti inesperti e deboli, i quali non sapevano altro che la teoria, ed a molti altri (poiché, tolta una volta la norma sensibile del giusto, si apre il campo al favore ed all’intrigo), i quali non sapevano neanche la teoria, ma che, a forza di danaro, di spionaggio e di qualche titolo anche piú infame dello spionaggio, erano stati elevati a quel grado. I gradi, che non si potevano occupare da costoro, rimasero vuoti, e si videro de’ reggimenti interi mancare della metá degli officiali, mentre coloro che dovevan esser promossi domandavano invano il premio delle loro fatiche. Acton rispondeva a costoro che «aspettassero la pubblicazione del loro piano»; piano ammirabile, che costò ad Acton venti anni di meditazione e che, senza esser mai stato pubblicato, ha disorganizzata la truppa, disgustata la nazione, dissipato l’erario dello Stato! Tutto nel regno di Napoli era malversazione o progetti chimerici piú nocivi della malversazione; ed intanto ciò che era necessario non si faceva. Noi avevamo bisogno di strade: il marchese della Sambuca ne vide la necessitá, fu posta una imposizione di circa trecentomila ducati all’anno: l’opera fu incominciata, se ne fecero taluni spezzoni; ma poco di poi l’opera fu sospesa e la contribuzione convertita ad un altro uso. Province intere chiesero il permesso di costruirsi le strade a loro spese, promettendo intanto di continuare a pagare alla corte, sebbene giá convertita ad altro uso, l’imposizione che era addetta alle strade; promettendo pagarla per sempre, ancorché, quando s’impose, si fosse promesso di dover finire colla costruzione delle strade. Si crederebbe che questo progetto fosse stato rifiutato? Si può immaginare nazione piú ragionevole e piú buona e ministero piú stolidamente scellerato? Vi erano nel regno di Napoli alcuni errori nelle massime ed alcuni vizi nell’organizzazione, i quali impedivano i progressi della pubblica felicitá. Avean data origine ai medesimi altri tempi ed altre circostanze: le circostanze e i tempi eransi cangiati, ma gli errori ed i vizi sussistevano ancora. Simile a tutt’i governi i quali hanno un impero superiore alle proprie forze, il governo di Spagna, ne’ tempi della dinastia austriaca, avea procurato di distruggere ciò che non poteva conservare. Si era estinto ogni valor militare. A contenere una nobiltá generosa e potente, il primo de’ viceré spagnuoli, Pietro di Toledo, credette opportuno invilupparla tra i lacci di una giurisprudenza cavillosa la quale, nel tempo istesso che offriva facili ed abbondanti ricchezze a coloro che non ne avevano, spogliava quegli che ne abbondavano e moltiplicava oltre il dovere una classe di persone pericolose in ogni Stato, perché potevano divenir ricche senza esser industriose o, ciò che val lo stesso, senza che la loro industria producesse nulla. Tutti gli affari del Regno si discussero nel fòro, e nel fòro si disputò sopra tutti gli affari. Derivaron da ciò molti mali. Tutto ciò che non era materia di disputa forense fu trascurato: agricoltura, arti, commercio, scienze utili, tutto ciò fu considerato piuttosto come oggetto di sterile o voluttuosa curiositá che come studi utili alla prosperitá pubblica e privata. Si è letto per qualche secolo sulla porta delle nostre scuole un distico latino, nel quale la goffaggine dello stile eguagliava la stoltezza del pensiero, e che diceva: «Galeno dá le ricchezze, Giustiniano dá gli onori; tutti gli altri non dánno che paglia». E, se mai taluno, ad onta della mancanza di istruzione, concepiva qualche idea di pubblica utilitá, non poteva eseguirla senza prima soggettarsi ad un esame, il quale, perché fatto innanzi a giudici e con tutte le formole giudiziarie, diventava litigio. Si voleva fare un ponte? si dovea litigare. Si voleva fare una strada? si dovea litigare. Ciascuno del popolo ha in Napoli il diritto di opporsi al bene che voi volete fare. Carlo terzo fece grandissimi beni al Regno: egli riordinò l’amministrazione della giustizia, tolse gli abusi della giurisdizione ecclesiastica, frenò quelli della feudale, protesse le arti e l’industria; e piú bene avrebbe fatto, se il suo regno fosse stato piú lungo e se molti de’ ministri, che lo servivano, non avessero ancora seguite in gran parte le massime dell’antica politica spagnuola. Tanucci, per esempio, il di lui amico, quello tra’ suoi ministri a cui piú deve il Regno, errava credendo che il regno di Napoli non dovesse esser mai un regno militare. È nota la risposta che egli soleva dare a chiunque gli parlava di guerra: - Principoni, armate e cannoni; principini, ville e casini. - La sua massima era falsa, perché né il re di Napoli poteva chiamarsi «principino», né i principini sono dispensati della cura della propria difesa. Tanucci, piú diplomatico che militare, confidava piú ne’ trattati che nella propria forza; ignorava che la sola forza è quella che fa ottener vantaggiosi trattati; ignorava la forza del Regno che amministrava ed, invece di un’esistenza propria e sicura, gliene dava una dipendente dall’arbitrio altrui ed incerta. Continuò Tanucci a confondere il potere amministrativo ed il giudiziario, ed il fòro continuò ad esser il centro di tutti gli affari. Il potere giudiziario tende, per sua intrinseca natura, a conservar le cose nello stato nel quale si trovano; l’amministrativo tende a sempre cangiarle, perché tende sempre a migliorarle: il primo pronunzia sempre sentenze irrevocabili; il secondo non fa che tentativi, i quali si possono e talora si debbono cangiare ogni giorno. Se questi due poteri, per loro natura tanto diversi, li riunite, corrompete l’uno e l’altro. Tutto in Napoli si dovea fare dai giudici e per vie giudiziarie; e da questo ne veniva che tutte le operazioni amministrative eran lente e riuscivan male. Il governo era tanto lontano dalle vere idee di amministrazione, che i vari oggetti della medesima o non erano affidati a nessuno o erano commessi agli stessi giudici; quindi l’utile amministrazione o non avea chi la promovesse o era promossa languidissimamente da coloro che avean tante altre cose da fare. L’altro difetto, che vi era nell’organizzazione del governo di Napoli, era la mancanza di un centro comune, al quale, come tanti raggi, andassero a finir tutti i rami dell’amministrazione. Questo centro avrebbe dovuto essere il Consiglio di Stato. Ma Consiglio di Stato in Napoli non vi era se non di nome. Ciascun ministro era indipendente. I regolamenti generali, i quali avrebbero dovuto essere il risultato della deliberazione comune di tutt’i ministri, ciascun ministro li faceva da sé: in conseguenza, ciascun ministro li faceva a suo modo; i regolamenti di un ministro eran contrari a quelli di un altro, perché la principal cura di ogni ministro era sempre quella di usurpar quanto piú poteva l’autoritá de’ suoi colleghi e distruggere le operazioni del suo antecessore. Cosí non vi era nelle operazioni del governo né unitá né costanza: il ministro della guerra distruggeva ciò che faceva il ministro delle finanze, e quello delle finanze distruggeva ciò che faceva il ministro della guerra. Tra tanti ministri eravi sempre (e questo era inevitabile) uno piú innanzi di tutti gli altri nel favor del sovrano, e questo ministro era quegli che dava, come suol dirsi, il «tono» ed il «carattere» a tutti gli affari; tono e carattere che un momento di poi cangiava, perché cangiava il favore. Né valeva, ad assicurar la durata di un regolamento o di una legge, la ragionevolezza della medesima. Vi fu mai legge piú giusta di quella che obbligava i giudici a ragionar le loro sentenze, onde esse fossero veramente sentenze e non capricci? Tanucci avea imposta questa obbligazione ai giudici: Simonetti ne li sciolse. Si può credere che Simonetti pensasse di buona fede che i giudici non fossero obbligati a ragionare e ad ubbidire alla legge? Simonetti dunque tradí la sua propria coscienza, tradí il re, perché la legge, che egli abolí, non era opera sua, ma bensí di Tanucci. Gli esempi di simili cose sarebbero infiniti di numero, ma io mi son limitato a questo solo, perché, siccome esso urta evidentemente il senso comune, basta a dimostrare che i difetti di organizzazione de’ quali parliamo erano spinti tanto innanzi, da non rispettar piú neanche il senso comune. Si aggiunga a ciò che tutt’i ministri erano ministri di giustizia, imperciocché l’amministrazione della giustizia non era ordinata in modo che seguisse la natura delle cose o delle azioni, ma seguiva ancora, come avveniva presso i barbari del Settentrione, nostri antenati, la natura delle persone: la giustizia era diversa pel militare, pel prete, per l’uomo che possedeva una greggia, per l’uomo che non ne possedeva, ecc. ecc. Si eran moltiplicate in Napoli le corti giudicatrici piú che non furono moltiplicati in Roma gl’iddii ai tempi di Cicerone, per cui questo grand’uomo si doleva di non potersi fare un passo senza timore di urtare qualche divinitá; e, nel contrasto continuo tra tanti tribunali, spesso era ben difficile sapere da qual di essi uno dovesse esser giudicato. Io ho degli esempi di «quistioni di tribunale», le quali han durato diciotto anni. Nuovi disordini, e maggiori. In una monarchia, quello che nella giurisprudenza romana chiamavasi «rescritto del principe» deve avere vigore di legge; ma i principi saggi fanno pochissimi rescritti e non mai per altro che per alcuni casi particolari, onde è che in tutte le monarchie trovasi, per legge quasi fondamentale dello Stato, stabilito che il rescritto non debba mai trasportarsi da un caso all’altro. Nel regno di Napoli i rescritti eransi moltiplicati all’infinito: ciascun ministro ne faceva, e ciascun ministro faceva rescritti invece di leggi. Come sempre suole avvenire, i rescritti eran l’opera de’ commessi, e vi è stato tra essi taluno il quale per molti anni è stato il vero, il solo legislatore di tutto il Regno. Io mi trattengo molto sopra queste che sembran picciole cose, perché da esse dipendono le grandi. Cambiate le prime, ed imaginate che Tanucci avesse compresa tutta la potenza del Regno e vi avesse stabiliti ordini ed educazione militare; che il potere amministrativo fosse stato diviso dal giudiziario, e divenuto quello piú attivo, questo piú regolare; che tutte le parti dell’amministrazione avessero avuto un centro comune, un Consiglio permanente, alla testa del quale fosse stato il re; e che i ministri, non piú indipendenti l’uno dall’altro e tutti rivali, fossero stati costretti ad operare dietro un piano uniforme e costante; imaginate, insomma, che il re, invece di lasciar preponderare or questo or quell’altro ministro, avesse voluto esser veramente re; e tutto allora sarebbe cambiato. Imperciocché io son persuaso che, nello stato presente delle idee e de’ costumi dell’Europa, rarissimo e forse impossibile a trovarsi sia un re il quale non voglia il bene del suo regno: ma questo bene non si fa produrre, perché deve farsi dai ministri, i quali amano piú il posto che il regno e piú la persona propria che il posto. È necessitá dunque costringerveli colla forza degli ordini pubblici, il vero fine de’ quali, per chi intende, non è altro che garantire il re contro la negligenza e la mala volontá de’ ministri. Con picciolissime riforme voi producete un grandissimo bene, e tutte le riforme di uno Stato tendono ad un sol fine, cioè che il re sia veramente re. Ma, per questa ragione, a tali riforme i ministri si oppongono sempre; onde poi i mali diventano maggiori, ed inevitabili quelle grandissime crisi, per le quali spesso s’immolano dieci generazioni per rendere forse felice l’undecima. Veritá funesta e per i principi e per i popoli! Le rovine di quelli e di questi per l’ordinario sono l’effetto de’ ministri e di coloro che si millantano amici dei re[7].
Note
CAPITOLO IX
FINANZE
Chi paragona la somma de’ tributi che noi pagavamo con quella che pagavano le altre nazioni di Europa, crederá che noi non eravamo i piú oppressi. Chi paragona la somma delle imposizioni che noi pagavamo ai tempi di Carlo terzo con quella che poscia pagammo ai tempi di Ferdinando, vedrá forse che la differenza tra quella e questa non era grandissima. Ma intanto i bisogni della nazione eran cresciuti, erano cresciuti i bisogni della corte: quella veniva a pagare piú, perché in realtá avea meno superfluo; questa veniva ad esiger meno. Il poco che esigeva era malversato; non si pensava a restituire alla nazione ciocché da lei si prendeva; era facile il prevedere che tra poco le rendite non erano bastanti, ed il bisogno delle nuove imposizioni sarebbe stato tanto maggiore nella corte quanto maggiore sarebbe stata nel popolo l’impotenza di pagarle. S’incominciò dal cangiare per specolazione taluni dazi indiretti, i quali sembravano gravosi (tali erano, per esempio, quelli sul tabacco e sulla manna), e furono commutati in dazi diretti, che rendevano quasi il doppio. S’impose un dazio sulla caccia, che fino a quell’epoca era stata libera; ma non si pensò a regolarla, perché il dazio interessava la corte ed il regolamento interessava la nazione. S’impose un dazio sull’estrazione de’ nostri generi, mentre se ne doveva imporre uno sull’introduzione de’ generi esteri. Si ricorse finanche alla risorsa della «crociata», di cui non credo che vi possa essere risorsa piú vile, o che il governo creda o che non creda esser dell’onore della divinitá de’ cattolici che in taluni giorni dell’anno si mangino solo alcuni cattivi cibi che ci vendono gli eretici. Si ricercarono per tutto il Regno i fondi che due, tre, quattro, dieci secoli prima erano stati posseduti dal fisco, e si aprí una persecuzione contro le cose non meno crudele di quella contro le persone. Finché questa persecuzione fu contro i soli feudatari ed ecclesiastici, fu tollerabile; ma gli agenti del fisco, dopo che ebbero assicurato il dominio, come essi dicevano, del re, annullarono spietatamente tutt’i contratti e, beffandosi di ogni buona fede, turbarono il povero colono, il quale fu costretto a ricomprarsi con una lite o col danaro quel terreno che era stato innaffiato dal sudore de’ suoi maggiori e che formar dovea l’unica sussistenza de’ figli suoi. Forse un giorno non si crederá che il furore delle revindiche era giunto a segno che i cavalieri dell’ordine costantiniano, immaginando non so qual parentela tra Ferdinando quarto, gran maestro dell’ordine, e sant’Antonio abate, diedero a credere al re che tutt’i beni, i quali nel Regno fossero sotto l’invocazione di questo santo, si appartenessero a lui; ed egli, in ricompensa del consiglio e delle cure che mettevano i cavalieri in ricercare tali beni ovunque fossero, credette utile allo Stato, ed in conseguenza giusto, toglier tali beni a coloro che utilmente li coltivavano, e darli ad altri, i quali, essendo cavalieri costantiniani, avevano il diritto di vivere oziosi. Le municipalitá presso di noi avevano molti fondi pubblici, che le stesse popolazioni amministravano, la rendita de’ quali serviva a pagare i pubblici pesi. Molti altri ve n’erano, sotto nome di «luoghi pii», addetti alla pubblica beneficenza, fin da que’ tempi ne’ quali la sola religione, sotto nome di «caritá», potea indurre gli uomini a far un’opera utile a’ loro simili ed il solo nome di un santo potea raffrenar gli europei ancora barbari dall’usurparli. Mille abusi ivi erano, e nell’oggetto e nell’amministrazione di tali fondi; ma essi intanto formavano parte della ricchezza nazionale, ed il privarne la nazione, senza che altronde avesse avuto niun accrescimento di arti e di commercio onde supplirvi, era lo stesso che impoverirla. Il tempo, che tutt’i mali riforma meglio dell’uomo, avrebbe corretto anche questo. Una parte di questi fondi pubblici fu occupata dalla corte, e questo non fu il maggior male; l’altra, sotto pretesto di essere male amministrata dalle popolazioni, fu fatta amministrare dalla Camera de’ conti e da un tribunale chiamato «misto», ma che, nella miscela de’ suoi subalterni, tutt’altro avea che gente onesta. L’amministrazione dalle mani delle comuni passò in quelle de’ commessi di questi tribunali, i quali continuarono a rubare impunemente, e tutto il vantaggio, che dalle nuove riforme si ritrasse, fu che si rubò da pochi, dove prima si rubava da molti; si rubò dagli oziosi, dove prima si rubava dagl’industriosi; il danaro fu dissipato tra i vizi ed il lusso della capitale, dove che prima s’impiegava nelle province; la nazione divenne piú povera, e lo Stato non divenne piú ricco. Lo stesso era avvenuto per i fondi allodiali e gesuitici[1]. Tutto nel regno di Napoli tendeva alla concentrazione di tutt’i rami di amministrazione in una sola mano. Ma questa mano, non potendo tutto fare da sé, dovea per necessitá servirsi di agenti non fedeli, e la nazione allora cade in quel deplorabile stato, in cui dagl’impieghi sperasi non tanto l’onore di servir la patria quanto il diritto di spogliarla. Allora la nazione è inondata da quelle «vespe» giudicatrici, che tanto ci fanno ridere sulle scene di Aristofane. La nostra capitale incominciava ad essere affollata da quest’insetti, i quali, colla speranza di un miserabile impiego subalterno, trascurano ogni fatica: intanto i vizi ed i capricci crescono coll’ozio, ed, il miserabile soldo che hanno non crescendo in proporzione, sono costretti a tenere nell’esercizio del loro impiego una condotta la quale accresca la loro fortuna a spese della fortuna dello Stato e del costume della nazione. Io giudico della corruzione di un governo dal numero di coloro che domandano un impiego per vivere: l’onesto cittadino non dovrebbe pensare a servir la patria se non dopo di avere giá onde sussistere. Roma, nell’antica santitá de’ suoi costumi, non concedeva ad altri quest’onore. Cosí il disordine dell’amministrazione è la piú grande cagione di pubblica corruzione. Sul principio il disordine nelle finanze attaccò i piú ricchi; ma, siccome la loro classe formava anche la classe degl’industriosi, e da questi il rimanente del popolo viveva, cosí il disordine attaccò l’anima dello Stato, e tra poco tutte le membra doveano risentirsene egualmente. Nulla bastava alla corte di Napoli. Non bastò il danaro ritratto dallo spoglio delle Calabrie; si rimisero in uso i «donativi»; non passò anno senza che ve ne fosse uno. Finalmente neanche i «donativi» furono sufficienti, ed incominciaron le operazioni de’ banchi. I banchi di Napoli erano depositi di danaro di privati, ai quali il governo non prestava altro che la sua protezione. Erano sette corpi morali, che tutti insieme possedevano circa tredici milioni di ducati ed ai quali la nazione ne avea affidati ventiquattro. Le loro carte godevano il massimo credito, tra perché ipotecate sopra fondi immensi, tra perché un corpo morale si crede superiore a quegli accidenti a cui talora va soggetto un privato, tra perché tenevano sempre i banchi il danaro di cui si dichiaravano per depositari e che non potevano convertire in altro uso. Fino al 1793 essi furono riputati sacri. La regina pensò da banchi privati farli diventar banchi di corte. Il primo uso che ne fece fu di gravarli di qualche pensione in beneficio di qualche favorito; il secondo fu di costringerli a far degl’imprestiti a qualche altro favorito meno vile o piú intrigante; il terzo, di far contribuire grosse somme per i progetti di Acton, che si chiamavano «bisogni dello Stato», quasi che il danaro dei banchi non fosse danaro di quegl’istessi privati ch’erano stati giá tassati. Indi incominciarono le operazioni segrete. Si fecero estrazioni immense di danaro: quando non vi fu piú danaro, si fecero fabbricar carte, onde venderle come danaro. Le carte circolanti giungevano a circa trentacinque milioni di ducati, de’ quali non esisteva un soldo. Allora incominciò un agio fino a quel tempo ignoto alla nazione, e che in breve crebbe a segno di assorbire due terzi del valore della carta. La corte, lungi dal riparare al male allorché era sul nascere, l’accrebbe, continuando tutto giorno a metter fuori delle carte vuote e facendole convertire in contanti per mezzo de’ suoi agenti a qualunque agio ne venisse richiesto. Si vide lo stesso sovrano divenir agiotatore: se avesse voluto far fallire una nazione nemica, non potea fare altrimenti. L’agio era tanto piú pesante quanto che non si trattava di biglietti di azione, non di biglietti di corte, la sorte de’ quali avesse interessati soli pochi renditieri; si trattava di attaccare in un colpo solo tutto il numerario e di rovesciar tutte le proprietá, tutto il commercio, tutta la circolazione di una nazione agricola, la quale di sua natura ha sempre la circolazione piú languida delle altre. La corte si scosse quando il male era irreparabile. Diede i suoi allodiali per ipoteca delle carte vuote; ma né que’ fondi potean ritrovare cosí facilmente compratori, né, venduti, riparato avrebbero alla mala fede. Conveniva persuadere al popolo che di carte vuote non se ne sarebbero piú fatte, cioè conveniva persuadere o che la corte non avrebbe avuto piú bisogno o che, avendo bisogno, non avrebbe adoperato l’espediente di far nuove carte. Lo stato delle cose avrebbe fatto temere il bisogno, la condotta della corte faceva dubitar della sua fede. Come fidarsi di una corte, la quale, avendo giá incominciata la vendita de’ beni ecclesiastici, invece di lacerar due milioni e mezzo di carte ritratte dalla vendita, li rimise di nuovo in circolazione? Cosí questa porzione di debito pubblico venne a duplicarsi, poiché rimasero a peso della nazione le carte e si alienò l’equivalente de’ fondi. Non manca taluno, il quale ha creduto la vendita de’ beni ecclesiastici essere stata effetto, non giá di cura che si avesse di riempire il vuoto de’ banchi, ma bensí di timore che essi servissero di pretesto e di stimolo ad una rivoluzione. Quanto meno vi sará da guadagnare, dicevasi, tanto minore sará il numero di coloro che desiderano una rivoluzione. L’uomo che si dice autor di questo consiglio conosceva egli la rivoluzione, gli uomini, la sua patria?
Note
CAPITOLO X
Continuazione. - COMMERCIO
Il disordine de’ banchi, quindici anni prima, forse o non vi sarebbe stato o sarebbe stato piú tollerabile, perché la nazione avea allora un erario sufficiente a riempire il vuoto che ne’ banchi si faceva, o almeno a mantenervi sempre tanto danaro quanto era necessario per la circolazione. È una veritá riconosciuta da tutti, che ne’ pubblici depositi può mancare una porzione del contante senza che perciò la carta perda il suo credito; ma conviene che la circolazione sia in piena attivitá e che, mentre una parte della nazione restituisce le sue carte, un’altra depositi nuovi effetti. Ora, in Napoli da alcuni anni era cessata del tutto l’introduzione delle nuove specie, poiché estinta era ogni industria nazionale, e quei rapporti di commercio che soli ci eran rimasti colle altre nazioni erano tutti passivi. I tremuoti del 1783 e, piú de’ tremuoti, l’economia distruttiva della corte avean desolate le Calabrie; due delle piú fertili province eran divenute deserte. Il disseccamento delle paludi Pontine e la coltura che Pio sesto vi aveva introdotta ci avean tolto o almeno diminuito un ramo utilissimo di esportazione de’ nostri grani. Noi avevamo altre volte un commercio lucrosissimo colla Francia, e quello che sulla Francia guadagnavamo compensava ciò che perdevamo cogli inglesi, cogli olandesi e coi tedeschi. La rivoluzione di Francia, distruggendo le manifatture di Marsiglia e di Lione, fece decadere il nostro commercio d’olio e di sete. Conveniva dare maggiore attivitá alle nostre manifatture di seta ed istituir delle fabbriche di sapone: esse sarebbero divenute quasi privative per noi, ed avremmo ritratto almeno questo vantaggio dalla rivoluzione francese[1]. Ma quest’oggetto non importava ad Acton. Conveniva serbare un’esatta neutralitá, la quale, ne’ primi anni della rivoluzione francese, avrebbe dato un immenso smercio de’ nostri grani. Ma Acton e la regina credevano poter far morire i francesi di fame. Intanto i francesi destarono i ragusei ed i levantini, dai quali ebbero il grano, e non morirono di fame: noi perdemmo allora tutto il lucro che potevamo ragionevolmente sperare, ed oggi ci troviamo di aver acquistati in questo ramo di commercio de’ concorrenti, tanto piú pericolosi in quanto che abitano un suolo egualmente fertile e sono piú poveri di noi. Ci si permise il solo commercio cogl’inglesi, poiché il commercio di Olanda era anche nelle mani dell’Inghilterra, cioè ci si permise quel solo commercio che ci si avrebbe dovuto vietare: anzi, siccome l’opinione della corte era venduta agl’inglesi, cosí l’opinione della nazione lo fu egualmente; e non mai le brillanti bagatelle del Tamigi hanno avuta tanta voga sul Sebeto, non mai noi siamo stati di tanto debitori agl’inglesi, quanto nel tempo appunto in cui meno potevamo pagare. Questo disquilibrio di commercio ha tolto in otto o nove anni alla nazione napolitana quasi dieci milioni di suo danaro effettivo, oltre tanto, e forse anche piú, che avrebbe dovuto e che avrebbe potuto guadagnare, se il vero interesse della nazione si fosse preferito al capriccio di chi la governava. A tutti questi mali erasi aggiunto quello di una guerra immaginata e condotta in modo che distruggeva il Regno, senza poterci far sperare giammai né la vittoria né la pace. Si manteneva da quattro anni un esercito di sessantamila uomini ozioso nelle frontiere, ed il suo mantenimento costava quanto quello di qualunque esercito attivo in campagna. Per conservar, come si dicea, la pace del Regno, la quale si dovea fondar solo sulla buona fede del re, si richiesero nuovi soccorsi al popolo; e si ottennero. Si richiese non solo l’argento delle chiese, ma anche quello de’ privati, dando loro in prezzo delle carte che non avevano alcun valore; e si ottenne[2]. S’impose una decima su tutti i fondi del Regno, la quale produceva quasi il quarto di tutti gli altri tributi che giá si pagavano. Ma tutte queste risorse, che non furono piccole, si dissiparono, si perdettero, passando per mani negligenti o infedeli. Si spogliarono le campagne di cavalli, di muli, di bovi, che parte morirono per mancanza di cibo, parte si rivendettero da quegl’istessi che ne avean fatta la requisizione. Si tolsero nella prima leva le migliori braccia all’agricoltura, allo Stato la piú utile gioventú, che, strappata dal seno delle loro famiglie, fu condotta a morire in San Germano, Sessa e Teano: l’aria pestilenziale di que’ luoghi e la mancanza di tutte le cose necessarie alla vita, in una sola estate, ne distrussero piú di trentamila. Una disfatta non ne avrebbe fatto perdere tanti. Allora si vide quanto la nazione napolitana era ragionevole, amante della sua patria, ma nel tempo istesso nemica di opressioni e d’ingiustizie. Erano due anni da che si era ordinata una leva di sedicimila uomini, ma questa leva, commessa ad agenti venali, non era stata eseguita: la nazione vi aveva opposti tanti ostacoli, che pochissime popolazioni appena aveano inviato il contingente delle loro reclute. Gli abitanti delle province del regno di Napoli non amavano di fare il soldato mercenario, servo de’ capricci di un generale tedesco, che non conosce altra ordinanza che il suo bastone. La corte vide il male; la nuova leva fu commessa alle municipalitá o sia alle stesse popolazioni, ed i nuovi coscritti furon dichiarati «volontari», da dover servire alla difesa della patria fino alla pace. Al nome di «patria», al nome di «volontari», tutti corsero, e si ebbe in pochissimi giorni quasi il doppio del numero ordinato colla leva. Ma questi stessi, un anno dopo, disgustati dai cattivi trattamenti della corte, e piú dalla sua mala fede, per la maggior parte disertarono. Essi erano volontari da servir fino alla pace; la pace si era conchiusa, ed essi chiesero il loro congedo. Un governo savio l’avrebbe volentieri accordato, sicuro di riaverli al nuovo bisogno; ma il governo di Napoli non conosceva il potere della buona fede e della giustizia: anziché esserne amato, credeva piú sicuro esser temuto dai suoi popoli, e ne fu odiato. Tanti disertori, per evitare il rigore delle persecuzioni, si dispersero per le campagne: il Regno fu pieno di ladri e le frontiere rimasero prive di soldati. I cortigiani diedero torto ai soldati, perché volevano adular la corte[3]; gli esteri diedero torto ai soldati, perché volevano avvilir la nazione; e molti tra’ nostri, che pure hanno fama di pensatori, diedero torto ai soldati, perché non conoscevano la nazione ed adulavano gli esteri. Questi piccoli tratti caratterizzano le nazioni, gli uomini che le governano e quelli che le giudicano.
Note
CAPITOLO XI
GUERRA
Da una parte, la repubblica romana, teatro delle prime operazioni militari, piú che di uno Stato, presentava l’apparenza di un deserto, i pochi uomini abitatori del quale, invece di opporsi all’invasore, dovean ricevere chiunque loro portasse del pane. Dall’altra, l’imperatore di Germania rivolgeva di nuovo pensieri di guerra: né egli né il Direttorio volevan piú la pace; e si osservava che, mentre i plenipotenziari delle due potenze stavano inutilmente in Rastadt, i francesi occupavano la Svizzera ed i russi marciavano verso il Reno. Il re di Napoli, per completare il suo esercito, ordinò una leva di quarantamila uomini, la quale fu eseguita in tutto il Regno in un giorno solo. In tal modo sulle frontiere, al cader di ottobre, trovaronsi riuniti circa settantamila uomini. Mancava a queste truppe un generale, e, credendosi che non si potesse trovare in Napoli, si chiese alla Germania. Mack giunse come un genio tutelare del Regno. Il piano della guerra era che il re di Napoli avrebbe fatto avanzar le sue truppe nel tempo stesso che l’imperatore avrebbe aperta la campagna dalla sua parte. Il duca di Toscana ed il re di Sardegna doveano avere anch’essi parte nell’operazione, ed a tale oggetto facevano delle leve segrete ne’ loro Stati; e si erano inviati dalla corte di Napoli settemila uomini sotto il comando del general Naselli, il quale occupò Livorno ed a tempo opportuno doveva, insieme colle truppe toscane, marciar sopra Bologna e riunirsi alla grande armata. Si era creduto necessario, sotto apparenza di difesa, occupare militarmente la Toscana, perché quel governo era, tra tutti i governi italiani, il piú sinceramente alieno dai pensieri di guerra; e questo avea reso il ministero toscano tanto odioso al governo di Napoli, che poco mancò che non si vedessero dei corpi di truppa spedirsi da Napoli in Livorno a solo fine di obbligare il granduca a deporre Manfredini. In tal modo i francesi, circondati ed attaccati in tutti i punti, dovevano sloggiar dall’Italia. Ma l’imperatore intanto non si movea, tra perché forse opportuna non era ancora la stagione, tra perché aspettava i russi che non erano giunti ancora. Il Consiglio di Vienna avea risoluto di non aprir la campagna prima del mese di aprile. Non si sa come, si ottennero lettere piú autorevoli delle risoluzioni del Consiglio, le quali permettevano all’esercito napolitano di muoversi prima; e queste lettere erano state chieste ed ottenute con tanta segretezza, che il ministero istesso di Vienna non le seppe se non nello stesso giorno nel quale seppe e la marcia delle truppe e la disfatta. Amarissimi rimproveri ne ebbe chi allora risedeva in Vienna per la corte di Napoli. Il ministro Thugut diceva che questa corte avea tradita la causa di tutta l’Europa e che meritava di esser abbandonata al suo destino. La protezione dell’imperatore Paolo primo, presso il quale principal mediatrice fu la granduchessa Elena Paolowna, allora arciduchessa palatina, salvò la corte dagli effetti di questa minaccia. L’ambasciatore napolitano si giustificò, mostrando ordini in faccia ai quali quelli del Consiglio dovean tacere. Ma rimase e rimarrá sempre incerto e disputabile perché mai, contro gli stessi propri interessi, da Napoli si chiedevano e da Vienna si davano ordini segreti, contrari al piano pubblicamente risoluto, da tutti accettato, da tutti riconosciuto per piú vantaggioso. Intendevasi, con ciò, ingannar l’inimico o se stesso? È probabile che la corte di Napoli ardesse di soverchia impazienza di discacciar i francesi dall’Italia. È probabile ancora che tanta impazienza non nascesse da solo odio, ma anche da desiderio di trarre da una vittoria, la quale credevasi sicura, un profitto, che forse l’Austria non avrebbe volentieri conceduto, ma, trovandolo giá preso, lo avrebbe tollerato. Siccome nelle leghe non si dá mai piú di quello che uno si prende, cosí de’ collegati ciascuno si affretta a prendere quanto piú può e quanto piú presto è possibile; la vicendevole gelosia genera la comune mala fede e, mentre ciascuno pensa a sé, si obbliano gl’interessi di tutti. Ma, in tale ipotesi, perché mai l’Austria acconsentí alla dimanda di Napoli? Non è neanche inverosimile che Mack, sempre fertile in progetti, credesse facile discacciar i francesi; e, sicuro de’ primi successi (e chi non l’avrebbe creduto, quando Mack non si conosceva ancora?), amava piú d’invitare l’imperatore a goderne i frutti che dividerne la gloria. Sopra ogni altra congettura però è verosimile che la corte di Napoli operasse spesso senza l’intelligenza dell’imperatore di Germania, perché, mentre da una parte prestava il suo nome alla lega che si era stretta nel Nord e della quale era il centro principale in Vienna, dall’altra manteneva un suo ambasciatore in Parigi, il quale, quando la pace fu giá rotta, potette ottenere dal Direttorio ordini tali al generale in capo dell’armata d’Italia, che gl’impedivano d’invadere il regno di Napoli e limitavano le sue operazioni militari a respingere solamente l’aggressione. Il corriere che portava tali ordini fu, non si sa bene per quale accidente, assassinato nel Piemonte. Ora, ordini di tale natura, quando anche s’ignorino le trattative precedenti, è certo che non si possono ottenere senza supporre o che il Direttorio ignorasse interamente i disegni ed i movimenti del gabinetto di Napoli, il che è incredibile, o che avesse risoluto d’abbandonar l’Italia, talché la corte di Napoli, piú che sugli aiuti degli alleati, fondasse le speranze de’ suoi vantaggi sull’abbandono del governo francese, e volesse perciò procurarseli da sé sola, onde non esser costretta a dividerli cogli altri. È certo che la guerra con Napoli fu fatta contro gli ordini del Direttorio; che Championnet non ebbe altri che lo autorizzasse a farla se non il generale in capo Joubert, e che in faccia al Direttorio dovette scusarsi colla ragione di quella necessitá, che spesso spinge un generale oltre i limiti delle istruzioni superiori; e fu assoluto, perché facilmente si giustifica ogni audacia che abbia ottenuto prospero successo. Ma tutte queste cose agitavansi nel segreto del gabinetto, né a tutti i ministri del re erano confidate. Miserabile condizione di tempi, ne’ quali la sorte de’ popoli dipende piú dall’intrigo che dal valor vero, e vedesi un governo, il quale poteva tutto ragionevolmente sperare dalle forze proprie e dall’opportunitá delle circostanze, avvilirsi a cercar la vittoria dai capricci e dalle promesse degli uomini, meno stabili della stessa fortuna! Se la corte di Napoli, consultando le proprie forze e la propria ragione, anziché la guerra, l’avesse guerreggiata, ne avrebbe ottenuti successi o piú felici o meno disastrosi. Difatti il maggior numero de’ consiglieri del re, sia che ignorassero le segrete ragioni sulle quali si fondavano tutte le speranze del buon successo, sia che non vi mettessero molta fede, rimasero fermi nel parere della pace. Ma Acton ebbe cura di allontanarli. Quando si decise la guerra, non intervennero molti degli antichi consiglieri. Il marchese De Marco, il generale Pignatelli, il marchese del Gallo eran per la pace. Per la pace furono il maresciallo Parisi ed il general Colli, chiamati in Consiglio, sebbene non consiglieri. Ma la regina, Mack, Acton, Castelcicala formarono la pluralitá e strascinarono l’animo del re. - Che vi pare di questa guerra giá risoluta? - domandò molti giorni dipoi la regina ad Ariola, che era ministro di guerra e che intanto non ne sapeva ancor nulla. Ariola, che avrebbe voluto tacere, spronato a parlare, le disse che da tal guerra vi era piú da temere che da sperare. - Il re potrebbe - disse Ariola - sostener con vantaggio una guerra difensiva, ma tutto gli manca per l’offensiva. Egli non combatte ad armi eguali. I francesi, pochi di numero, son tutti soldati avvezzi alla guerra ed alla fatica; l’esercito nostro è per metá composto di reclute strappate appena da un mese dal seno delle loro famiglie, ed il loro numero maggiore non servirá che ad imbarazzare i buoni veterani che son tra loro, ed a rendere piú sensibile la mancanza in cui siamo di buoni officiali, il numero de’ quali non abbiam potuto raddoppiare in un momento, come abbiam raddoppiato quello della truppa. Perché non si aspetta che queste truppe si disciplinino? Perché non si aspetta che l’imperatore si muova il primo? Tanta fretta si ha dunque di vincere, che non si ha cura neanche di render sicura la vittoria? Tanto certo è della vittoria Mack, che si avvia senza neanche pensare alla possibilitá di un rovescio? Si apre una guerra nelle frontiere, è necessario che uno de’ due Stati immediatamente sia invaso; ed intanto niuna cura egli si ha preso della difesa dell’interno del Regno, che tutto è aperto, ed, al primo rovescio che noi avremo, il nemico sará nel cuore de’ nostri Stati. A noi non sará molto facile, soli e senza il soccorso dell’imperatore, discacciar l’inimico dall’Italia, e, finché ciò non si ottenga, nulla si potrá dir fatto. Molte vittorie bisognano a noi: una sola basta all’inimico. Quanto piú l’inimico si avanzerá, tanto piú facile troverá la strada alla vittoria; ma quando piú ci avanzeremo noi, tanto maggiori e piú numerosi ostacoli incontraremo: la sorte dell’inimico si decide in un momento; la nostra, sebbene prospera, avrá bisogno di molto tempo. Intanto Mack, quasi potesse terminar la guerra in pochi giorni, si avvia verso un paese desolato, ove è penuria di tutto, senza aver prima pensato a provvedersi, ed in una stagione in cui difficili sono i trasporti ed i generi non abbondanti. Egli si avvia a conquistare il territorio altrui e forse a perdere il proprio. - Quale fu l’effetto di questo discorso? Mack ed Acton se ne offesero, Acton minacciò Ariola, Ariola se ne dolse col re e, mentre il re gli dava ragione, Acton in sua presenza gli tolse il portafoglio. Pochi giorni dipoi, l’esperimento confermò la veracitá de’ suoi pronostici. Il re, fuggito da Roma, giunse a Caserta: si ricorda di Ariola e lo invoca come l’unico suo liberatore. Ariola parte pel campo onde concertare con Mack i mezzi di difendere il Regno da un’invasione. Trova lo stato maggiore in Terracina, ma Mack non vi era, né alcuno sapeva indicare ove mai si trovasse. Intanto vede ritornar l’esercito tutto disperso. Crede necessario tornare in Caserta e non perder tempo. Poche ore dopo la di lui partenza, Mack arriva. Scrive al re che il ministro della guerra era un vile, il quale avea abbandonato il suo posto. Ed Ariola è arrestato. Né è improbabile che a questa disgrazia di Ariola abbia prestata la sua mano anche Acton, se è vero ciò che taluni dicono, che, accusato egli di aver mal diretti alcuni preparativi militari, abbia voluto farne creder colpevole Ariola ed abbia afferrata potentemente l’occasione di poter far sequestrare le di lui carte, onde non si venisse mai in chiaro del vero autore. Credeva egli con un delitto di cortigiano conservar la fama di generale?
Note
CAPITOLO XII
Continuazione.
La guerra fu risoluta. Si pubblica un proclama, col quale il re di Napoli, con equivoche parole, dichiara che egli voleva conservar l’amicizia che aveva colla repubblica francese, ma che si credeva oltraggiato per l’occupazione di Malta, isola che apparteneva al regno di Sicilia, e non poteva soffrire che fossero invase le terre del papa, che amava come suo antico alleato e rispettava come capo della Chiesa; che avrebbe fatto marciare il suo esercito per restituire il territorio romano al legittimo sovrano (si lascia in dubbio se questo sovrano fosse o no il papa); ed invita qualunque forza armata a ritirarsi dal territorio romano, perché, in altro caso, se le sarebbe dichiarata la guerra. Simile proclama non si era veduto in nessun secolo della diplomazia, a meno che i romani non ne avessero formato uno, allorché ordinarono agli altri greci di non molestar gli acarnanii, perché tra i popoli della Grecia erano stati i soli che non avevano inviate truppe all’assedio di Troia. Questo proclama fu pubblicato a’ 21 novembre. A’ 22 tutto l’esercito partí e, diviso in sette colonne, per sette punti diversi entrò nel territorio romano. Le colonne che mossero da San Germano e da Gaeta si avanzarono rapidissimamente. Né la stagione dirottamente piovosa, né i fiumi che s’incontrarono pel cammino, né la difficoltá de’ trasporti di artiglieria e viveri in cammini impraticabili per profondissimo fango, fecero arrestar gli ordini di Mack. Egli non faceva che correre: si lasciava indietro l’artiglieria, cominciavano a mancare i viveri, il soldato era privo di tutto, avea bisogno di riposo; e Mack correva. Le colonne di Micheroux e di Sanfilippo erano state giá battute negli Apruzzi. La voce pubblica di questo rovescio incolpò i generali; ma è certo che posteriormente la condotta di Micheroux è stata esaminata da un Consiglio di guerra ed è stata trovata irreprensibile. Di Sanfilippo non sappiamo nulla. Ma la voce pubblica in questi casi non merita mai intera fede, perché il popolo giudica per l’ordinario dall’esito e spesso dá piú lode e piú biasimo di quello che taluno merita. Mack, il quale non avea pensato mai a stabilire una ferma comunicazione tra i diversi corpi del suo esercito ed un concerto tra le varie loro operazioni, non seppe se non tardi un avvenimento il quale dovea cangiar tutto il suo piano, ed intanto continuava a correre. Giunse a’ 27 di novembre in Roma. S’impiegarono cinque giorni in un cammino che ne avrebbe richiesto quindici. Non si concessero che cinque ore di riposo sotto le armi alla truppa, e fu costretta di nuovo a correre a Civita Castellana. Per la strada i viveri mancarono del tutto: i provvisionieri dell’esercito chiedevano invano a Mack ove dovessero inviarli; gli ordini del generale erano tanto rapidi, che, mentre si eseguiva il primo, si era giá dato il secondo, il terzo, il quarto, il quinto; i viveri si perdevano inutili per le strade, ed i soldati e i cavalli intanto morivano di fame. Quando giunsero a Civita Castellana, i nostri da tre giorni non avean veduto pane. Essi erano nell’assoluta impossibilitá di poter reggere a fronte di un nemico fresco, che conosceva il luogo e che distrusse il nostro esercito, raggirandolo qua e lá per siti ove il maggior numero era inutile. Mack non seppe ispirar coraggio ad una truppa nuova, esercitandola con piccole scaramucce contro i piccoli corpi nemici che incontrò da Terracina a Roma e che, messi per insensato consiglio in libertá, produssero due mali gravissimi: il primo de’ quali fu quello di non avvezzare le truppe sue alla vittoria quando questa era facile e sicura; il secondo, di accrescer il numero de’ nemici nel momento delle grandi e pericolose azioni. Non seppe Mack far battere due colonne nello stesso tempo: furon tutte disfatte in dettaglio. Mack ignorava i luoghi dove si trovava e, sull’orlo del precipizio, credeva e faceva credere al re che le cose andavano prospere. Per la resistenza che i francesi avean fatta all’esercito del re delle Due Sicilie, costui dichiarò loro la guerra a’ 7 dicembre, cioè quando la guerra per le disfatte ricevute era giá terminata, e dovea pensarsi alla pace. Dopo due altri giorni, tutto l’esercito fu in rotta, e Mack non trovò altra risorsa che correre indietro, come prima avea corso in avanti. In meno di un mese, Ferdinando partí, corse, arrivò, conquistò il regno altrui, perdette uno de’ suoi e, poco sicuro dell’altro, fu quasi sul punto di fuggire fino al terzo suo regno di Gerusalemme per ritrovare un asilo. Io non sono un uomo di guerra: gli altri leggeranno la storia di tali avvenimenti nelle Memorie di Bonamy ed in quelle del nostro Pignatelli, che vide i fatti e che era capace di giudicarne. Mack ha pubblicato anch’egli la sua Memoria. Egli calunnia la nazione e l’esercito. Ma l’esercito, alla testa del quale fu battuto, non era quello stesso esercito col quale, mentre taluno lo consigliava a procedere piú adagio, egli avea detto di voler conquistare l’Italia in quindici giorni?[1]. Quest’uomo, che un momento prima sfidava tutte le potenze della terra, al primo rovescio perdette tutto il suo genio. Sebbene battuto, pure conservava tuttavia forze infinitamente superiori; e, se non poteva vincere, poteva almeno resistere: cogli avanzi del suo esercito poteva fermarsi a Velletri oppure al Garigliano, ove potea per lungo tempo contendere il passo: potea salvar Gaeta e salvare il Regno. Ma egli, che nella sua fortuna non avea fatto altro che correre, nella disgrazia non seppe far altro che fuggire; né si fermò se non giunse a Capua, dove pensava difendersi e dove non si trattenne che un momento. Capua si poteva facilmente difendere e di lá forse si potea con migliori auspíci ritentar di nuovo la sorte delle armi. Ad un proclama che si pubblicò per la leva in massa, tutto il Regno fu sulle armi. Gli apruzzesi si opposero alla divisione di Rusca e, se non riuscirono ad impedirgli il passo, fecero però sí che gli costasse molto caro. Tra le montagne impraticabili della provincia dell’Aquila non si pervenne mai ad estinguere l’insorgenza, e la stessa capitale della provincia non fu che per pochi giorni in poter de’ francesi, ridotti a doversi difendere entro il castello. L’altra divisione, che venne per Terracina e Gaeta, si avanzò fino a Capua, ma non potette impedire l’insorgenza, che era scoppiata ad Itri e Castelforte; e gl’insorgenti, che cedettero per poco le pianure, si rifuggirono nelle loro montagne, donde tornarono poco dopo ad infestare la coda dell’esercito francese, che vide rotta ogni comunicazione coll’alta Italia. Un corpo di truppe difendeva con valore e con felice successo il passo di Caiazzo. Capua avea quasi dodicimila uomini di guarnigione. Tutti gli abitanti delle contrade di Nola e di Caserta eransi levati in massa, ed eravi ancora un corpo di truppe intatto comandato da Gams. Io dirò cosa che ai posteri sembrerá inverosimile, ma che intanto mi è stata giurata da quasi tutt’i capuani. Se Capua non fu presa per sorpresa non fu merito di Mack, ma di un semplice tamburo o cannoniere che fosse stato, il quale di proprio movimento die’ fuoco ad un cannone de’ posti avanzati verso San Giuseppe e fece sí che i francesi si arrestassero. Mack certamente non avea data alcuna disposizione di difesa. Io lo ripeto: non sono uomo di guerra, né imprendo ad esaminar ad una ad una le operazioni e gli accidenti della campagna. Ma io credo che gli accidenti debbano mettersi a calcolo e che la somma finale dell’esito dipenda meno dagli accidenti che dal piano generale. Mack peccò naturalmente nell’estender troppo la linea delle sue operazioni, talché il minimo urto dell’inimico gliela ruppe. Ebbe piú cura dell’inimico che gli stava a fronte che di quello che gli stava sui fianchi, mentre forse questo era sempre piú terribile di quello; quindi è che egli si avanzò sempre rapidissimamente, e questa stessa rapiditá, che alcuni chiaman vittoria, fu la cagione principale delle sue inopinate irreparabili disfatte. Battuto in un punto, Mack fu battuto in tutta la linea, perché tutta la linea gli fu rotta. Quando Mack preparava un piano tanto vasto per combattere un inimico debolissimo, molti dissero che Mack era un gran generale, perché molti sono quelli che misurano la grandezza di una mente dalla grandezza delle forze che move: io dissi che era poco savio, perché la saviezza consiste nel produrre il massimo effetto col minimo delle forze. Mack è un generale da brillare in un gabinetto, perché in un gabinetto appunto, e prima dell’azione, predomina nelle menti del maggior numero l’errore di confonder la grandezza della macchina colla grandezza dell’artefice. Non manca Mack di quelle cognizioni teoretiche della scienza militare che impongono tanto facilmente al maggior numero. È sicuro di ottenere in suo favore la pluralitá de’ voti un generale il quale vi parli sempre di matematica, geografia, storia, che vi rammenta i nomi antichi di tutt’i sciti, vi enumera tutte le grandi battaglie che gli hanno illustrati ed, a confermar ogni evoluzione che gli vien fatta d’immaginare, vi adduce l’esempio di Eugenio, di Raimondo Montecuccoli|Montecuccoli, di Cesare, di Annibale e di Scipione. Il buon senso per altro pare che ci dovrebbe indurre a diffidare dei piani di campagna troppo eruditi: essi per necessitá son troppo noti anche all’inimico, ed in conseguenza inutili. Tutto il vero segreto della guerra, dice Macchiavelli, consiste in due cose: fare tutto ciò che l’inimico non può sospettar che tu faccia, lasciargli fare tutto ciò che tu hai previsto che egli voglia fare: col primo precetto renderai inutile ogni sua difesa, col secondo ogni offesa. Questi capitani soverchiamente sistematici hanno anche un altro difetto, ed è quello di dar un nesso, una concatenazione troppo stretta alle loro idee: si mandano il loro piano a memoria e, se avviene che una volta la fortuna della guerra lo tocchi, rassomigliano i fanciulli che han perduto il filo della loro lezione e son costretti ad arrestarsi. Vuoi conoscere a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo la contraddizione ed i consigli altrui: il criterio della veritá è per lui, non giá la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensí tra le sue idee medesime. Prima dell’azione sono audacissimi, timidissimi dopo l’azione: audacissimi, perché non pensano che le cose possan esser diverse dalle idee loro; timidissimi, perché, non avendo prevista questa diversitá, non vi si trovan preparati. Affettano ne’ loro discorsi estrema esattezza; ma questa è inesattissima, perché trascurano tutte le differenze che esistono nella natura. Numerano gli uomini e non li valutano: piú che nell’uomo confidan nell’esercito, piú che nella virtú dell’animo confidano in quella del corpo e piú che nel valore confidan nella tattica. Questi duci piú potenti in parole che in opere prevalgon sempre, per disgrazia delle nazioni, o quando gli ordini militari di uno Stato sono tali che tutta l’esecuzione di una guerra dipenda da un’assemblea e da un Consiglio, o quando coloro che reggono la somma delle cose non sono esenti da ogni spirito di partito; e questo non è certamente il minore de’ mali che lo spirito di partito e gli ordini mal congegnati soglion produrre.
Note
CAPITOLO XIII
FUGA DEL RE
I governi son simili agli uomini: tutte le passioni sono utili al saggio e forman la rovina dello stolto. Il timore che la corte di Napoli ebbe de’ francesi, invece d’ispirarle una prudente cautela, fu cagione di rovinosa viltá. A forza di temerli, li rese piú terribili di quello che erano. Una persona di corte mi diceva, pochi giorni prima di dichiararsi la guerra, esser prudente consiglio non far sapere al soldato che egli andava a battersi contro i francesi e, con tale idea, l’essersi imaginato quel gergo equivoco col quale fu scritto il proclama e col quale si ottenne di tener celato fino al momento dell’attacco il vero oggetto della spedizione. - Ebbene! - dissero i soldati quando lo seppero - ci si era detto che noi non avevamo guerra coi francesi! - Questa non è stata una delle ultime cagioni per cui in Napoli hanno mostrato piú coraggio le leve in massa che le truppe regolari, ed il coraggio, invece di scemar colle disfatte, è andato crescendo. E sarebbe cresciuto anche dippiú, se il generale non fosse stato Mack. Vi è della differenza tra l’avvezzare un popolo a disprezzare il nemico ed il fargli credere che non ne abbia: il primo produce il coraggio, il secondo la spensieratezza, cui nel pericolo succede lo sbalordimento. Cesare i suoi soldati, spaventati talora dalla fama delle forze nemiche, non confortava col diminuirla, ma coll’accrescerla. Una volta che si temeva vicino l’arrivo di Iuba, ragunati a concione i soldati: - Sappiate - loro disse - che tra pochi giorni sará qui il re con dieci legioni, trentamila cavalli, centomila armati alla leggiera e trecento elefanti. Cessate quindi di piú vaneggiare per saper quali sieno le sue forze. - Cesare accrebbe il pericolo reale, che, sebben grande, ha però un limite, per toglier quello della fantasia, che non ha limite alcuno. Cosí voglion esser governati tutt’i popoli. Lo stesso timore, che la corte ebbe ne’ primi rovesci, le ispirò il consiglio di una leva in massa. Si pubblicò un proclama, col quale s’invitarono i popoli ad armarsi e difendere contro gl’invasori i loro beni, le loro famiglie, la religione de’ padri loro: fu la prima volta che fu udito rammentare ai nostri popoli ch’essi erano sanniti, campani, lucani e greci. Fu commesso ai preti di risvegliare tali sentimenti in nome di Dio. Queste operazioni non mancano mai di produrre grandi effetti. Il fermento maggiore fu in Napoli, dove un popolaccio immenso, senza verun mestiere e verun’educazione, non vive che a spese de’ disordini del governo e de’ pregiudizi della religione. Ma questo istesso fermento, che doveva e che potea conservare il Regno, divenne, per colpa di Acton e per timore della corte, la cagione principale della sua rovina. Il popolo corse in folla al palazzo reale ad offerirsi per la difesa del Regno. Un re, che avesse avuto mente e cuore, non aveva a far altro che montare a cavallo e profittare del momento di entusiasmo: egli sarebbe andato a sicura vittoria. Acton lo ritenne. Il popolo voleva vederlo. Egli non si volle mostrare, ed in sua vece fece uscire il generale Pignatelli ed il conte dell’Acerra. Tra le tante parole che in tale occasione ciascuno può immaginare essersi dette, uno del popolo disse: i mali del Regno esser nati tutti dagli esteri che erano venuti a far da ministri; prima godersi profonda pace e generale abbondanza, da quindeci anni in qua tutto esser cangiato; gli esteri esser tutti traditori: quindi, o per un sentimento di patriottismo, di cui il popolo napolitano non è privo, o per ispirito di adulazione verso due cavalieri popolari, soggiunse: - Perché il re non fa primo ministro il general Pignatelli e ministro di guerra il conte dell’Acerra? - Queste parole, raccolte da’ satelliti di Acton e riferite a lui, mossero il di lui animo sospettoso ad accelerare la partenza. Da che mai dipende la salute di un regno! Fu facile trarre a questo partito la regina. A trarvi anche il re, si fece crescere l’insurrezione del popolo. Gli agenti di Acton lo spinsero la mattina seguente ad arrestare Alessandro Ferreri, corriere di gabinetto, il quale portava un plico a Nelson: moltissimi hanno ragioni di credere che costui fosse una vittima giá da lungo tempo designata, perché conscio del segreto delle lettere di Vienna alterate in occasione della guerra. Io non oso affermar nulla. Sia caso, sia effetto della politica del ministro o della vendetta di qualche suo inimico privato, fu arrestato sul molo nel punto in cui s’imbarcava per passare sul legno di Nelson, fu ucciso, ed il cadavere sanguinoso fu strascinato fin sotto il palazzo reale e mostrato al re in mezzo alle grida di «Morano i traditori!», «Viva la santa fede!», «Viva il re!». Il re era alla finestra; vide l’imponente forza del popolo e, diffidando di poterla reggere, incominciò a temerla. Allora la partenza fu risoluta. Furono imbarcati sui legni inglesi e portoghesi i mobili piú preziosi de’ palazzi di Caserta e di Napoli e le raritá piú pregevoli de’ musei di Portici e Capodimonte, le gioie della corona e venti milioni e forse piú di moneta e metalli preziosi non ancora coniati, spoglio di una nazione che rimaneva nella miseria. La corte di Napoli avea tanti tesori inutili, ed intanto avea ruinata la nazione con un disordine generale nell’amministrazione, con un vuoto nelle finanze e ne’ banchi; avea ruinata la nazione, mentre potea accrescer la sua potenza, rendendola piú felice: la corte di Napoli dunque avea sempre pensato piú a fuggire che a restare! S’imbarcò di notte, come se fuggisse il nemico giá alle porte; e la mattina seguente (21 dicembre) si lesse per Napoli un avviso, col quale si faceva sapere al popolo napolitano che il re andava per poco in Sicilia per ritornare con potentissimi soccorsi, ed intanto lasciava il general Pignatelli suo vicario generale fino al suo ritorno. Il popolo mostrò quella tacita costernazione, la quale vien meno dal timore che dalla sorpresa di un avvenimento non previsto. Ne’ primi giorni che il re per tempo contrario si trattenne in rada, tutti corsero a vederlo ed a pregarlo perché si restasse; ma gl’inglesi, i quali giá lo consideravano come lor prigioniere, allontanavano tutti come vili e traditori. Il re non volle o non gli fu mai permesso di mostrarsi. Questi duri e non meritati disprezzi, la memoria delle cose passate, la perdita di tante ricchezze nazionali, i mali presenti, passati e futuri diedero luogo alla riflessione e scemarono la pietá. Il popolo lo vide partire a’ 23 dicembre senza dispiacere e senza gioia. CAPITOLO XIV
ANARCHIA DI NAPOLI ED ENTRATA DE’ FRANCESI
Nella storia dell’Italia, gli avvenimenti della fine del secolo decimottavo somiglian quelli della fine del secolo decimoquinto. In ambedue le epoche gli stessi avvenimenti furon prodotti dalle stesse cagioni e seguíti dai medesimi effetti. In amendue le epoche il Regno fu perduto per opera di picciolissime forze inimiche: nel decimoquinto secolo, i partiti che dividevano il Regno vi attirarono la guerra; nel decimottavo, la guerra e la disfatta vi suscitarono i partiti: in quello, il re avea tentato tutt’i mezzi per evitar la guerra; in questo, tutti li avea messi in opera per suscitarla: lo scoraggiamento, dopo la disfatta, eguale e nel re aragonese e nel borbonico; ma prima della guerra questi ha dimostrato coraggio maggiore di quello. In ambedue le epoche però il Regno fu perduto quando il fatto posteriore ha dimostrato che era facile il conservarlo, poiché è impossibile credere che non si avesse potuto facilmente conservare quel Regno, che, anche dopo la perdita fattane, si è potuto tanto facilmente ricuperare. In ambedue le epoche ha preceduta la perdita del Regno una vicendevole e funesta diffidenza tra il re ed i popoli, non irragionevole nell’epoca degli Aragonesi, priva però di ogni ragione ne’ tempi nostri. Ferdinando di Aragona avea trattati crudelmente i baroni, i quali avean tramata una congiura e guerreggiata una guerra civile; Vanni avea punita una congiura che ancora non si era tramata ed il pensiero di una ribellione che non si poteva eseguire. In amendue le epoche alla difesa del Regno è mancata l’energia piuttosto ne’ consigli del re che nelle azioni de’ popoli. Finalmente in ambedue le epoche il Regno è stato abbandonato dai vincitori, perché costretti a ritirar le loro forze nell’Italia superiore. Io vorrei che, ogni qual volta succede un simile avvenimento, si rileggesse la seguente, non saprei dir se dottrina o profezia di Macchiavelli: «Credevano - dice egli - i nostri principi italiani, prima che essi assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che ai principi bastasse sapere negli scritti pensare una cauta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, saper tessere una fraude, ornarsi di gemme e di oro, dormire e mangiare con maggior splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi coi sudditi avaramente, superbamente, marcirsi nell’ozio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse dimostrato loro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fossero responsi di oracoli; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad esser preda di qualunque gli assaltava. Di qui nacquero nel 1494 i grandi spaventi, le subite fughe e le miracolose perdite; e cosí tre potentissimi Stati, che erano in Italia, sono stati piú volte saccheggiati e guasti». Non è meraviglia che gli stessi errori abbiano avuti nel 1798 gli stessi effetti e che un potentissimo regno sia rovinato nel tempo stesso, in cui, con ordini piú savi, tale era lo stato politico di Europa, dovea ingrandirsi. «La meraviglia è - continua Macchiavelli - che quelli che restano» anzi quegli stessi che han sofferto il male, «stanno nello stesso errore, e vivono nello stesso disordine». La Cittá[1] avea assunto il governo municipale di Napoli: erasi formata una milizia nazionale per mantenere il buon ordine. Il popolo ne’ primi giorni riconosceva l’autoritá della Cittá; tutto in apparenza era tranquillo: ma il fuoco ardeva sotto le ceneri fallaci. Pignatelli avrebbe dovuto avvedersi che il pericoloso onore, a cui era stato destinato, era forse l’ultimo tratto del suo rivale Acton per perderlo. Egli avrebbe potuto vendicarsi del suo rivale, render al suo re uno di quei servigi segnalati e straordinari, per i quali un uomo acquista quasi il nome ed i diritti di fondator di una dinastia, renderne un altro egualmente grande alla patria; avrebbe potuto o vincere la guerra o finirla, risparmiando l’anarchia e tutti i mali dell’anarchia: le circostanze nelle quali trovavasi erano straordinarie, ma egli non seppe concepire che pensieri ordinari. Si disse che la regina, partendo, gli avesse lasciate istruzioni segrete di sollevare il popolo, di consegnargli le armi, di produrre l’anarchia, di far incendiare Napoli, di non farvi rimanere anima vivente «da notaro in sopra»... Sia che queste voci fossero vere, sia che fossero state immaginate, quasi inevitabili conseguenze dell’insurrezione che la regina, partendo, organizzava, è certo però che queste voci furono da tutti ripetute, da tutti credute; e, nell’osservare le vicende di una rivoluzione, meritano eguale attenzione le voci vere e le false, perché, essendo, a differenza de’ tempi tranquilli, l’opinione del popolo grandissima cagione di tutti gli avvenimenti, diviene egualmente importante e ciò che è vero e ciò che si crede tale. Pochi giorni dopo si videro i primi funesti effetti degli ordini della regina nell’incendio de’ vascelli e delle barche cannoniere, che non eransi potute, per la troppo precipitevole fuga, trasportare in Sicilia. Poche ore bastarono a consumare ciò che tanti anni e tanti tesori costavano alla nostra nazione. Il conte Thurn da un legno portoghese dirigea e mirava tranquillamente l’incendio; ed allo splendore ferale di quelle fiamme parve che il popolo napolitano vedesse al tempo stesso e tutti gli errori del governo e tutte le miserie del suo destino. Il popolo non amava piú il re, non volea neanche udirlo nominare; ma, ripiena la mente delle impressioni di tanti anni, amava ancora la sua religione, amava la patria e odiava i francesi. Da queste sue disposizioni si avrebbe potuto trarre un utile partito. Insursero delle gare tra la Cittá ed il vicario generale. Questi volea usurparsi dritti che non avea, quasi che allora non fosse stato piú utile ed anche piú glorioso cedere tutti quelli che avea: quella si ricordava che tra’ suoi privilegi eravi anche quello di non dover mai esser governata dai viceré. La Cittá allora spiegò molta energia. Perché dunque allora non surse la repubblica? Il popolo avrebbe senza dubbio seguíto il partito della Cittá. Ma, tra coloro che la reggevano, alcuni pendevano per una oligarchia, la quale non avrebbe potuto sostenersi a fronte delle province, dove l’odio contro i baroni era la caratteristica comune di tutte le popolazioni; e, nello stato in cui trovavansi gli animi e le cose, volendo stabilirsi un’oligarchia, sarebbe stato necessario rinunciare alla feudalitá. Altri non osavano; e vi fu anche chi propose di doversi offrire il Regno ad un figlio di Spagna, quasi che questo progetto fosse allora, non dico lodevole, ma eseguibile. Ne’ momenti di grandissima trepidazione, quando discordi sono le idee e molti i partiti, difficile è sempre ritrovar la via di mezzo e, piú che altrove, era difficilissimo in Napoli, dove il maggior numero credeva i francesi indispensabili a fondare repubbliche. Intanto Capua si difendeva ed il popolo applaudiva alla sua difesa. Si era anche lusingato di maggiori vantaggi, poiché facile è sempre il popolo a sperare e non mai manca chi fomenti le sue speranze. Ai 12 però di gennaio lesse affisso per Napoli l’armistizio conchiuso tra il generale francese ed il vicario Pignatelli, per lo quale i francesi venivano ad acquistare tutto quel tratto del Regno che giace a settentrione di una linea tirata da Gaeta per Capua fino all’imboccatura dell’Ofanto; ed inoltre, per ottener due mesi di armistizio, il vicario si obbligava pagar tra pochi giorni la somma di due milioni e mezzo di franchi. Non mai vicario alcuno di un re conchiuse un simile armistizio. La gloria gli consigliava a contrastare sulle mura di Capua il passo ai francesi ed a morirvi; la prudenza gli consigliava a cedere tutto e salvar la sua patria da nuove inutili sciagure. Che poteva sperarsi da un breve armistizio di due mesi? Non vi era neanche ragione di poter sperare un trattato. Il funesto consiglio per cui il re erasi messo in mano degl’inglesi, lo metteva nella dura necessitá di perdere o il Regno di Napoli o quello di Sicilia. Avea il re commesso lo stesso errore pel quale erasi perduto l’ultimo dei re della dinastia aragonese, quello cioè di mettersi in braccio di uno de’ due che si disputavano il di lui Regno; quell’errore dal quale il savio Guicciardini ripete l’ultima rovina di quella famiglia, poiché per esso le fu impedito di profittar delle occasioni che ne’ tempi posteriori la fortuna le offrí a ricuperare il trono. Perché dunque il vicario volle frappor del tempo tra la cessione ed il possesso, e lasciar libero lo sfogo all’odio che il popolaccio avea contro i francesi, quando questi erano abbastanza vicini per destarlo e non ancora tanto da poterlo frenare? Volea la guerra civile, l’anarchia? Tali erano gli ordini della regina? Il popolo si credette tradito dal vicario, dalla Cittá, dai generali, dai soldati, da tutti. La venuta de’ commissari francesi, spediti ad esigere le somme promesse, accrebbe i suoi sospetti ed il suo furore. Il giorno seguente, corse ai castelli a prender le armi; i castelli furono aperti, la truppa non si oppose, perché non avea ordine di opporsi. Il vicario fuggí come era fuggito il re; il popolaccio corse a Caivano[2] per deporre Mack, il quale, sebbene alla testa delle truppe, non seppe far altro che fuggire[3]. Ogni vincolo sociale fu rotto. Orde forsennate di popolaccio armato scorrevano minaccianti tutte le strade della cittá, gridando «Viva la santa fede!», «Viva il popolo napolitano!». Si scelsero per loro capi Moliterni e Roccaromana, giovani cavalieri che allora erano gl’idoli del popolo, perché avean mostrato del valore a Capua ed a Caiazzo contro i francesi. Riuscirono costoro a frenar per poco i trascorsi popolari, ma la calma non durò che due giorni. I francesi erano giá quasi alle porte di Napoli. S’inviò al loro quartier generale una deputazione composta da’ principali demagoghi, perché rinunciassero al pensiero di entrare in Napoli, offerendo loro e quello che era stato promesso coi patti dell’armistizio e qualche somma di piú. La risposta de’ francesi fu negativa, qual si dovea prevedere, ma non qual dovea essere: qualche nostro emigrato, mentre moltissimi convenivano della ragionevolezza della dimanda, aggiunse alla negativa le minacce e l’insulto; e ciò finí d’inferocire il popolo. Non mancavano agenti della corte che lo spingevano a nuovi furori, non mancava quello spirito di rapina che caratterizza tutt’i popoli della terra, non mancavano preti e monaci fanatici, i quali, benedicendo le armi di un popolo superstizioso in nome del Dio degli eserciti, accrescevano colla speranza l’audacia e coll’audacia il furore. La Cittá, che sino a quel giorno avea tenute delle sessioni, piú non ne tenne. Il popolo si credette abbandonato da tutti, e fece tutto da sé. La cittá intera non offrí che un vasto spettacolo di saccheggi, d’incendi, di lutto, di orrori e di replicate immagini di morte. Tra le vittime del furore popolare meritano di non essere obbliati il duca della Torre e Clemente Filomarino, suo fratello, rispettabili per i loro talenti e le loro virtú e vittime miserabili della perfidia di un domestico scellerato. Alcuni repubblicani, ed allora erano repubblicani in Napoli tutti coloro che avevan beni e costume, impedirono mali maggiori, rimescolandosi col popolo e fingendo gli stessi sentimenti per dirigerlo. Altri, colla cooperazione di Moliterni e di Roccaromana, s’introdussero nel forte Sant’Elmo, sotto vari pretesti e finti nomi, e riuscirono a discacciarne i lazzaroni che ne erano i padroni. Championnet avea desiderato che, prima ch’ei si movesse verso Napoli, fosse stato sicuro di questo castello, che domina tutta la cittá. Molti altri corsero ad unirsi coi francesi e ritornarono combattendo colle loro colonne. Tutt’i buoni desideravano l’arrivo de’ francesi. Essi erano giá alle porte. Ma il popolo, ostinato a difendersi, sebbene male armato e senza capo alcuno, mostrò tanto coraggio, che si fece conoscer degno di una causa migliore. In una cittá aperta trattenne per due giorni l’entrata del nemico vincitore, ne contrastò a palmo a palmo il terreno: quando poi si accorse che Sant’Elmo non era piú suo, quando si avvide che da tutt’i punti di Napoli i repubblicani facevan fuoco alle sue spalle, vinto anziché scoraggito, si ritirò, meno avvilito dai vincitori che indispettito contro coloro ch’esso credeva traditori.
Note
CAPITOLO XV
PERCHÉ NAPOLI DOPO LA FUGA DEL RE NON SI ORGANIZZÒ A REPUBBLICA?
Il re era partito, il popolo non lo desiderava piú. Egli avea spinto fino al furore l’amor d’indipendenza nazionale, che altri credeva attaccamento all’antica schiavitú. Quando il popolo napolitano spedí la deputazione a Championnet, non volle dir altro che questo: - La repubblica francese avea guerra col re di Napoli, ed ecco che il re è partito; la nazione francese non avea guerra colla nazione napolitana, ed intanto perché mai i soldati francesi voglion vincere coloro che offrono volontari la loro amicizia? - Questo linguaggio era saggio, ed i napolitani, senza saperne il nome, erano meno di quel che si crede lontani dalla repubblica. Ma, siccome in ogni operazione umana vi si richiede la forza e l’idea, cosí per produrre una rivoluzione è necessario il numero e sono necessari i conduttori, i quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da se stesso formarsi. Piú facili sono le rivoluzioni in un popolo che da poco abbia perduta una forma di governo, perché allora le idee del popolo son tratte facilmente dall’abolito governo, di cui tuttavia fresca conserva la memoria. Perciò «ogni rivoluzione - al dir di Macchiavelli - lascia l’addentellato per un’altra». Quanto piú lunga è stata l’oppressione da cui si risorge, quanto maggiore è la diversitá tra la forma del governo distrutto e quella che si vuole stabilire, tanto piú incerte, piú instabili sono le idee del popolo, e tanto piú difficile è ridurlo all’uniformitá, onde avere e concerto ed effetto nelle sue operazioni. Questa è la ragione per cui e piú sollecito e piú felice fine hanno avuto le rivoluzioni di quei popoli, ne’ quali o vi era ancor fresca memoria di governo migliore, o i rivoluzionari attaccati si sono ad alcuni dritti (come la Gran carta, che è stata la bussola di tutte le rivoluzioni inglesi) o a talune magistrature e taluni usi (come fecero gli olandesi), che essi aveano conservati quasi a fronte del dispotismo usurpatore. Le idee della rivoluzione di Napoli avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una costituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanissime da’ sensi, e, quel ch’è piú, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt’i capricci e talora tutt’i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da’ nostri capricci, dagli usi nostri. Le contrarietá ed i dispareri si moltiplicavano in ragione del numero delle cose superflue, che non doveano entrar nel piano dell’operazione, e che intanto vi entrarono. Quanto maggiore è questa varietá, tanto maggiore è la difficoltá di riunire il popolo e tanto maggior forza ci vuole per vincerla. Se le idee fossero uniformi, potrebbero tutti agire senza concerto, perché tutti agirebbero concordemente alle loro idee; ma, quando sono difformi, è necessario che agisca uno solo. Di rado avviene che una rivoluzione si possa condurre a fine se non da una persona sola: la stessa libertá non si può fondare che per mezzo del dispotismo. Il popolo ondeggia lungo tempo in partiti: diresti quasi che la nazione vada a distruggersi, ne vedi giá scorrere il sangue; finché una persona si eleva, acquista dell’ascendente sul popolo, fissa le idee, ne riunisce le forze: col tempo, o costui forma la felicitá della patria o, se vuole opprimerla, talora ne rimane oppresso. Ma egli ha giá indicata la strada, ed allora il popolo può agire da sé. Quest’uomo non si trova se non dopo replicati infelici esperimenti, dopo lungo ondeggiar di vicende, quando i suoi fatti medesimi lo abbiano svelato: le guerre civili mettono ciascuno nel posto che gli conviene. Se taluno si voglia far conoscere e seguire dal popolo ne’ primi moti di una rivoluzione, a meno che la rivoluzione sia religiosa, non basta che abbia egli gran mente e gran cuore: convien che abbia gran nome; e questo nome ben spesso si ha per tutt’altro che pel merito. Il modo piú certo e piú efficace per guadagnar la pubblica opinione è una regolaritá di giurisdizione, che taluno ancora conservi nel passar dagli ordini antichi ai nuovi. La Cittá era nelle circostanze di poter farsi seguire da tutto il popolo; dopo la Cittá, poteva Moliterni: ma né Moliterni ebbe idea di far nulla, né la Cittá, ondeggiando tra tante idee, quasi tutte chimeriche, seppe determinarsi a quelle che il tempo richiedeva. Parve che in Napoli niuno si fosse preparato a questo avvenimento; e, quando si videro in mezzo al vortice, tutti si abbandonarono in balía delle onde. Non è molto onorevole a dirsi per lo genere umano, ma pure è vero: quasi tutte le nazioni, nelle loro crisi politiche, allora sono giunte piú facilmente al loro termine quando si è trovato tra loro un uomo profondamente ambizioso, il quale, prevedendo da lontano gli avvenimenti, vi si sia preparato e, riunendo tutte le forze a proprio vantaggio, abbia prodotto poi il vantaggio della nazione: poiché, o è stato saggio e virtuoso, ed ha fondata la sua grandezza sulla felicitá della patria; o è stato uno stolto, uno scellerato, ed è caduto vittima de’ suoi progetti. Ma allora, lo ripeto, egli avea giá insegnata la strada. In Napoli Pignatelli, viceré, non ebbe neanche il pensiero di far nulla; la Cittá non seppe risolversi; Moliterni non ardí; niun altro si mostrò; tra’ repubblicani molti, che menavan piú rumore, erano piú francesi[1] che repubblicani, ed ai veri repubblicani allora una folla infinita si era rimescolata di mercatanti di rivoluzione, che desideravano per calcolo un cangiamento. Era giá passato il primo momento: troppo innanzi era trascorso il popolo; gli stessi saggi disperavano di poterlo piú frenare, gli stessi buoni desideravano una forza esterna che lo contenesse. Forse i francesi istessi eran giá troppo vicini. Quell’operazione che avrebbe potuto riuscire a’ 25 di dicembre, allorché la Cittá la fece da re, facendo aprir di suo ordine le cacce del sovrano giá partito, difficilmente potea eseguirsi allorché i francesi erano a Capua. Per quanto disinteressata fosse stata la Cittá nelle sue operazioni e lontana dalle sue idee di oligarchia, volendo però formar la felicitá della nazione, non potea né dovea allontanarsi dalle idee nazionali; e troppo queste idee sarebbero state lontane dall’idee di molti altri. Ora i piú leggeri dispareri si conciliano con difficoltá, quando vi sia una forza esterna pronta a sostenere un partito. I partiti non cedono se non per diseguaglianza di forza o per vicendevole stanchezza di combattere: molte offese si tollerano e, tollerando, molti mali si evitano, sol perché non possiamo sul momento farne vendetta; e la concordia tra gli uomini è meno effetto di saviezza che di necessitá. Le potenze estere, pronte in tutt’i tempi a prender parte, prima nelle gare tra fazione e fazione di una medesima cittá, indi nelle dispute tra uno Stato e l’altro, hanno distrutta prima la libertá e poscia l’indipendenza dell’Italia. Niuna nazione piú della napolitana ne ha provati gl’infelici effetti. Tra le tante potenze estere che vantavano un titolo su quel regno, ogni gara che sorgeva tra’ cittadini, vi era un estero che vi prendeva parte: talora gli esteri stessi fomentavano le gare; i cittadini, per essere piú forti, univano i loro disegni a quelli dell’estero, simili al cavallo che, per vendicarsi del cervo, si donò ad un padrone; e cosí quel regno è stato per cinque secoli (quanti se ne contano dall’estinzione della dinastia de’ Normanni fino allo stabilimento di quella dei Borboni) l’infelice teatro d’infinite guerre civili, senza che una di esse abbia potuto giammai produrre un bene alla patria. Io forse non faccio che pascermi di dolci illusioni. Ma, se mai la repubblica si fosse fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un’autoritá, che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de’ beni reali e liberato lo avesse da que’ mali che soffriva; forse allora il popolo, non allarmato all’aspetto di novitá contro delle quali avea inteso dir tanto male, vedendo difese le sue idee ed i suoi costumi, senza soffrire il disagio della guerra e delle dilapidazioni che seco porta la guerra; forse... chi sa?... noi non piangeremmo ora sui miseri avanzi di una patria desolata degna di una sorte migliore.
Note
CAPITOLO XVI
STATO DELLA NAZIONE NAPOLITANA
I sei comitati erano: 1° centrale, 2° dell’interno, 3° di guerra, 4° di finanza, 5° di giustizia e di polizia, 6° di legislazione. Le persone elette al governo furono: Abamonti, Albanese, Baffi, Bassal francese, Bisceglia, Bruno, Cestari, Ciaia, De Gennaro, De Filippis, De Rensis, Doria, Falcigni, Fasulo, Forges, Laubert, Logoteta, Manthoné, Pagano, Paribelli, Pignatelli-Vaglio, Porta, Riari, Rotondo. Ma l’immaginare un progetto di costituzione repubblicana non è lo stesso che fondare una repubblica. In un governo in cui la volontá pubblica, o sia la legge, non ha e non dee avere altro sostegno, altro garante, altro esecutore che la volontá privata, non si stabilisce la libertá se non formando uomini liberi. Prima d’innalzare sul territorio napolitano l’edificio della libertá, vi erano, nelle antiche costituzioni, negl’invecchiati costumi e pregiudizi, negl’interessi attuali degli abitanti, mille ostacoli, che conveniva conoscere, che era necessario rimuovere. Ferdinando guardava bieco la nostra nascente libertá e da Palermo moveva tutte le macchine per riacquistare il regno perduto. Egli avea de’ potenti alleati, i quali erano per noi nemici terribili, specialmente gl’inglesi, padroni del mare ed, in conseguenza, del commercio di Sicilia e di Puglia, senza di cui una capitale immensa, qual è Napoli, non potea che difficilmente sussistere. Dall’epoca de’ romani in qua, la sorte dell’Italia meridionale dipende in gran parte da quella della Sicilia. I romani ridussero l’Italia a giardino, il quale ben presto si cangiò in deserto. Dopo le grandi conquiste de’ romani, s’incominciò ad udire per la prima volta che la Sicilia era il granaio dell’Italia; detto quanto glorioso per la prima tanto ingiurioso per la seconda. Non si sarebbe ciò detto prima del quinto secolo di Roma, quando l’Italia bastava sola ad alimentare trenta milioni di uomini industriosi e guerrieri, di costumi semplici e magnanimi. Ne’ secoli di mezzo, chiunque fu padrone della Sicilia turbò a suo talento l’Italia. Dalla Sicilia Belisario distrusse il regno de’ goti; dalla Sicilia i saraceni la infestarono per tre secoli, finché i normanni la riunirono di nuovo al regno di Napoli, al quale rimase unita fino all’epoca di Carlo primo d’Angiò. E chi potrebbe negare che quella separazione non abbia influito a ritardare nel regno di Napoli il progresso di quella civiltá, la quale, prima che in ogni regione d’Italia, vi avevan destata il gran Federico di Svevia e la sventurata sua progenie? I due regni furon riuniti sotto la lunga dominazione della casa Austriaca di Spagna. In que’ tempi appunto Napoli incominciò ad ingrandirsi, ed è divenuta una capitale immensa, la quale per sussistere ha bisogno del formento e piú dell’olio delle province lontane che bagna l’Adriatico, ed il commercio delle quali non si può comodamente esercitare, né la capitale potrebbe comodamente sussistere, senza il libero passaggio per lo stretto di Messina. E si aggiunga che di quello stretto il vero padrone è colui che possiede la Sicilia, poiché egli vi tiene in Messina ampio e comodo porto, mentre dalla parte delle Calabrie non vi sono che picciole e mal sicure rade. Avea il re nel Regno stesso non pochi partigiani, i quali amavano l’antico governo in preferenza del nuovo; ed in qual rivoluzione non si trovano tali uomini? Vi erano molte popolazioni in aperta controrivoluzione, perché non ancora avean deposte quelle armi che avean prese, invitate e spinte da’ proclami del re; altre pronte a prendere, tostoché, rinvenute una volta dallo stupore che loro ispirava una conquista sí rapida ed accorte della debolezza della forza francese, avessero ritrovato un intrigante per capo ed un’ingiustizia, anche apparente, del nuovo governo per pretesto di una sollevazione. Il numero di coloro che eran decisi per la rivoluzione, a fronte della massa intera della popolazione, era molto scarso; e, tosto che l’affare si fosse commesso alla decisione delle armi, era per essi inevitabile soccombere. Eccone un esempio nella provincia di Lecce, dove la sollevazione fu prodotta da un accidente che, per la sua singolaritá, merita d’esser ricordato. Trovavansi in Taranto sette emigrati còrsi, che si erano colá portati a causa di procurarsi un imbarco per la Sicilia. I continui venti di scirocco, che impediscono colá l’uscita dal porto, impedirono la partenza de’ còrsi, i quali loro malgrado furono presenti allorché fu in Taranto proclamata la repubblica. E, dubitando di poter essere arrestati e cader nelle mani dei francesi, sen partirono la notte degli 8 febbraio 1799 e si diressero per Brindisi, sperando di trovar un imbarco per Corfú o per Trieste. Dopo varie miglia di viaggio a piedi, si fermarono ad un villaggio chiamato Monteasi: qui furono alloggiati da una vecchia donna, alla quale, per esser ben serviti, dissero che vi era tra essi loro il principe ereditario. Ciò bastò perché la donna uscisse e corresse da un suo parente chiamato Bonafede Girunda, capo contadino del villaggio. Costui si recò immediatamente dai còrsi, si inginocchiò al piú giovane e gli protestò tutti gli atti di riverenza e di vassallaggio. I còrsi rimasero sorpresi, e, dubitando di maggiori guai, appena partito il Girunda, senz’aspettare il giorno, se ne scapparono immediatamente. Avvertito il Girunda dalla vecchia istessa della partenza del supposto principe ereditario, montò tosto a cavallo per raggiungerlo; ma tenne una strada diversa. E, non avendolo incontrato, domandando a tutti se visto avessero il principe ereditario col suo séguito, sparse una voce, che tosto si diffuse, e bastò per far mettere in armi tutti i paesi per dove passò e per far correre le popolazioni ad incontrarlo. Il supposto principe fu raggiunto a Mesagne e fu obbligato dalle circostanze del momento a sostener la parte comica incominciata; ma, non credendosi sicuro in Mesagne, si ritirò sollecitamente in Brindisi. Qui, rinchiusosi nel forte, cominciò a spedire degli ordini. Uno dei dispacci conteneva che, dovendo egli partire per la Sicilia a raggiungere il suo augusto genitore, lasciava suoi vicari nel Regno due suoi generali in capo, che il popolo dipoi credé due altri principi del sangue. Questi due impostori, uno cognominato Boccheciampe e l’altro De Cesare, si misero tosto alla testa degl’insurretti. Il primo restò nella provincia di Lecce ed il secondo si diresse per quella di Bari, conducendo seco il Girunda, che dichiarò generale di divisione. Con questa truppa, che fu fatta composta di birri, degli uomini d’armi dei baroni, dei galeotti e carcerati fuggiti dalle case di forza e dai tribunali, e di tutti i facinorosi delle due province, riuscí loro facile l’impadronirsi di tutti i paesi che proclamata avevano la repubblica e di sottomettere con un assedio Martina ed Acquaviva, le quali cittá giurato avevano piuttosto morire che riconoscer gl’impostori. Audaci per i buoni successi avuti, tentarono di provarsi coi francesi, i quali erano giá padroni di una buona porzione della provincia di Bari; ma, incontratisi con un piccolo distaccamento francese nel bosco di Casamassima, furono essi intieramente disfatti e sen fuggirono, il Boccheciampe in Brindisi ed il De Cesare in Francavilla. Il primo però cadde nelle mani dei francesi; ma il secondo, piú astuto, se ne scappò, dopo la nuova della prigionia del suo compagno, in Torre di mare, l’antico Metaponto, e andiede ad unirsi al cardinal Ruffo nelle vicinanze di Matera. La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti[1] e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse. Quella stessa ammirazione per gli stranieri, che avea ritardata la nostra coltura ne’ tempi del re, quell’istessa formò, nel principio della nostra repubblica, il piú grande ostacolo allo stabilimento della libertá. La nazione napolitana si potea considerare come divisa in due popoli, diversi per due secoli di tempo e per due gradi di clima. Siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, cosí la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltá. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti. Cosí la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile e che non intendeva[2]. Le disgrazie de’ popoli sono spesso le piú evidenti dimostrazioni delle piú utili veritá. Non si può mai giovare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte che per la superioritá della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autoritá sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metá della sua indipendenza. Il maggior numero rimane senza massime da seguire, gli ambiziosi ne profittano, la rivoluzione degenera in guerra civile, ed allora tanto gli ambiziosi che cedono sempre con guadagno, quanto i savi che scelgono sempre i minori tra’ mali, e gl’indifferenti i quali non calcolano che sul bisogno del momento, si riuniscono a ricever la legge da una potenza esterna, la quale non manca mai di profittare di simili torbidi o per se stessa o per ristabilire il re discacciato. Quell’amore di patria, che nasce dalla pubblica educazione e che genera l’orgoglio nazionale è quello che solo ha fatto reggere la Francia, ad onta di tutt’i mali che per la sua rivoluzione ha sofferti, ad onta di tutta l’Europa collegata contro di lei: mille francesi si avrebbero di nuovo eletto un re, ma non vi è nessuno che lo abbia voluto ricevere dalla mano de’ tedeschi o degl’inglesi. Niuno piú di Pitt dagli esempi domestici ne avrebbe dovuto esser convinto, se mai la vendetta dei diritti borbonici fosse stata la cagione e non giá il pretesto della lega, che una tal guerra, col pretesto di rimettere un re, era inutile. La nazione napolitana, lungi dall’avere questa unitá nazionale, si potea considerar come divisa in tante diverse nazioni. La natura pare che abbia voluto riunire in una picciola estensione di terreno tutte le varietá: diverso è in ogni provincia il cielo, diverso è il suolo; le avanie del fisco, che ha sempre seguite tali varietá per ritrovar ragioni di nuove imposizioni ovunque ritrovasse nuovi benefíci della natura, ed il sistema feudale, che ne’ secoli scorsi, tra l’anarchia e la barbarie, era sempre diverso secondo i diversi luoghi e le diverse circostanze, rendevano da per tutto diverse le proprietá ed, in conseguenza, diversi i costumi degli uomini, che seguon sempre la proprietá ed i mezzi di sussistenza. Conveniva, tra tante contrarietá, ritrovare un interesse comune, che chiamare e riunir potesse tutti gli uomini alla rivoluzione. Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi. Se lo stato della nostra nazione presentava grandi ostacoli, offriva, dall’altra parte, grandi risorse per menare avanti la nostra rivoluzone. Si avea una popolazione, la quale, sebbene non avrebbe mai fatta la rivoluzione da sé, era però docile a riceverla da un’altra mano. I partiti decisi erano ambedue scarsi: la massima parte della nazione era indifferente. Che altro vuol dir questo se non che essa non era mossa da verun partito, non era animata da veruna passione? Giudice imparziale e perciò giusto de’ due pretendenti, avrebbe seguíto quello che maggiori vantaggi le avesse offerto. Un tal popolo s’illude difficilmente, ma facilmente si governa. Esso non ancora comprendeva i suoi diritti, ma sentiva però il suo bene. Credeva un sacrilegio attentare al suo sovrano, ma credeva che un altro sovrano potesse farlo, usando di quello stesso diritto pel quale agli Austriaci eran succeduti i Borboni; e, quando questo nuovo sovrano gli avesse restituiti i suoi diritti, esso ne avrebbe ben accettato il dono. Le insorgenze ardevano solamente in pochi luoghi, i quali, perché erano stati il teatro della guerra, erano ancora animati dai proclami del re, dalla guerra istessa, che, a forza di farci finger odio, ci porta finalmente alla necessitá di odiare da vero, e dalla condotta di taluni officiali francesi, i quali, armati e vincitori, non sempre si ricordavano del giusto. La gran massa della nazione intese tranquillamente la rivoluzione e stette al suo luogo: le insorgenze non iscoppiarono che molto tempo dopo. Vi furono anche molte popolazioni, le quali spinsero tanto avanti l’entusiasmo della libertá, che prevennero l’arrivo de’ francesi nella capitale e si sostennero colle sole loro forze contro tutte le armi mosse dal re, anche dopo che la capitale si era resa. Tutte queste forze riunite insieme avrebbero potuto formare una forza imponente, se si avesse saputo trarne profitto. La popolazione immensa della capitale era piú istupidita che attiva. Essa guardava ancora con ammirazione un cangiamento, che quasi avea creduto impossibile. In generale, dir si poteva che il popolo della capitale era piú lontano dalla rivoluzione di quello delle province, perché meno oppresso da’ tributi e piú vezzeggiato da una corte che lo temeva. Il dispotismo si fonda per lo piú sulla feccia del popolo, che, senza cura veruna né di bene né di male, si vende a colui che meglio soddisfa il suo ventre. Rare volte un governo cade che non sia pianto dai pessimi; ma deve esser cura del nuovo di far sí che non sia desiderato anche dai buoni. Ma forse il soverchio timore, che si concepí di quella popolazione, fece sí che si prendesse troppo cura di lei e si trascurassero le province, dalle quali solamente si doveva temere, e dalle quali si ebbe infatti la controrivoluzione.
Note
CAPITOLO XVII
IDEE DE’ PATRIOTI
Il primo passo era quello di far sí che tutti i patrioti fossero convenuti nelle loro idee, o almeno che per essi vi fosse convenuto il governo. Tra i nostri patrioti (ci si permetta un’espressione che conviene a tutte le rivoluzioni e che non offende i buoni) moltissimi aveano la repubblica sulle labbra, moltissimi l’aveano nella testa, pochissimi nel cuore. Per molti la rivoluzione era un affare di moda, ed erano repubblicani sol perché lo erano i francesi; alcuni lo erano per vaghezza di spirito; altri per irreligione, quasi che per esentarsi dalla superstizione vi bisognasse un brevetto di governo; taluno confondeva la libertá colla licenza, e credeva acquistar colla rivoluzione il diritto d’insultare impunemente i pubblici costumi; per molti finalmente la rivoluzione era un affare di calcolo. Ciascuno era mosso da quel disordine che piú lo aveva colpito nell’antico governo. Non intendo con ciò offendere la mia nazione: questo è un carattere di tutte le rivoluzioni; ma, al contrario, qual altra può, al pari della nostra, presentare un numero maggiore o anche eguale di persone che solo amavano l’ordine e la patria? Si prendeva però, come suol avvenire, per oggetto principale della riforma ciò che non era che un accessorio, ed all’accessorio si sagrificava il principale. Seguendo le idee de’ patrioti, non si sapeva né donde incominciare né dove arrestarsi. Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi delle altre. Se a costoro si presenta un capo che li voglia riunire, la riunione non seguirá giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirá la rivoluzione ed andrá avanti solo per quell’oggetto che è comune a tutti. Gli altri oggetti rimarranno forse trascurati? No; ma ciascuno adatterá il suo interesse privato al pubblico, la volontá particolare seguirá la generale, le riforme degli accessorii si faranno insensibilmente dal tempo, e tutto camminerá in ordine. Non vi è governo il quale non abbia un disordine che produce moltissimi malcontenti; ma non vi è governo il quale non offra a molti molti beni e non abbia molti partigiani. Quando colui che dirige una rivoluzione vuol tutto riformare, cioè vuol tutto distruggere, allora ne avviene che quelli istessi, i quali braman la rivoluzione per una ragione, l’aborrono per un’altra: passato il primo momento dell’entusiasmo ed ottenuto l’oggetto principale, il quale, perché comune a tutti, è sempre per necessitá con piú veemenza desiderato e prima degli altri conseguito, incomincia a sentirsi il dolore di tutti gli altri sacrifici che la rivoluzione esige. Ciascuno dice prima a se stesso e poi anche agli altri: - Ma per ora potrebbe bastare... Il di piú, che si vuol fare, è inutile..., è dannoso. - Comincia ad ascoltarsi l’interesse privato; ciascuno vorrebbe ottener ciò che desidera al minor prezzo che sia possibile; e, siccome le sensazioni del dolore sono in noi piú forti di quelle del piacere, ciascuno valuta piú quello che ha perduto che quello che ha guadagnato. Le volontá individuali si cangiano, incominciano a discordar tra loro; in un governo, in cui la volontá generale non deve o non può avere altro garante ed altro esecutore che la volontá individuale, le leggi rimangono senza forza, in contraddizione coi pubblici costumi, i poteri caderanno nel languore; il languore o menerá all’anarchia, o, per evitar l’anarchia, sará necessitá affidare l’esecuzione delle leggi ad una forza estranea, che non è piú quella del popolo libero; e voi non avrete piú repubblica. Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirá: distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arrestarvi tosto che il popolo piú non vuole; egli allora vi abbandonerebbe. Bruto, allorché discacciò i Tarquini da Roma, pensò a provvedere il popolo di un re sagrificatore: conobbe che i romani, stanchi di avere un re sul trono, lo credevano però ancor necessario nell’altare. La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perché non attacca la volontá generale, ma la volontá individuale. Sapete allora perché si segue un usurpatore? Perché rallenta il rigore delle leggi; perché non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontá sua, la quale prende il luogo ed il nome di «volontá generale», e lascia tutti gli altri alla volontá individuale del popolo. «Idque apud imperitos ’humanitas’ vocabatur, cum pars servitutis esset». Strano carattere di tutti i popoli della terra! Il desiderio di dar loro soverchia libertá risveglia in essi l’amore della libertá contro gli stessi loro liberatori.
CAPITOLO XVIII
RIVOLUZIONE FRANCESE
Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt’i popoli della terra, e specialmente della rivoluzione francese. Le false idee che i nostri aveano concepite di questa non han poco contribuito ai nostri mali. Hanno voluto imitare tutto ciò che vi era in essa: vi era molto di bene e molto di male, di cui i francesi stessi si sarebbero un giorno avveduti; ma non hanno i nostri voluto aspettare i giudizi del tempo, né han saputo indovinarli. Si è creduto che la rivoluzione francese fosse l’opera della filosofia, mentre la filosofia aveva fatto poco men che guastarla. Ne giudicavano sullo stato attuale, senza ricordarsi qual era stata e senza preveder quale sarebbe un giorno divenuta. La rivoluzione francese aveva un’origine quasi legale, che mancava alla nostra. Il suo primo scopo fu quello di rimediare ai mali della nazione, sui quali eran concordi egualmente il popolo ed il re; ed il popolo riconobbe la legittima autoritá degli Stati generali e poscia delle assemblee, non altrimenti che venerava quella del re, per di cui comando, o almeno col di cui consentimento, tanto gli Stati generali quanto le assemblee erano state convocate. Quello stesso stato politico della Francia, che faceva preveder ai saggi da tanto tempo inevitabile una rivoluzione, produsse la disunione degli Stati generali; si formò l’Assemblea nazionale, ed il re fu dalla parte dell’Assemblea. Che vi sia stato solo in apparenza e costretto dal timore, ciò importa poco: fin qui non vi è ancora rivoluzione. Essa incominciò allorché il re si separò dall’Assemblea: allora incominciò la guerra civile, ed il partito dell’Assemblea seppe guadagnare il popolo coll’idea della giustizia. E fin qui il popolo francese fece sempre operazioni al livello, diciamo cosí, delle sue idee. I Stati generali gli sembravano giusti, tra perché la Francia conservava ancor fresca la memoria di altri Stati generali, tra perché erano convocati dall’autoritá del re, che egli credeva legittima. Il re stesso autorizzò l’Assemblea nazionale; il re contrattò con la medesima, allorché divenne re costituzionale; quando fu condannato, lo fu pel pretesto di aver mancato al proprio patto, a cui il popolo intero era stato spettatore. E quale era questo patto? Quello con cui avea egli stesso riconosciuta la sovranitá della nazione ed aveva giurata la sua felicitá. Il popolo, seguendo il partito dell’Assemblea, credette seguire il partito della giustizia e del suo interesse. Quando io paragono la rivoluzione inglese del 1649 alla francese del 1789, le trovo piú simili che non si pensa: s’incomincia la riforma in nome del re; il re è arrestato, è giudicato, è condannato quasi dal re istesso; il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche. Le operazioni de’ popoli van soggette ad un metodo, non altrimenti che le idee degli uomini. Se invertite, se turbate l’ordine e la serie delle medesime, se volete esporre nell’Ottantanove le idee del Novantadue, il popolo non le comprenderá; ed invece di veder rovesciato un trono, vedrete esiliato un mezzo sapiente o venale declamatore. Al pari che l’uomo lo è nelle idee, un popolo è nelle sue operazioni servo delle forme esterne onde son rivestite; l’esattezza esterna di un sillogismo ne fa bever, senza avvedersene, un errore; l’esterna solennitá delle formole sostiene un’operazione manifestamente ingiusta. Incominciate per inavvertenza o per malizia da un leggerissimo errore: quanto piú vi inoltrerete, tanto piú vi discosterete da quella retta nella quale sta il vero; e vi inoltrerete tanto, che talora conoscerete l’errore, ma ignorerete la strada di ritornare indietro. Allora pochi ambiziosi dichiareranno giustizia e pubblica necessitá quello che non è se non capriccio ed ambizione loro; ed il delitto si consumerá non perché il popolo lo approvi, ma perché ignora le vie di poterlo legittimamente impedire. Quando l’errore vien da un metodo fallace, il ricredersene è piú difficile, perché è necessitá ritornar indietro fino al punto, spesso lontano, in cui la linea delle fallacie si separa da quella della veritá; ma, ricreduti una volta gli animi, per cagion di un solo errore distruggeranno tutto il sistema. La Convenzione nazionale condannò Luigi decimosesto contro tutte quelle leggi che essa istessa avea proclamate. I faziosi ragionarono allora come avea ragionato Virginio quando Appio appellava al popolo; ed è cosa «di cattivissimo esempio in una repubblica - dice Macchiavelli - fare una legge e non la osservare, e tanto piú quando la non è osservata da chi l’ha fatta». Tutto il bene che poteva produrre la rivoluzione di Francia fu distrutto colla stessa sentenza che condannò l’infelice Luigi decimosesto. Nell’epoca istessa in cui la Francia credette acquistar piena libertá, incominciarono anche quelle riforme che noi chiamiam superflue. Qual effetto produssero queste riforme? Vi fu una continua lotta tra partiti e partiti; finalmente i partiti non si intendevano piú tra loro, ed il popolo non ne intendeva nessuno. Si correva dietro una parola, che indicava una persona piú che una cosa, e talora non indicava né una cosa né una persona; e le controversie, che non potevano decidersi colla ragione, si decisero colla forza. Robespierre surse; ebbe una forza maggiore e contenne tutte le altre col timore. Robespierre ritenne le parole per perdere i suoi rivali, ma attaccò a queste parole delle cose sensibili, sebbene tutte diverse, per guadagnar il popolo. Il popolo non intendeva né Robespierre né Brissot; ma sapeva che Robespierre gli accordava piú licenza degli altri, e scannava tutti quelli che Robespierre voleva scannati. Robespierre non poteva durar molto tempo, per la ragione che i suoi fatti non avean verun rapporto colle sue idee e si potevano conservar le cose senza conservar le idee. Che volle significare infatti quella parola di «oltre rivoluzionario», che i suoi rivali inventarono per caratterizzarlo e perderlo? Robespierre salvò la Francia, facendo rivoltare tutt’i partiti contro di lui ed, in conseguenza, riunendoli[1]; ma Robespierre non salvò né potea salvare la sua persona, le sue idee, la costituzione sua. Le idee erano giunte all’estremo e doveano retrocedere. Si era riformato piú di quello che il popolo volea; e, siccome queste riforme superflue non aveano in favor loro il pubblico costume, cosí conveniva farle osservare col terrore e colla forza: le leggi sono sempre tanto piú crudeli quanto piú son capricciose. Il sistema de’ moderati rimenava le cose al loro stato naturale e non dava loro altra importanza che quella che il popolo istesso lor dava; cosí il suo rigore e la sua dolcezza erano il rigore e la dolcezza del popolo. L’uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt’i suoi affetti, giunti all’estremo, s’indeboliscono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l’uomo si stanca dello stesso sentimento di libertá. «Nec totam libertatem, nec totam servitutem pati possumus», disse Tacito del popolo romano: a me pare che si possa dire di tutt’i popoli della terra. Or che altro avea fatto Robespierre, spingendo all’estremo il senso della libertá, se non che accelerarne il cambiamento? La vita e le vicende de’ popoli si possono misurare e calcolare dalle loro idee. Vi è tra l’estrema servitú e la libertá estrema uno stadio che tutt’i popoli corrono, e si può dire che in questo corso appunto consiste la vita di tutt’i popoli. La plebe romana era serva addetta alle glebe di pochi patrizi, non aveva proprietá di beni né di persona. Incominciò dal reclamar leggi certe; ottenne la sicurezza delle persone e de’ beni, ma rimaneva ancora senza nozze, senza auspíci, senza magistrature; chiese ed ottenne la partecipazione a tutte queste cose, ma le chiese con temperanza, le furon concesse con moderazione; e ciò non solo prolungò la vita della repubblica, ma la rese, per la vicendevole emulazione delle parti che la componevano, piú energica e piú gloriosa. Pervenute le cose a quella che chiamar si potrebbe «eguaglianza di diritto», i tribuni pretesero anche l’eguaglianza di fatto: s’incominciò a parlar di leggi agrarie, e la repubblica perí. Si era giunto a quell’estremo oltre del quale era impossibile progredire. Nel primo anno della rivoluzione francese, non si pensava che a stabilire quella eguaglianza di diritto, alla quale tendevano irresistibilmente gli ordini pubblici di tutta l’Europa; nel terzo però si pretendeva l’eguaglianza di fatto: in tre anni voi passate dall’etá di Menenio Agrippa a quella de’ Gracchi. Che dico io mai? Nell’etá de’ Gracchi, mentre si pretendeva eguagliare i beni, si riconosceva la legittimitá del dominio civile. Il rispetto, che il popolo ancora serbava per la legge delle doti, lo trattenne dall’eseguire la divisione de’ beni. In Francia le idee eran corse molto piú innanzi: erasi messa in dubbio la legittimitá delle doti, quella de’ testamenti, l’istessa legge fondamentale del dominio, senza la quale non vi è proprietá. Le idee della rivoluzione francese erano un secolo piú innanzi di quelle de’ Gracchi: ed ecco perché, contando da quest’epoca, la repubblica francese ha avuto un secolo meno di vita della romana. Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa della libertá diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non distingue piú i patrizi dai plebei: perché dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i patrizi? Perché vi sono ancora e vi saranno sempre i pochi e i molti: pochi ricchi e molti poveri, pochi industriosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti. Le idee di Robespierre non potevano star insieme né colle altre idee della nazione francese né con quelle delle altre nazioni di Europa. Togliendo, se però era possibile, alla sua nazione le arti, il commercio e la marina, avrebbe fatti de’ francesi tanti Galli: li avrebbe resi piú guerrieri, ma meno capaci di sostener la guerra; avrebbe potuto in un momento invadere tutta la terra, ma a capo di qualche tempo la terra tutta si sarebbe vendicata e la nazione francese sarebbe stata distrutta. Di un antico si diceva che o doveva esser Cesare o pazzo; di Robespierre si avrebbe potuto dire che o doveva essere il dittatore del mondo o pazzo. Ho cercato nella storia un uomo a cui Robespierre si potesse assomigliare. Alcuni de’ suoi amici ed anche de’ suoi nemici lo han paragonato a Silla; ma convien dire che i primi non conoscessero Robespierre ed i secondi non conoscessero Silla. Robespierre ha molta somiglianza con Appio. Differivano nelle massime che predicavano; non so se differissero nello scopo che si avean prefisso, perché per me è ben lontano dall’esser evidente che Robespierre, predicando libertá, non tendesse al dispotismo; ma ambedue egualmente ambiziosi e, nella loro ambizione, egualmente crudeli, egualmente imbecilli. Ambedue volevano stabilir colle leggi quel dispotismo, il quale non è altro che la forza distruttrice della legge. Ambedue ebbero quell’autoritá, che Macchiavelli chiama «pericolosissima», libera nel potere, limitata nel tempo, onde nell’uomo nasce brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi, non essendosi dati dalle leggi a quel fine al quale egli li indirizza, debbono per necessitá divenir tirannici. Né l’uno né l’altro comprese la massima o di non offender nessuno, o di fare le offese ad un tratto e dipoi rassicurare gli uomini e dar loro cagioni di quietare e fermare l’animo; ma rinfrescavano ogni giorno ne’ cittadini, con nuove crudeltá, nuovi timori, e rendevan feroce quel popolo che volevan dominare. Ambedue volevan stabilire l’impero col terrore; non eran militari, né soffrivano la milizia della quale temevano, ma aveano alla medesima sostituita l’inquisizione ed una prostituzione di giudizi, che è piú crudele di ogni milizia, perché è costretta a punire i delitti che questa previene ed accresce i sospetti che questa minora. Questa specie di tirannide, che chiamar si potrebbe «decemvirale», è la piú terribile di tutte, ma per buona sorte è la meno durevole. Per gli uomini che riflettevano, il «moderantismo» non era che uno stato intermedio, il quale ne dovea produrre un altro. La nazione respirava dopo la lotta che avea sostenuta con Robespierre, ma non ancora avea scelto il punto del suo riposo. Un eccesso di energia ne dovea produrre un altro di rilasciatezza. La guerra contro Robespierre era stata desiderata dalla nazione; ma era stata fatta da un partito, il quale poi, come suol avvenire, avea affidata la somma delle cose a mani perfide e sciagurate. La nazione sotto Robespierre fu costretta a salvar la sua libertá: sotto il Direttorio la sua indipendenza[2]. Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicitá è nel mezzo. Guai se, come avvenne altre volte al popolo fiorentino, esso non ritrova mai questo punto!
Note
CAPITOLO XIX
QUANTE ERANO LE IDEE DELLA NAZIONE?
La nazione napolitana bramava veder riordinate le finanze, piú incomode per la cattiva distribuzione che per la gravezza de’ tributi; terminate le dissensioni che nascevan dalla feudalitá, dissensioni che tenevano la nazione in uno stato di guerra civile; divise piú equamente le immense terre che trovavansi accumulate nelle mani degli ecclesiastici e del fisco. Questo era il voto di tutti: quest’uso fecero della loro libertá quelle popolazioni, che da per loro stesse si democratizzarono, e dove o non pervennero o sol pervennero tardi gli agenti del governo e de’ francesi. Molte popolazioni si divisero i terreni, che prima appartenevano alle «cacce regie»[1]. Molti si revindicarono le terre litigiose del feudo. Ma io non ho cognizione di tutti gli avvenimenti, né importerebbe ripeterli, essendo tutti gli stessi. In Picerno, appena il popolo intese l’arrivo de’ francesi, corse, seguendo il suo paroco, alla chiesa a render grazie al «Dio d’Israele, che avea visitato e redento il suo popolo». Dalla chiesa passò ad unirsi in parlamento, ed il primo atto della sua libertá fu quello di chieder conto dell’uso che per sei anni si era fatto del pubblico danaro. Non tumulti, non massacri, non violenze accompagnarono la revindica de’ suoi diritti: chi fu presente a quell’adunanza udí con piacere ed ammirazione rispondersi dal maggior numero a taluno, che proponeva mezzi violenti: - Non conviene a noi, che ci lagniamo dell’ingiustizia degli altri, il darne l’esempio. - Il secondo uso della libertá fu di rivendicare le usurpazioni del feudatario. E quale fu il terzo? Quello di far prodigi per la libertá istessa, quello di battersi fino a che ebbero munizioni, e, quando non ebbero piú munizioni, per aver del piombo, risolvettero in parlamento di fondersi tutti gli organi delle chiese... - I nostri santi - si disse - non ne hanno bisogno. - Si liquefecero tutti gli utensili domestici, finanche gl’istrumenti piú necessari della medicina; le femmine, travestite da uomini onde imporre al nemico, si batterono in modo da ingannarlo piú col loro valore che colle vesti loro. Non son questi gli estremi dell’amore della libertá? Ed a questo stesso segno molte altre popolazioni pervennero; e pervenute vi sarebbero tutte, poiché tutte aveano le stesse idee, i bisogni medesimi ed i medesimi desidèri. Ma, mentre tutti avean tali desidèri, moltissimi desideravano anche delle utili riforme, che avessero risvegliata l’attivitá della nazione, che avessero tolto l’ozio de’ frati, l’incertezza delle proprietá, che avessero assicurata e protetta l’agricoltura, il commercio; e questi formavano quella classe che presso di tutte le nazioni è intermedia tra il popolo e la nobiltá. Questa classe, se non è potente quanto la nobiltá e numerosa quanto il popolo, è però dappertutto sempre la piú sensata. La libertá delle opinioni, l’abolizione de’ culti, l’esenzione dai pregiudizi era chiesta da pochissimi, perché a pochissimi interessava. Quest’ultima riforma dovea seguire la libertá giá stabilita; ma, per fondarla, si richiedeva la forza, e questa non si potea ottenere se non seguendo le idee del maggior numero. Ma si rovesciò l’ordine, e si volle guadagnar gli animi di molti, presentando loro quelle idee che erano idee di pochi. Che sperare da quel linguaggio che si teneva in tutt’i proclami diretti al nostro popolo? «Finalmente siete liberi»... Il popolo non sapeva ancora cosa fosse libertá: essa è un sentimento e non un’idea; si fa provare coi fatti, non si dimostra colle parole. «Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema»... Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua felicitá? «L’uomo riacquista tutt’i suoi diritti»... E quali? «Avrete un governo libero e giusto, fondato sopra i princípi dell’uguaglianza; gl’impieghi non saranno il patrimonio esclusivo de’ nobili e de’ ricchi, ma la ricompensa de’ talenti e della virtú»... Potente motivo per il popolo, il quale non si picca né di virtú né di talenti, vuol esser ben governato, e non ambisce cariche! «Un santo entusiasmo si manifesti in tutt’i luoghi, le bandiere tricolori s’innalzino, gli alberi si piantino, le municipalitá, le guardie civiche si organizzino»... Qual gruppo d’idee che il popolo o non intende o non cura! «I destini d’Italia debbono adempirsi». «Scilicet id populo cordi est: ea cura quietos sollicitat animos». «I pregiudizi, la religione, i costumi»... Piano! mio caro declamatore; finora sei stato solamente inutile, ora potresti esser anche dannoso[2]. Il corso delle idee è quello che deve dirigere il corso delle operazioni e determinare il grado di forza negli effetti. Le prime idee che si debbono far valere sono le idee di tutti; quindi le idee di molti; in ultimo luogo le idee di pochi. E, siccome coloro che dirigono una rivoluzione sono sempre pochi di numero ed hanno piú idee degli altri, perché veggono piú mali e comprendono piú beni, cosí molte volte è necessario che i repubblicani per istabilir la repubblica si scordino di loro stessi. Molti mali soffrí per lungo tempo Bruto, moltissimi ne previde, ma, finché fu solo a soffrire ed a prevedere, tacque; molti ne soffrirono i patrizi prima che si lagnasse il popolo; finalmente il fatto di Lucrezia fece ricordare ad ognuno che era marito: allora Bruto parlò prima al popolo e lo mosse, poscia parlò al senato, e, quando la rivoluzione fu compíta, ascoltò se stesso. Tutto si può fare: la difficoltá è sola nel modo. Noi possiamo giugnere col tempo a quelle idee alle quali sarebbe follia voler giugner oggi: impresso una volta il moto, si passa da un avvenimento all’altro, e l’uomo diventa un essere meramente passivo. Tutto il segreto consiste in saper donde si debba incominciare. Non si può mai produrre una rivoluzione, a meno che non sia una rivoluzione religiosa, seguendo idee troppo generali, né seguendo un piano unico. Mille ostacoli tu incontrerai ad ogni passo, che non si erano preveduti; mille contraddizioni d’interessi, che, non potendosi distruggere, è necessitá conciliare. Il popolo è un fanciullo, e vi fa spesso delle difficoltá alle quali non siete preparato. Molte nostre popolazioni non amavano l’albero perché non ne intendevano l’oggetto, e talune, che s’indispettivano per non intenderlo, lo biasimavano come magico; molte, invece dell’albero, avrebbero voluto un altro emblema. È indifferente che una rivoluzione abbia un emblema o un altro, ma è necessario che abbia quello che il popolo intende e vuole. In molte popolazioni eravi un male da riparare, un bene da procurare per poter allettare il popolo: le stesse risorse non vi erano in altre popolazioni; né potevano la legge o il governo occuparsi di tali oggetti se non dopo che la rivoluzione era giá compiuta. Le rivoluzioni attive sono sempre piú efficaci, perché il popolo si dirige subito da se stesso a ciò che piú da vicino l’interessa. In una rivoluzione passiva conviene che l’agente del governo indovini l’animo del popolo e gli presenti ciò che desidera e che da se stesso non saprebbe procacciarsi. Talora il bene generale è in collisione cogl’interessi de’ potenti. L’abolizione de’ feudi, per esempio, reca un danno notabile al feudatario; ma, piú del feudatario, sono da temersi coloro che vivono sul feudo. Il popolo trae ordinariamente la sussistenza da costoro; comprende che, dopo un anno, senza il feudatario vivrebbe meglio, ma senza di lui non può vivere un anno: il bisogno del momento gli fa trascurare il bene futuro, quantunque maggiore. Il talento del riformatore è allora quello di rompere i lacci della dipendenza, di conoscer le persone egualmente che le cose, di far parlare il rispetto, l’amicizia, l’ascendente che taluno, o bene o male, gode talora su di una popolazione. Spesse volte ho visto che una popolazione ama una riforma anziché un’altra. Molte popolazioni desideravano la soppressione de’ monasteri, molte non la volevano ancora: piucché la superstizione, influiva sul loro spirito il maggiore o minor bisogno in cui erano de’ terreni. Non urtate la pubblica opinione; crescerá col nuovo ordine di cose il bisogno, e voi sarete sollecitato a distruggere ciò che un momento prima si voleva conservare. Basta dar avviamento alle cose; di molte non si comprende oggi la necessitá o l’utile, e si comprenderá domani: cosí avrete il vantaggio che farete far dal popolo quello che vorreste far voi. Non vi curate degli accessorii, quando avete ottenuto il principale. Io, che ho voluto esaminar la rivoluzione piú nelle idee de’ popoli che in quelle de’ rivoluzionari, ho visto che il piú delle volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune operazioni senza talune apparenze e senza talune solennitá che il popolo credeva necessarie. Avviene nelle rivoluzioni come avviene nella filosofia, dove tutte le controversie nascono meno dalle idee che dalle parole. I riformatori chiamano «forza di spirito» l’audacia colla quale attaccano le solennitá antiche; io la chiamo «imbecillitá» di uno spirito che non sa conciliarle colle cose nuove. Il gran talento del riformatore è quello di menare il popolo in modo che faccia da sé quello che vorresti far tu. Ho visto molte popolazioni fare da per loro stesse ciò che, fatto dal governo, avrebbero condannato. «Volendo - dice Macchiavelli - che un errore non sia favorito da un popolo, gran rimedio è fare che il popolo istesso lo abbia a giudicare». Ma a questo grande oggetto non si perviene se non da chi ha giá vinto tanto la vanitá de’ fanciulli di preferir le apparenze alle cose reali, quanto la vanitá anche di quegli uomini doppiamente fanciulli, che non conoscono la vera gloria e che la fanno consistere nel far tutto da loro stessi. Siccome nelle rivoluzioni passive il gran pericolo è quello di oltrepassare il segno in cui il popolo vuole fermarsi e dopo del quale vi abbandonerebbe, cosí il miglior partito, il piú delle volte, è di restarsene al di qua. Il governo avea ordinata la soppressione istantanea di molti monasteri; e questa, commessa a persone non sempre fedeli, non avea prodotto que’ vantaggi che se ne speravano. Si poteano i conventi far rimanere, ma colla legge di non ricever piú nuovi monaci; i loro fondi, con altra legge, si dichiaravano censiti a coloro che ne erano affittuali, colla libertá di acquistarne la proprietá; e cosí si otteneva la ripartizione de’ terreni, l’abolizione del monistero a capo di pochi anni, e frattanto ai monaci si avrebbe potuto vender anche caro questo prolungamento di esistenza. Il voler far in un momento tutto ciò che si può fare non è sempre senza pericolo, perché non è senza pericolo che il popolo non abbia piú né che temere né che sperare da voi. Il popolo è ordinariamente piú saggio e piú giusto di quello che si crede. Talora le sue disgrazie istesse lo correggono de’ suoi errori. Ho veduto delle popolazioni diventar repubblicane ed armarsi, perché nella loro indifferenza erano state saccheggiate dagl’insorgenti. In Caiazzo taluni della piú vile feccia del popolo insursero ed attaccarono le autoritá costituite; tutti gli altri erano spettatori indolenti: gl’insorgenti soli furono i piú forti, vollero rapinare, e questo ruppe il letargo degli altri. Allora gl’insorgenti non furono piú soli: tutta la popolazione difese le autoritá costituite; ed, istruita dal pericolo, Caiazzo divenne la popolazione piú attaccata alla repubblica. Da tutto si può trar profitto: tutto può esser utile ad un governo attivo, che conosca la nazione e non abbia sistemi. Tutt’i popoli si rassomigliano; ma gli effetti delle loro rivoluzioni sono diversi, perché diversi sono coloro che le dirigono. Molti avvenimenti io potrei narrare in prova di ciò che ho detto; ma si potrebbe dir tutto senza una noia mortale? Agli esteri bastano i risultati; i nazionali, quando vogliano, possono applicare a ciascuno di essi i fatti ed i nomi che giá sanno.
Note
CAPITOLO XX
PROGETTO DI GOVERNO PROVVISORIO
Nello stato in cui era la nazione napolitana, la scelta delle persone che formar doveano il governo provvisorio era piú importante che non si pensa. Noi riferiremo a questo proposito ciò che taluno propose a Championnet ed a coloro che consigliavano Championnet. «Il primo passo in una rivoluzione passiva è quello di guadagnar l’opinione del popolo; il secondo è quello d’interessare nella rivoluzione il maggior numero delle persone che sia possibile. Queste due operazioni, sebbene in apparenza diverse, non sono però in realtá che una sola; poiché quello istesso che interessa nella rivoluzione il maggior numero delle persone vi fa guadagnare l’opinione del popolo, il quale, non potendo giudicar mai di una rivoluzione e di un governo per princípi e per teorie, non potendo ne’ primi giorni giudicarne dagli effetti, deve per necessitá giudicarne dalle persone, ed approvare quel governo che vede commesso a persone che egli è avvezzo a rispettare. «Tra gl’impiegati del re di Napoli molti ve ne sono, i quali non hanno giammai fatta la guerra alla rivoluzione; amici della patria perché amanti del bene, ed attaccati al governo del re sol perché quel governo dava loro un mezzo onesto di sussistenza. Molti di costoro meritano di esser impiegati per i loro talenti e possono guadagnare alla rivoluzione l’opinione di molte classi del popolo. «Il fòro ne somministra moltissimi; e la classe del fòro, una volta guadagnata, strascina seco il quinto della popolazione. Moltissimi ne somministra la classe degli ecclesiastici, e vi è da sperare altrettanto di bene: il resto si avrebbe dalla nobiltá (uso per l’ultima volta questa parola per indicare un ceto che piú non deve esistere, ma che ha esistito finora) e dalla classe de’ negozianti. I nobili si crederanno meno offesi, quando si vedranno non del tutto obbliati; ed i negozianti, finora disprezzati da’ nobili, saranno superbi di un onore che li eguaglia ai loro rivali, e può la nazione sperar da loro aiuti grandissimi ne’ suoi bisogni. In Napoli questa è la classe amica del popolo, poiché da questa classe dipende e vive quanto in Napoli vi sono pescatori, marinai, facchini e di altri tali, che formano quella numerosa e sempre mobile parte del popolo che chiamansi ’lazzaroni’. Utili anche sarebbero molti ricchi proprietari delle province, i quali possono colá ciò che possono i negozianti in Napoli, e potranno dare al governo quei lumi che non ha e che non può avere altrimenti sulle medesime. «Per effetto della nostra mal diretta educazione pubblica, la cognizione delle nostre cose si trova riunita al potere ed alla ricchezza: coloro che hanno per loro porzione il sapere, per lo piú, tutto sanno fuorché ciò che saper si dee. Allevati colla lettura de’ libri inglesi e francesi, sapranno le manifatture di Birmingham e di Manchester, e non quelle del nostro Arpino; vi parleranno dell’agricoltura della Provenza, e non sapranno quella della Puglia; non vi è tra loro chi non sappia come si elegga un re di Polonia o un imperatore dei romani, e pochi sapranno come si eleggono gli amministratori di una nostra municipalitá; tutti vi diranno il grado di longitudine e di latitudine d’Othaiti: se domandate il grado di Napoli, nessuno saprá dirlo. Un tempo i nostri si occuparono di tali cose, ed ebbimo scrittori di questi oggetti prima che le altre nazioni di Europa ancora vi pensassero. Oggi ciascuno sdegna di occuparsene, vago di una gloria straniera, quasi che si potesse meritare maggior stima dagli altri popoli ripetendo loro male ciò che essi sanno bene, che dicendo loro ciò che ancora non sanno. Queste cognizioni intanto sono necessarie, e, per averle, o convien ricorrere ai libri senza ordine e senza gusto scritti due secoli fa, o convien dipendere da coloro i quali, per avere maneggiati gli affari del Regno e viste diverse nostre regioni, conoscono e gli uomini e lo stato degli uomini. Per difetto della nostra educazione, la scienza che noi abbiamo è inutile, e siam costretti a mendicare le utili dagli altri. «Ma, affinché le cognizioni delle cose patrie non siano scompagnate dai lumi della filosofia universale di Europa, ed affinché coloro de’ quali abbiam bisogno per opinione non diventino i nostri padroni per necessitá, affinché gli antichi interessi (se pure costoro avessero interesse per l’antico governo) non opprimano i nuovi, a costoro si unirá un doppio numero di savi e virtuosi patrioti: cosí avremo il vantaggio del patriotismo nelle decisioni, ed il patriotismo avrá il vantaggio delle cognizioni patrie nell’esame e dell’opinione pubblica nell’esecuzione. «Invece di fare l’assemblea, che chiamar si potrebbe ’costituente’, di venticinque persone, far si potrebbe di ottanta, e combinare in tal modo insieme tutti questi vantaggi. Un’assemblea provvisoria di ottanta non è troppo grande per una nazione che dee averne una costituzionale piú che doppia: all’incontro una di venticinque può sembrare troppo piccola, specialmente non essendosi ancora pubblicata la costituzione. Il popolo potrá credere che si voglia prender giuoco di lui e che si pensi ad escluderlo da tutto. Un generale estero, che venisse egli solo a darci la legge, si tollererebbe come un re conquistatore, e l’oppressione, in cui ciascuno vedrebbe gli altri tutti, gli renderebbe tollerabile la propria; ma, subito che chiamate a parte della sovranitá la nazione, conviene che usiate piú riguardi: o conviene dar a tutti o a nessuno; i consigli di mezzo non tolgono l’oppressione e vi aggiungono l’invidia». Si passava ad indicare, in tutte le classi, de’ veri patrioti, i quali, senza esser ascritti a verun club, amavano la patria ed avrebbero saputo renderla felice... Ma i nomi di costoro sarebbe ora colpevole imprudenza rivelare.
CAPITOLO XXI
MASSIME CHE SI SEGUIRONO
Io prego tutti coloro i quali leggeranno questo paragrafo a non credere che io intenda scrivere la satira de’ patrioti. Se il patriota è l’uomo che ama la patria, non sono io stesso un patriota? Come potrei condannare un nome che onora tanti amici, de’ quali or piango la lontananza o la perdita? Noi possiamo esser superbi che in Napoli la classe de’ patrioti sia stata la classe migliore: ivi, e forse ivi solamente, la rivoluzione non è stata fatta da coloro che la desideravano sol perché non avevano che perdere. Ma in una grande agitazione politica è impossibile che i scellerati non si rimescolino ai buoni, come appunto, agitando un vaso, è impossibile che la feccia non si rimescoli col fluido. Il grande oggetto delle leggi e del governo è di far sí che, ad onta de’ nomi comuni de’ quali si vogliono ricoprire, si possano sempre distinguere i buoni dai cattivi, e che si riconosca per patriota solo colui che è degno di esserlo. Allora i cattivi non corromperanno l’opera de’ buoni. Allora il governo de’ patrioti sará il migliore de’ governi, perché sará il governo di coloro che amano la patria. Ma tale è la dura necessitá delle cose umane, che spesso le maggiori avvertenze, che si prendono per far prevalere i buoni, non fanno che allontanarli e verificare l’antico adagio: che nelle rivoluzioni trionfano sempre i pessimi. Nelle altre rivoluzioni i rivoluzionari non buoni han fatto sorgere princípi pessimi. In quella di Napoli princípi non nostri e non buoni fecero perdere gli uomini buoni. Nulla di migliore degl’individui che avevamo, perché i princípi loro individuali erano retti: se le operazioni politiche non corrisposero alle loro idee, ciò avvenne perché i princípi pubblici non erano di essi ed erano fallaci. Questi princípi politici per necessitá doveano corromper tutto. Alcuni falsi patrioti o maligni speculatori, ai quali né la classe de’ buoni né un solo del governo aderí mai, dicevano che tutti gli aristocratici, che tutt’i vescovi, tutt’i preti, tutt’i ricchi dovevano essere distrutti. Non erano contenti che fossero eguagliati agli altri. La repubblica fiorentina operava una volta cogli stessi principi; e la repubblica fiorentina fu perciò in una continua guerra civile, che finalmente produsse la sua morte. Questo avviene inevitabilmente tutte le volte che la repubblica non è fondata sopra la giustizia; e non lo è mai ogni qual volta, dopo aver distrutta la classe, continua a perseguitar l’individuo, non perché ami le distinzioni della classe giá estinta, ma solo perché le apparteneva un giorno. I romani si contentarono di far che i plebei potessero ascendere a tutte le cariche: questo era il giusto e formava la libertá; se essi avessero voluto escluderne i patrizi sol perché erano patrizi, sarebbe stato lo stesso che voler rimettere il patriziato dopo averlo distrutto e voler far nascere la guerra civile. Pretendevano non doversi impiegar nessuno di coloro che aveano ben servito il re. Era giusto che non s’impiegassero coloro, se mai ve ne erano, che lo aveano servito nei suoi capricci, nelle sue dissolutezze, nelle sue tirannie; che doveano l’onore di servire all’infamia onde si eran ricoperti. Ma molti, servendo il re, avean servita la patria; e molti altri, al contrario, non aveano potuto servire il re, perché non meritavano servir la patria: l’escluder quelli, l’ammetter questi, sol perché quelli aveano servito il re e questi non giá, non era lo stesso che tradire la patria e farla servire da coloro che non sapeano servirla? Chi dunque dovea impiegarsi? Coloro solamente che erano patrioti. La repubblica napolitana fu considerata come una preda, la di cui divisione spettar dovea a pochissimi; e questo fu il segnale, né poteva esserlo diversamente, della guerra civile tra la parte numerosa della nazione e la parte debole. Questo fece mancare tutt’i buoni agenti della repubblica: se un uomo di genio e da bene è raro in tutto il genere umano, come mai può ritrovarsi poi facilmente in una classe poco numerosa? È vero che i clamori della folla né esprimevano il voto de’ buoni né eran di norma al governo; ma, in circostanze precipitose ed incerte, quando la curiositá pubblica è grandissima ed ignote sono ancora le massime di un governo nuovo, né vi è tempo e modo da paragonare le voci ai fatti, i clamori, sebben falsi, producono un male reale, perché il popolo li crede massime del governo e se ne offende. Il piú difficile, in tali tempi, è il far sorgere una opinione che dir si possa pubblica; fare che nel tempo istesso e parlassero molti, perché le voci riunite producono effetto maggiore, e le parole fossero concordi, onde l’effetto, per contrasto delle medesime, non venisse distrutto. Questo, per altro, era in Napoli piú difficile ad ottenersi che altrove; tra perché la rivoluzione non era attiva, ma passiva, né vi era, in conseguenza, un’opinione predominante, ma si imitavano quelle di Francia, le quali erano state molte e diverse, onde è che vi erano alcuni «terroristi», altri «moderati», ecc.; tra perché le opinioni non eran libere, e spesso prevaleva per effetto di forza quella che non era la piú comune; tra perché finalmente il tempo fu brevissimo, e l’opinione pubblica, ovunque non vi è forza che possa dirigerla, ha bisogno di tempo lunghissimo. È un’osservazione costante che il popolo non s’inganna mai ne’ particolari; ma una fazione s’inganna, e molto piú una fazione la quale riduce le virtú ed i talenti tutti ad un solo nome, di cui usa egualmente e Catilina e Catone. Il vero «patriotismo» è l’amor della patria, ed ama la patria chi vuole il suo bene ed ha i talenti per procurarlo. Se lo separate da queste idee sensibili, allora formate del patriotismo una parola chimerica, la quale apre il campo alla calunnia ed impedisce all’uomo da bene, che non è fazioso, di accostarsi al governo; allora si sostituisce al merito reale un merito di opinione che ciascuno può fingere, ed il merito reale rimane sempre dietro a quello dei ciarlatani. Con questi mezzi abbiam veduti allontanati dal corpo legislativo il virtuoso Vincenzio Russo ed alcuni altri, tra’ quali uno che, in quelle circostanze, avrebbe potuto esser utile alla patria. Se la nostra rivoluzione fosse stata attiva, i nostri patrioti si sarebbero conosciuti nell’azione precedente, il che non avrebbe lasciato luogo alla impostura, e si sarebbero conosciuti per quello che ciascun valea. Si è detto realmente che le guerre civili fanno sviluppare i geni di una nazione, non perché li facciano nascere, ma perché li fanno conoscere; perché ciascuno nell’azione si mette al posto che il suo genio gli assegna, e la scelta per lo piú suole riuscir buona, perché si giudica dell’uomo dai suoi fatti. Presso di noi l’uomo era riputato patriota da che apparteneva ad un club. Ma, quando anche questa invenzione inglese di club fosse stata atta a produrre un giorno una rivoluzione, pure, non avendola prodotta, non potea far giudicare degli uomini se non dalle parole. I nostri clubs non avean ancora superata la prima prova delle congiure, che è quella di conservare il segreto tra il numero: composti sulle prime da pochi individui, allorché incominciò la persecuzione, si sciolsero. Quando venne la rivoluzione, si trovarono moltissimi, i quali non aveano fatto altro che dare il loro nome negli ultimi tempi, uomini che non si conoscevano neanche tra loro, e tra costoro fu facile a qualunque audace rimescolarsi e dichiararsi patriota. Cosí la patria fu in pericolo di esser vittima dell’ambizione de’ privati, poiché non si trattava di soddisfar questa con servigi resi alla patria medesima, ma bensí con quelli che taluno forsi voleva renderle; non si esaminava chi sapeva, chi potea, ma si cercava chi voleva; ed in tale gara il piú audace mentitore, il piú sfacciato millantatore doveano vincere il merito e la virtú sempre modesta.
CAPITOLO XXII
ACCUSA DI ROTONDO - COMMISSIONE CENSORIA
S’incominciò dai primi giorni della repubblica a fare una guerra a tutti gl’impiegati: accuse sopra accuse, deputazioni sopra deputazioni: chi ambiva una carica non dovea far altro che mettersi alla testa di un certo numero di patrioti e far dello strepito. Siccome tutto si aggirava su parole vaghe che niuno intendeva, cosí la ragione non poteva aver luogo e dovean vincere il numero e lo strepito, prima forza che gli uomini usano nelle gare civili, finché passino ad usarne un’altra piú efficace e piú crudele. All’uomo ragionevole e dabbene non rimaneva che involgersi nel suo mantello e tacere. Prosdocimo Rotondo, eletto rappresentante, offese l’invidia di qualche suo nemico. Si mosse Nicola Palomba ad accusarlo: Nicola Palomba, che non conosceva Rotondo, ma, entusiasta ed in conseguenza poco saggio, credea che ei fosse indegno della carica, sol perché qualche suo amico lo credeva tale. Un’accusa di tale natura non avrebbe dovuto ammettersi, poiché l’indegnitá di taluno potrá far sí che il sovrano non lo elegga; ma, eletto che l’abbia, perché sia deposto prima del tempo stabilito dalla legge, vi è bisogno di un delitto. Ammessa però una volta l’accusa, conveniva esaminarla: nella repubblica deve esser libera l’accusa, ma punita la calunnia. Io non so se Rotondo fosse reo: so però ch’egli insisteva perché fosse giudicato; so che, dimesso dalla carica, pubblicò il conto della sua amministrazione, e tutti tacquero. Il presidente allora del comitato centrale vedea in questo affare, in apparenza privato, quanto importasse conservarsi il rispetto alla legge, senza di cui non vi è governo, ed intendeva bene che una folla di patrioti poteva diventar fazione, subito che non fosse piú nazione. Ma, poco di poi, alcuni, disperando di farsi amare e rendersi forti colla nazione, vollero adular la fazione, e non si permise che dell’affare di Rotondo piú si parlasse. Palomba partí pel dipartimento del quale era stato nominato commissario. Gli fu data, è vero, la facoltá di proseguir l’accusa anche per mezzo de’ suoi procuratori: ma non si trattava di dargli una facoltá; era necessario imporgli un’obbligazione. Palomba non avrebbe dovuto partire, se prima non adempiva al dovere che gl’imponeva l’accusa. In un governo giusto l’accusatore è nel tempo istesso accusato; e, mentre si disputava se Rotondo era degno o no di seder tra i legislatori, Palomba non avea diritto di esser nominato commissario. Dispiacque a Rotondo ed a tutt’i buoni un silenzio che sacrificava il governo alla fazione e la fazione all’individuo. Il segreto, una sola volta svelato, tolse ogni freno all’intrigo. Napoli si vide piena di adunanze patriotiche, che incominciarono a censurare le operazioni e le persone del governo. Ma non si contentavano di mettere cosí un freno alla condotta di coloro che potevano abusare della somma delle cose, ottimo effetto che la libertá de’ partiti produce nella repubblica; non si contentavano di osservarsi a vicenda: voleano combattersi, voleano vincersi; le loro censure voleano che avessero la forza di accuse, e cosí lo studio delle parti dovea degenerare in guerra civile. Non vi fu piú uno il quale non fosse accusato; ma, siccome le accuse non erano dirette dall’amore della patria, cosí non erano fondate sulla ragione: motivi personali le facevano nascere, gli stessi motivi le facevano abbandonare. Si aggiugneva a ciò che, il piú delle volte, le contese decidevansi per autoritá degli esteri. Sebbene le loro decisioni talora fossero giuste, non potevano però mai esser legali, perché, anche quando si eseguiva la legge, parlava l’uomo. Cosí gli uomini non si avvezzavano mai a credere che a soddisfare i loro desidèri non vi fosse altra via che quella della legge; e, senza questa intima e profonda persuasione, non vi è repubblica. Il costume pubblico si corrompe; le sètte non servono piú la patria, ma bensí l’uomo che esse credono superiore alla legge, e quest’uomo fomenta in segreto una divisione che assoda il suo imperio. I partiti corrompono l’uomo, e l’uomo corrompe la nazione. Gl’intriganti prendono le loro misure, i buoni si vedono senza alcuna difesa, i faziosi (importa poco di qual partito essi siano: è fazioso chiunque non è del partito della patria) trionfano; e, siccome l’unico mezzo di acquetarli è quello di dar loro una carica, cosí si vedono elevati molti che la nazione non vuole e che ruinano poi la nazione. Male funesto, non ultima causa della nostra ruina, e che i buoni non debbono giammai obbliare, onde esser piú cauti ad accordare la loro confidenza ai pessimi, che la forza della rivoluzione spinge sempre in alto! Essi divengono assai piú terribili in una rivoluzione di opinione, nella quale un sentimento che non si vede, un nome che si può fingere, tengono spesso il luogo delle vere virtú e del merito reale; in una rivoluzione prodotta da armi straniere, in cui è inevitabile la sconsigliata profusione delle cariche: tra il conquistatore, il quale spesso non sa ciò che dona né a chi dona, ma sa solo che ciò che dona non è suo; e tra i primi da lui impiegati, i quali rammentano piú i bisogni di un amico che quelli di uno Stato che odiavano, e, pieni ancora dell’impazienza di obbedire, di rado sanno temperarsi nell’uso di comandare. Il governo, per acquetare un poco i rumori, istituí una commissione di cinque persone per esaminare coloro che doveano impiegarsi: non erano impiegati se non quei tali che dalla commissione venissero approvati; chi era riprovato veniva escluso per sempre. Questa istituzione fu effetto delle circostanze. Le accuse, i reclami erano infiniti; il tempo era breve; il bisogno di ben conoscere le persone urgente. La commissione della quale parliamo, fu imaginata a fine di bene; le furon date istruzioni limitatissime, quasi private: ma essa divenne, contro la mente del governo, una magistratura che avea ed esercitava giurisdizione regolare, manteneva un officio, riceveva petizioni, faceva decreti. L’istituzione cangiò natura, e questo avvien sempre in tutte le istituzioni simili. Se, invece di istituire una commissione, si fosse obbligato Palomba a proseguire l’accusa; se fosse stato condannato, come era di giustizia, o Palomba o Rotondo, quattro quinti de’ clamori sarebbero cessati, ed il governo avrebbe conosciuto meglio le persone e le cose. Accaduto una volta un disordine, specialmente ne’ primi giorni di un governo nuovo, di rado il popolo conosce la vera cagione del medesimo, e tutto attribuisce al governo: male inevitabile e gravissimo, il quale deve persuaderci che non tutto ciò di cui il popolo si doleva era sempre cagionato dal governo; che le intenzioni eran sempre pure, ma non eran sempre buone le istituzioni; e queste non eran sempre buone, perché li princípi, dalli quali dipendevano, eran fallaci; e finalmente che in un governo nuovo è necessitá far quanto meno si possa d’istituzioni tali che possino divenir arbitrarie. Tutto deve esser potentemente afferrato dalla mano di chi governa.
CAPITOLO XXIII
LEGGI - FEDECOMMESSI
Il momento della rivoluzione in un popolo è come un momento di tumulto in un’assemblea: i dispareri, il calore della disputa, destano tanti e sí vari rumori, che impossibile riesce far ascoltare la voce della ragione. Se allora un uomo rispettabile per la sua prudenza e pel suo costume si mostra, gli animi si acchetano, tutti l’ascoltano: il suo nome gli guadagna l’attenzione di tutti, egli può far udire la voce della ragione. Nel primo momento l’opinione è necessaria per dar luogo alla ragione; ma nel secondo conviene che la ragione sostenga e confermi l’opinione. Que’ fatti che finora abbiam riferiti aveano per iscopo il guadagnare la confidenza del popolo prima che il governo avesse agito; ma il governo dovea finalmente agire e dovea colle opere meritarsi quella confidenza che avea giá guadagnata... Esso si occupò dell’abolizione de’ fedecommessi e della feudalitá, che formavano presso di noi i piú grandi ostacoli all’eguaglianza ed al governo repubblicano. L’istituzione de’ fedecommessi porta seco lo spirito di conservar i beni nelle famiglie, spirito non compatibile coll’eguaglianza nelle repubbliche ben ordinate. Forse, cosí in Roma come in Sparta, l’amor dell’eguaglianza avea fatto nascere lo spirito della conservazione de’ beni. Ma i nostri fedecommessi non aveano di romano altro che il nome e le formole esterne di ciò che chiamasi «sostituzione»: queste antiche istituzioni, unite alle idee di nobiltá ereditaria e di successione feudale, avean prodotto presso di noi un mostro, di cui a torto incolperemmo i romani. Nel regno di Napoli, ove tutte le ricchezze sono territoriali, si erano i fedecommessi moltiplicati all’estremo, e moltiplicato avevano ancora il numero de’ celibi, degli oziosi, de’ poveri, de’ litiganti, ecc. La riforma fu semplice e ragionevole. Non si distrusse la volontá de’ testatori che fino a quel tempo aveano ordinato de’ fedecommessi, tra perché una legge nuova non deve mai annullare i fatti precedenti, tra perché la riforma della proprietá non deve distruggerne il fondamento, il quale altro non è che il possesso autorizzato dal costume pubblico[1]. Ma i beni de’ fedecommessi rimanendo liberi in mano de’ possessori e la legge proibendo di ordinarne de’ nuovi, una sola generazione sarebbe stata sufficiente a produrre quella divisione che si desiderava, ma che, ordinata dalla pubblica autoritá, si sarebbe mal volentieri accettata. A’ secondogeniti ed a’ legatari fu disposto darsi il capitale di quella parte del fedecommesso di cui godevano la rendita: cosí ebbero anche essi una proprietá da trasmettere ai loro figli. Il calcolo de’ capitali fu ordinato farsi sulla rendita alla ragione del tre per cento; e cosí, in una nazione ove i fondi sono in commercio alla ragione non minore del cinque e del sei per cento, le porzioni de’ legatari venivano indirettamente a duplicarsi, e si correggeva, senza violenza, quella disuguaglianza che lo spirito di primogenitura avea introdotta nelle porzioni de’ figli di uno stesso padre. Questa legge fu saggia e ben accetta a tutti: i possessori stessi de’ fedecommessi non perdevano tanto colla cessione ai legatari, quanto guadagnavano coll’acquistar la libera proprietá de’ loro beni in una nazione che incominciava a sviluppare qualche attivitá. I legami de’ fedecommessi erano giá mal tollerati, e da’ dissipatori che volean abusare dei loro beni, e da’ saggi i quali voleano usarne in bene. Forse sarebbe stato giusto aggiugnere alla legge la condizione aggiuntavi dall’imperatore Leopoldo, allorché fece la riforma dei fedecommessi di Toscana. Giudicando questo ottimo sovrano che manca alla giustizia chiunque priva del diritto alla successione un uomo nato e nodrito con esso, riserbò la capacitá di succedere ai fedecommessi non solo ai possessori, ma anche ai chiamati giá nati o da nascere da matrimoni contratti prima della legge, molti de’ quali eransi fatti colla speranza di una successione fedecommessaria. Rimanevano ancora alcuni altri oggetti da determinarsi: rimaneva a prendersi delle misure sui tanti e sí ricchi monti di maritaggi che vi sono in Napoli e che altro in realtá poi non sono che fedecommessi di famiglia e di gente... Ma tali oggetti dipendevano dalla legge testamentaria, dallo stato della nazione e da tante altre considerazioni, che era meglio aspettare tempo piú opportuno. Di rado nella rivoluzione francese ed in quelle che sono scoppiate in conseguenza, di rado si è peccato per soverchia lentezza in far le leggi: spessissimo per soverchia precipitanza. Note
CAPITOLO XXIV
LEGGE FEUDALE
La legge feudale richiedeva piú lungo esame e presentava interessi piú difficili a conciliarsi. Quella dei fedecommessi toglieva poco ai possessori dei medesimi, e quel poco davalo ai figli ed ai fratelli loro: la legge dei feudi toglieva ai feudatari moltissimo, e questo passava agli estranei, che talvolta erano i loro nemici. Intanto, l’abolizione dei feudi era il voto generale della nazione. Gli abitanti delle province ardevano di tanta impazienza, che aveano quasiché strascinato il re a dare alla feudalitá de’ colpi, i quali sentivano piú di democrazia che di monarchia. Io dico ciò per un modo di dire, ma non son certo che la feudalitá convenga piú all’una che all’altra di queste due forme di governo. La forma di governo a cui la feudalitá meglio conviene è l’aristocrazia: aristocratici erano i governi di tutta l’Europa nell’epoca in cui la feudalitá prevaleva. Le monarchie presenti dell’Europa eransi elevate sulle rovine della medesima: ove essa era rimasta intatta, il governo era rimasto aristocratico, siccome in Polonia; ove era stata temperata, ma non distrutta, era surto una specie di governo misto, come in Inghilterra e nella Svezia: ove era stata interamente distrutta, era surto un governo aristocratico, come in una grandissima parte dell’Europa, e specialmente in quella parte che altre volte componeva l’immensa monarchia di Spagna, essa era rimasta in uno stato singolare, dove, avendo perduti tutt’i diritti che rappresentava in faccia al sovrano, avea conservati tutti quelli che una volta avea sul popolo. Prendendo per punto di paragone un vassallo degl’imperatori svevi, un pari della Gran Bretagna gli somiglia molto piú che un napolitano quando è nel parlamento, il napolitano gli somiglia molto piú dell’inglese quando è nelle sue terre. Ma i primi diritti sono gloriosi al feudatario e posson esser utilissimi ed al sovrano ed allo Stato; i secondi sono al feudatario vergognosi, perché non è mai glorioso tutto ciò che è oppressivo e nocivo allo Stato, al sovrano, agli stessi baroni, perché tendono a distruggere l’industria, dalla quale solamente dipende la vera prosperitá di una nazione. Questi diritti sono i diritti dei popoli barbari. Ovunque si sviluppa l’industria, essi vanno a cadere in obblio, ed è interesse degli stessi feudatari che ciò succeda. In Russia gli stessi grandi possessori di terra hanno incominciato a dar libertá e proprietá agli uomini che le abitano: con questa sola operazione, han quasi triplicato il valore delle terre loro. I feudatari prevedevano che la rivoluzione li avrebbe obbligati a nuovi sacrifici, e bramavano che fossero i minori possibili. Taluni repubblicani troppo ardenti avrebbero voluto loro toglier tutto. Tra questi due estremi il mezzo era difficile a rinvenirsi. Non vi era neanche un esempio da seguire: la Francia, ove i grandi feudatari eran rimasti distrutti dalla guerra civile, non ebbe bisogno di leggi dopo l’opera delle armi[1]. Giuseppe secondo nella Lombardia avea da lungo tempo eguagliata la condizione de’ beni. Molte popolazioni incominciarono dal fatto, prendendo il possesso di tutti i beni de’ baroni: se tutte avessero fatto lo stesso, la legge sarebbe stata men difficile a concepirsi. La forza autorizza molte cose che la ragione non deve ordinare, ed il popolo stesso ama di veder approvati molti trascorsi che fremerebbe vedendo comandati. La discussione del progetto di legge fu interessante. Le due parti contendenti seguivano opinioni diverse, secondo i loro diversi interessi; i princípi erano opposti, e, come suole avvenire allorché si va agli estremi, né sempre veri né sempre atti alla quistione. I feudatari credevano che la conquista potesse essere un diritto; i repubblicani la credevano sempre una forza, e, quando anche avesse potuto diventar diritto, dicevano che, se un tempo i baroni aveano conquistata la nazione, ora la nazione avea conquistati i baroni: una nuova conquista potea spogliare gli usurpatori nel modo stesso e collo stesso diritto con cui essi spogliato aveano altri usurpatori piú antichi. I feudatari credevano legittimi tutti i titoli che dipendevano dall’antico governo, che essi riputavano del pari legittimo: i patrioti credevano illegittimo tutto ciò che non era stato fatto da una repubblica. Se si udivano i feudatari, tutto dovea conservarsi; se si udivano i patrioti, tutto dovea distruggersi, poiché, dichiarato una volta illegittimo un governo, non vi era ragione per cui parte dei suoi atti si dovesse abolire e parte conservare. Questo era lo stesso che far la causa degli usurpatori e dei governi e non dell’umanitá e della nazione, che eran tradite per soverchio zelo dai loro stessi difensori. Oggi si dice: - Un re non potea far questo; - domani un re avrebbe detto: - Questo non si potea far da una repubblica. - Quando prenderemo noi per principio la salute del popolo ed esamineremo, non ciò che un governo potea, ma solo ciò che dovea fare? Voler ricercare un titolo di proprietá nella natura è lo stesso che voler distruggere la proprietá: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa proprietá se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica imperiosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma, perché gli uomini, dopo i loro bisogni, nulla hanno e nulla debbono aver di piú sacro che i costumi dei loro maggiori. Se si riforma ciò che non è necessario riformare, la rivoluzione avrá molti nemici e pochissimi amici. La feudalitá presso di noi presentava una massa immensa di possessi, di proprietá, di esazioni, di preminenze, di diritti, acquistati, ricevuti, usurpati da diverse mani ed in tempi diversi. I feudatari non furono in origine che semplici possessori di fondi coll’obbligo della fedeltá, e, colla legge della devoluzione, essi non differivano dagli altri proprietari se non per aver ricevute dalla mano di un uomo quelle terre che altri ricevute avea dalla sorte. Ma i grandi feudatari erano nel tempo istesso grandi officiali della corona, ed, in tempi di anarchia o di debolezza, quei rappresentanti della sovranitá, potenti ed inamovibili, fecero obbliar la sovranitá che rappresentavano: quei diritti, che essi esercitavano come officiali della corona, divennero prima diritti del feudatario, indi della sua famiglia, finalmente del feudo. In tempi di continue guerre civili, i pochi uomini liberi che eran rimasti nelle nostre regioni, non avendo né sicurezza né proprietá, chiesero la protezione dei potenti e l’ottennero a prezzo di libertá. Grandi erano certamente questi abusi; ma tale era l’infelicitá dei tempi, tale la condizione degli uomini, tale la desolazione delle nostre contrade, che essi dovettero sembrar tollerabili effetti, e talora, giunti all’estremo, produssero il ritorno del bene. Gli uomini moltiplicati dovettero estendere la loro industria e reclamarono la loro libertá civile: è questo il primo passo che le nazioni fanno verso la coltura. Un re di spirito generoso, che voleva elevarsi, si rese forte col favore del popolo, che egli difese contro gli altri tiranni minori, e le monarchie di Europa sorsero dalle rovine dell’aristocrazia feudale. Noi vediamo nella nostra storia tutti i passi dati dal popolo, le opposizioni de’ baroni, l’ondeggiar perpetuo de’ sovrani a seconda che temevano o de’ baroni o de’ popoli, e la rapacitá del fisco, eterno traditore de’ baroni, de’ popoli e dei re. La storia indica la strada da seguire uniforme alle idee de’ popoli; le stesse leggi feudali indicano la riforma della feudalitá; quella riforma, che i popoli bramano, che i baroni non possono impugnare. Non bastava una legge che dichiarasse abolita la feudalitá: questa legge sarebbe stata piú pomposa che utile. Poco rimaneva presso di noi che avesse l’apparenza feudale: il difficile era riconoscer la feudalitá anche dove parea che non vi fosse. I feudatari aveano de’ diritti acquistati come officiali della corona e come protettori de’ popoli: tali diritti non doveano piú esistere in una forma di governo, in cui la sovranitá veniva restituita al popolo ed il cittadino non dovea aver altro protettore che la legge. I baroni possedevano delle terre: non bastava che queste fossero eguagliate alla condizione delle altre. Se la riforma fosse rimasta a questi termini, i baroni, sgravati dall’adoa e dalla devoluzione, divenuti proprietari di terre libere, avrebbero guadagnato molto piú di quello che loro dava l’esazione de’ diritti incerti, vacillanti ed odiosi: il popolo non avrebbe guadagnato nulla. In una nazione, in cui l’industria è attiva, sará vantaggio del feudatario far coltivare le sue terre dall’uomo libero, anziché dallo schiavo. Una nazione oziosa e povera chiede esser sgravata dai tributi: una nazione ricca ed industriosa è contenta di pagare, purché abbia mezzi di accrescer la sua industria. Nell’immensa estensione di terreni che i baroni possedevano, non vi erano che pochi i quali appartenessero al feudo: negli altri voi vedevate un cumulo di diritti diversi accatastati l’uno sopra l’altro ed appartenenti a persone diverse, tra le quali era facile il riconoscere che il piú potente dovea esser l’usurpatore. Quindi veniva restituita alle popolazioni gran parte di quella massa di terreni feudali, chiamati «demaniali de’ feudi» e che ne formavano la maggior parte; i boschi doveano per necessitá divenire oggetti di pubblica ispezione; ai feudatari veniva a rimaner pure tanto di terreno da esser ricchi, quando all’ozio avessero sostituita l’industria; e la nazione, senza legge agraria, avrebbe avuta, se non la perfetta eguaglianza, almeno quella moderazione di beni, che in una gran nazione è piú utile, meno pericolosa e piú vicina alla vera eguaglianza. Non mai si vide piú chiaramente quanto il freddo e costante esame sia piú pericoloso agli usurpatori che il caldo e momentaneo entusiasmo. I baroni avrebbero mille volte amato ritornare ai princípi della «conquista» e della «legittimitá», che, sebbene in apparenza piú distruttivi, erano piú facili a combattersi, piú facili ad eludersi nell’esecuzione. Ma come combattere princípi evidenti, che essi stessi aveano riconosciuti anche nell’abolito governo? Ad onta di tutto ciò, il progetto non passò senza grandi dispareri: la spirante feudalitá avea tuttavia molti difensori. Talun legislatore credeva nulla potersi decidere sulla feudalitá, perché nulla avea deciso la Francia: invincibile argomento per un rappresentante di una nazione libera ed indipendente! Pagano credeva non esser giunto ancora il tempo di decidere la controversia: egli riconosceva necessarie e giuste le abolizioni de’ diritti, ma voleva che non si toccassero i terreni, quasi che un popolo non dovesse esser oppresso, ma potesse essere legittimamente misero. Taluno volea che l’affare si fosse commesso ad un tribunale, che si sarebbe di ciò incaricato; ma, se le leggi sono fatte pel popolo, i giudizi sono fatti per i potenti, i quali, col possesso, coi cavilli e talora colla prevaricazione, riacquistano coi giudizi tutto ciò che il popolo avea guadagnato colle leggi. Tanto importa che le idee del legislatore sieno a livello con quelle della nazione e che i progetti di legge contengano quelle idee medie, che tutti gli uomini sentono ed a cui tutti convengono! Se si fosse rimasto agli estremi, la legge non si sarebbe avuta o avrebbe prodotta una guerra civile; essa avrebbe portata con sé l’apparenza dell’ingiustizia. Fondata su princípi che nessuno poteva negare, gli stessi baroni piú avversi alla rivoluzione l’avrebbero sofferta, se non con indifferenza (poiché chi potrebbe pretendere che taluno resti indifferente alla perdita di tante ricchezze?), almeno con decoro. Ma, nel tempo appunto in cui il governo era occupato della discussione del progetto di questa legge, Championnet fu richiamato, e Magdonald, che a lui successe, fu ben lontano dal voler sanzionare ciò che il governo avea fatto. Si dovette aspettare Abrial, il quale fu ragionevole e giusto. Ma intanto il tempo era scorso, ed il timore di disgustar diecimila potenti fece perdere ai francesi ed alla repubblica l’occasione di guadagnar gli animi di cinque milioni. È degna di osservazione la differenza che passa tra la discussione che sulla feudalitá vi fu in Francia e quella che vi è stata tra noi. Parlando della prima, Anquetil dice che la discussione dell’Assemblea incominciò da una proposizione fatta per render sicura l’esazione delle rendite a coloro che ne possedevano i diritti, e, passando da idea in idea, si finí coll’abolizione di tutti i diritti. In Francia s’incominciò dalle massime moderate e si passò alle esagerate; in Napoli da queste si ritornò a quelle. Ed era ciò nell’ordine della natura, perché noi riprendevamo le idee dal punto istesso nel quale le avean lasciate i francesi. Quindi è che tra noi furono piú esagerate le opinioni de’ privati che le idee del governo. Il governo seguí la massima che le leggi sulle proprietá hanno una giustizia propria, la quale consiste nel far sí che ciascuno perda il meno che sia possibile; e, nel caso della riforma feudale, si può far in modo che guadagnino ambedue i partiti. Io per me son sicuro che i feudatari potrebbero guadagnar piú con una legge nuova che colle antiche. I diritti feudali si sostengono pel solo uso del fòro. Da che fu imposto tra noi l’obbligo ai giudici di dettar le loro sentenze sul testo espresso della legge, i diritti feudali sono stati di giorno in giorno aboliti, e col tempo lo saranno tutti. Ma una legge nuova dovea considerarsi piuttosto come una transazione che come un decreto; ed il lunghissimo possesso poteva per essa acquistar forza di titolo. La nuova legge feudale non dovea aver per iscopo né chimerica eguaglianza di beni né revindica di domíni, ma solamente di liberare il popolo da tutto ciò che turbava l’esercizio dell’autoritá pubblica, comprimeva e distruggeva l’industria ed impediva la libera circolazione delle proprietá.
Note
CAPITOLO XXV
RELIGIONE
Oggi le idee de’ popoli di Europa sono giunte a tale stato, che non è possibile quasi una rivoluzione politica senza che strascini seco un’altra rivoluzione religiosa, doveché prima la rivoluzione religiosa era quella che per lo piú produceva la politica. Da ciò forse nasce che le rivoluzioni moderne abbiano meno durata delle antiche?[1]. In Francia la parte della rivoluzione religiosa dovette esser violenta, perché violento era lo stato della nazione a questo riguardo. Si riunivano in Francia tutti gli estremi. Essa avea innalzata in Europa l’autoritá papale; essa era stata la prima a scuoterne il giogo, ma scuotendolo non l’avea rotto come si era fatto in Inghilterra, ma le antiche idee erano rimaste per materia di eterne dispute su degli oggetti che conviene solamente credere. Il clero era continuamente alle prese con Roma; i parlamenti lo erano col clero; la corte ondeggiava tra il clero, i parlamenti e Roma. La nazione non si potea arrestare ai primi passi, una volta dati: l’incredulitá venne dietro all’esame; ma, nata in mezzo ai partiti, risvegliar dovette la gelosia dei potenti, e si vide in Francia la massima tolleranza ne’ filosofi e la massima intolleranza nel governo e nella nazione. Poche nazioni di Europa possono, in questo pregio di barbara intolleranza, contendere coi colti ed umani francesi. La nazione napolitana trovavasi in uno stato meno violento. La religione era un affare individuale; e, siccome esso non interessava né il governo né la nazione, cosí le ingiurie fatte agli dèi si lasciavano agli dèi istessi. Il popolo napolitano amava la sua religione, ma la religione del popolo non era che una festa, e, purché la festa se gli fosse lasciata, non si curava di altro. In Napoli non vi era da temere nessuno de’ mali che l’abuso della religione ha persuasi a tanti popoli della terra. Il fondo della religione è uno, ma veste nelle varie regioni forme diverse a seconda della diversa indole dei popoli. Essa rassomiglia molto alla favella di ciascuno di essi. In Francia, per esempio, al pari della lingua, è piú didascalica che in Italia; in Italia è piú poetica, cioè piú liturgica, che in Francia. In Francia la religione interessa piú lo spirito che il cuore ed i sensi; in Napoli, piú i sensi ed il cuore che lo spirito. Qual altra nazione di Europa si può vantare di non aver mai prodotta una setta di eresia e di essersi sempre ribellata ogni volta che le si è parlato di Sant’officio e d’Inquisizione? La nazione che ha eretto un tribunale nazionale indipendente dal re contro questa barbara istituzione, che tutte le altre nazioni di Europa hanno almen per qualche tempo riconosciuta e tollerata, deve essere la piú umana di tutte. In Napoli era facile far delle riforme sulle ricchezze del clero tanto secolare quanto regolare. Una gran parte della nazione era in lite col medesimo per ispogliarlo delle sue rendite, né il rispetto per la religione e per i suoi ministri l’arrestava. Perché dunque, quando queste riforme si vollero tentare dalla repubblica, furono odiate? Perché i nostri repubblicani, seguendo sempre idee troppo esagerate, voleano far due passi nel tempo in cui ne doveano far uno: l’altro avrebbe dovuto venir da sé, e sarebbe venuto. Ma essi, mentre voleano spogliare i preti, volean distruggere gli dèi; si uní l’interesse dei primi e dei secondi, e si rese piú forte la causa dei primi. Ritorniamo sempre allo stesso principio: si volea fare piú di quello che il popolo volea, e conveniva retrocedere; si potea giugnere alla mèta, ma se ne ignorava la strada. Conforti credeva che una religione non si possa riformare se non per mezzo di un’altra religione. La religione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicitá del Vangelo; riformate nel clero le soverchie ricchezze di pochi e la quasi indecente miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal governo e li rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio di ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e liberale[2]. Nessun’altra religione tra le conosciute fomenta tanto lo spirito di libertá. La pagana avea per suo dogma fondamentale la forza: produceva degli schiavi indocili e dei padroni tirannici. La religion cristiana ha per base la giustizia universale: impone dei doveri ai popoli egualmente che ai re, e rende quelli piú docili, questi meno oppressori. La religione cristiana è stata la prima che abbia detto agli uomini che Iddio non approva la schiavitú: per effetto della religione cristiana, abbiamo nell’Europa moderna una specie di libertá diversa dall’antica; ed è probabile che i primi cristiani, nella loro origine, altro non fossero che persone le quali volevano, in tempi corrottissimi, ridurre la piú superstiziosa idolatria alla semplicitá della pura ed eterna ragione, ed il piú orribile dispotismo che mai abbia oppresso la cervice del genere umano (tale era quello di Roma) alle norme della giustizia. Ma gli uomini (diceva Conforti) corrono sempre agli estremi. La filosofia, dopo aver predicata la tolleranza, è diventata intollerante[3], senza ricordarsi che, se non è degno della religione il forzar la religione, non è degno neanche della filosofia. Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerá una da se stesso. Ma, quando voi gliela date, allora formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione: se il popolo se la forma da sé, allora la religione sará indifferente al governo e talora nemica. Cosí tutti gli abusi della religione cristiana sono nati da quegli stessi mezzi che si voglion prendere oggi per ripararli. Conforti credeva che la Francia istessa si sarebbe un giorno ricreduta de’ suoi princípi, e che, quando si credeva di aver distrutti i preti, altro non avea fatto che accrescerne il desiderio, e che avrebbe dovuto renderli di nuovo, contentandosi il governo di potersi restringere a quelle riforme alle quali si sarebbe dovuto arrestare. Ma gli altri erano lontani dall’avere le idee di Conforti, né seppero mai determinarsi a prendere su tale oggetto un espediente generale[4]. Ondeggiando tra lo stato della nazione e gli esempi della rivoluzion di Francia, abbandonarono quest’oggetto importante alla condotta degli agenti subalterni; e questo fu il peggior partito a cui si potessero appigliare. Un atto di forza avrebbe fatto odiare e temere il governo: questa indolenza lo fece odiare e disprezzare nel tempo istesso. Il popolo si stancò tra le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggior odio contro i repubblicani quanto che vedeva le loro operazioni essere effetti della sola loro volontá individuale. L’odio contro gl’individui che governano, odio che poco può in un governo antico, è pericolosissimo in un governo nuovo; perché, siccome il governo nuovo è tale quale lo formano gl’individui che lo compongono, il popolo contro gl’individui niun soccorso aspetta da un governo che conosce, e l’odio contro di quelli diventa odio contro di questo. È un carattere indelebile dell’uomo quello di sostener con piú calore le opinioni proprie che le altrui, piú le opinioni che crede nuove e particolari che le antiche e comuni. Io credo, e fermamente credo, che, se le operazioni che taluni agenti si permisero contro i preti fossero state ordinate dal governo, il loro zelo sarebbe stato minore. La legge nulla determinava: il suo silenzio proteggeva le persone ed i beni degli ecclesiastici; quindi quei pochi agenti del governo, che voleano dare sfogo alle loro idee proprie, si doveano restringere agl’insulti. Or gl’insulti ricadono piú direttamente contro gli dèi, e le operazioni contro gli uomini. La condotta di molti repubblicani era tanto piú pericolosa quanto che si restringeva alle sole parole: mentre si minacciavano i preti, si lasciavano; ed essi ripetevano al popolo che gli agenti del governo l’aveano piú colla religione che coi religiosi, perché, mentre si lasciavano i beni, si attaccavano le opinioni. Si avrebbe dovuto far precisamente il contrario, ed allora tutto sarebbe stato nell’ordine. Il governo si avvide, ma tardi, dell’errore: volle emendarsi e fece peggio. Il popolo comprese che il governo operava piú per timore che per interna persuasione; e, quando ciò si è compreso, tutto è perduto.
Note
CAPITOLO XXVI
TRUPPA
I francesi impedirono però ogni organizzazione di forza nella repubblica napolitana. Il primo loro errore fu quello di temer troppo la capitale; il secondo, di non temere abbastanza le province. Essi non aveano truppa per inviarvene, e di ciò non poteano esser condannati; ma essi non permisero che si organizzasse truppa nazionale che vi potesse andare in loro vece, e di ciò non possono esser scusati. Dagli avanzi dell’esercito del re di Napoli si potea formare sul momento un corpo di trentamila uomini, di persone che altro non chiedevano che vivere. Essi formavano il fiore dell’esercito del re, poiché erano quelli appunto che erano stati gli ultimi a deporre le armi. Tra questi, per il loro coraggio, si distinsero i «camisciotti»: contesero a palmo a palmo il terreno fino al castello del Carmine. Ciò dovea farli stimare, e li fece odiare. Furono fatti tutti prigionieri: conveniva o assoldarli per la repubblica o mandarli via. Si lasciarono liberi per Napoli, e furono stipendiati da coloro che in segreto macchinavano la rivoluzione. Si tennero cosí i controrivoluzionari nel seno istesso della capitale. S’incominciò a raccogliere i soldati del re in Capua, indi un’altra volta in Portici. La repubblica napolitana era in istato di mantenerli; essi avrebbero potuto salvar la patria, salvar l’Italia: ma, appena si vide incominciare l’operazione, che fu proibita. A quei pochissimi soldati che si permise di ritenere non si accordarono se non a stento le armi, che erano tutte nei castelli in potere dei francesi. Intanto si volea disarmare la popolazione. Come farlo senza forze? Ma i francesi temeano egualmente le popolazioni ed i patrioti; e questo loro soverchio timore fece dipoi che le popolazioni si trovassero armate per offenderli, ed i patrioti per difendersi disarmati. Si ordinava il disarmo, ed intanto i custodi francesi delle armi, non conoscendo gli uomini e le cose in un paese per essi nuovo, le vendevano; e ne compravano egualmente tanto il governo repubblicano, a cui era giusto restituirle senza paga, quanto i traditori, a cui era ingiusto darle anche con paga. I mercenari, che avrebbero potuto diventar nostri amici, non avendo onde vivere, passarono a raddoppiar la forza dei nemici nostri. Oltre di una truppa di linea, si avrebbe potuto sollecitamente organizzare una gendarmeria: allora quando ordinossi a tutt’i baroni di licenziare le loro genti d’armi, costoro sarebbero passati volentieri al servizio della repubblica; essi non sapevano far altro mestiere: abbandonati dalla repubblica, si riunirono agl’insorgenti. Essi avrebbero potuto formare un corpo di cinque in seimila uomini, e tutti valorosi. Si ordinò congedarsi gli armigeri baronali, e non si pensò alla loro sussistenza; si soppressero i tribunali provinciali, e non si pensò alla sussistenza di tanti individui che componevano le loro forze e che ascendevano ad un numero anche maggiore degli armigeri... - Essi sono dei scellerati - diceva taluno, il quale voleva anche i gendarmi eroi. Ma questi scellerati continuarono ad esistere, poiché era impossibile ed inumano il distruggerli, ed esistettero a danno della repubblica. Erasi obbliato il gran principio che «bisogna che tutto il mondo viva». L’avea del tutto obbliato De Rensis, allorché pubblicò quel proclama con cui diceva agli uffiziali del re che «a chiunque avesse servito il tiranno nulla a sperar rimanea da un governo repubblicano». Questo linguaggio, in bocca di un ministro di guerra, dir volea a mille e cinquecento famiglie, che aveano qualche nome e molte aderenze nella capitale: - Se volete vivere, fate che ritorni il vostro re. - Questo proclama segnò l’epoca della congiura degli uffiziali. Il proclama fu corretto dal governo col fatto, poiché molti uffiziali del re furono dalla repubblica impiegati. Ben si vide dalle persone che avean senno esser stato esso piuttosto feroce nelle parole che nelle idee, effetto di quella specie di eloquenza che allora predominava, e per la quale la parola la piú energica si preferiva sempre alla piú esatta; ma, io lo ripeto, nelle rivoluzioni passive, quando le opinioni sono varie ed ancora incerte, le parole poco misurate posson produrre gravissimi mali. Le eccezioni, le quali si reputan sempre figlie del favore, non distruggevano le impressioni prodotte una volta dalla legge generale: molti rimasero ancora ondeggianti; moltissimi si trovavano giá aver dati passi irretrattabili contro un governo che credevano ingiusto. La durata della nostra repubblica non fu che di cinque mesi: nei primi gli uffiziali non poterono ottener gradi; negli ultimi non vollero accettarne. Si vuole dippiú? Degli stessi insorgenti si avrebbero potuto formare tanti amici. Essi seguivano un capo, il quale per lo piú non era che un ambizioso: questo capo, quando non avesse potuto estinguersi, si poteva guadagnare, e le sue forze si sarebbero rivolte a difendere quella repubblica, che mostrava di voler distruggere. CAPITOLO XXVII
GUARDIA NAZIONALE
Il nostro governo erasi ridotto a fondar tutte le speranze della patria sulla guardia nazionale. Ma la guardia nazionale dev’essere la forza del popolo, e non mai quella del governo. Tutto fu ruinato in Francia, quando il governo credette non dover avere altra forza: la Vandea non fu mai ridotta, gli assassini ingombrarono tutte le strade, non vi fu piú sicurezza pubblica ed invece della tranquillitá si ebbero le sedizioni. Il primo difetto di ogni guardia nazionale è l’esser piú atta all’entusiasmo che alla fatica; il secondo è che, quando non difende la nazione intera, quando a buon conto una parte della nazione è armata contro dell’altra, è impossibile evitare che ciascun partito non abbia tra le forze dell’altro dei seguaci, degli amici, i quali impediscano o almeno ritardino le operazioni. La vera forza della guardia nazionale risulta dall’uniformitá dell’opinione: ove non siasi giunto ancora a tale uniformitá, convien usare molta scelta nella sua formazione. Non si debbono ammettere se non quelli i quali si presentino per volontario attaccamento alla causa, o che abbiano nella loro educazione princípi di onestá e nel loro stato civile una cautela di responsabilitá. Quei tali che Aristotile direbbe formare in ogni cittá la classe degli ottimi, se non sono entusiasti, di rado almeno saranno traditori. Io parlo sempre de’ princípi di una rivoluzione passiva. Nei primi giorni della nostra repubblica infiniti furono quelli che diedero il loro nome alla milizia nazionale: rispettabili magistrati, onestissimi cittadini, i principali tra i nobili, quanto insomma vi era di meglio nella cittá, disperando dell’abolito governo, voleva farsi un merito col nuovo. Conveniva ammetterli: si sarebbe ottenuto il doppio intento di compromettere molta gente e di guadagnare l’opinione del popolo: in ogni evento infelice, il libro che conteneva i loro nomi avrebbe forse potuto formar la salute di molti. Ma si volle spinger la parzialitá anche nella formazione della guardia nazionale: allora il maggior numero si ritirò, e non si ebbe l’avvertenza neanche di conservare il libro che conteneva i loro nomi. Si formarono quattro compagnie di patrioti: essi erano tutti entusiasti, tutti bravi. Ma quattro compagnie erano poche. Si dovette ritornare al punto donde si era partito, ed ammettere coloro che si erano esclusi. Ma essi non ritornavano piú. Si ordinò che nessuno potesse essere ammesso a cariche civili e militari, se prima non avesse prestato il servizio nella guardia nazionale. Ciò era giusto e dovea bastare. Ma si volle ordinare che tutti si ascrivessero, e nel tempo stesso si ordinò un’imposizione per coloro che volessero essere esentati: dico «volessero», perché i motivi di esenzione erano tali, che ciascuno potea fingerli, ciascuno potea ammetterli, senza timore di poter essere smentito se li fingeva, o rimproverato se gli ammetteva. Che ne avvenne? Coloro che poteano esser mossi dal desiderio delle cariche erano senza dubbio i migliori del paese, ma essi per lo piú erano ricchi, e comprarono l’esenzione: furono costretti ad ascriversi coloro che non aveano né patriottismo né onestá né beni, e cosí la legge fece passar le armi nelle mani dei nostri nemici. Si volle sforzar la nazione, che solo si dovea invitare. L’imposizione riuscí gravosissima per le province. Il governo era passato da un estremo all’altro: prima non volea nessuno, poi voleva tutti. Era però da riflettersi che questa misura fu presa quando giá incominciava a vedersi lo stato intero delle cose volgersi ad inevitabile rovina. Allora, siccome in chi opera non vi è luogo a calcolo, cosí in chi giudica non deve predominar il sistema. Il governo allora giuocava, come suol dirsi, tutto per tutto. Trista condizione di tempi, nei quali taluno, per non aver potuto far ciò che voleva, è poi costretto a volere ciò che non può! Altre massime, altra direzione nelle prime operazioni avrebbero fatta evitar la necessitá di dover fondare tutte le speranze della patria nella guardia nazionale; e forse la patria sarebbesi salvata. Se la guardia nazionale in Francia erasi sperimentata inutile, in Napoli dovea prevedersi inevitabilmente nociva, perché, essendo la rivoluzione passiva, la massima parte della nazione dovea supporsi almeno indifferente ed inerte. Avendo io osservato le guardie nazionali in molti luoghi delle province, ho sempre trovata piú diligente ed energica quella dove o erasi sofferto o temevasi danno dalle insorgenze. L’amor di sé ridestava l’amor della patria. Pure, ad onta di tutto ciò, la guardia nazionale non produsse in noi alcuno sconcerto, e nella capitale fu piú numerosa e piú attiva di quello che si avrebbe potuto sperare. Insomma, né il governo mancava di rette intenzioni, né il popolo di buona volontá: l’errore era tutto nelle massime e nella prima direzione data agli affari. A misura che ci avviciniamo al termine di questo Saggio, vediamo i mali moltiplicarsi: son come tanti fiumi, e tutti diversi, ma che intanto derivano dalla stessa sorgente; ed il maggior utile, che trar si possa dalla osservazione di questi avvenimenti, io credo che sia appunto quello di vedere quanti generi di mali posson derivare da un solo errore. Gli uomini diventeranno piú saggi, quando conosceranno tutte le conseguenze che un picciolo avvenimento può produrre. CAPITOLO XVIII
GUARDIA NAZIONALE
Championnet, entrando coll’armata vittoriosa in Napoli, impose una contribuzione di due milioni e mezzo di ducati da pagarsi tra due mesi. Tale imposizione era assolutamente esorbitante per una sola cittá giá desolata dalle immense depredazioni che il passato governo vi avea fatte. Championnet avrebbe potuto esigere il doppio a poco a poco, in piú lungo spazio di tempo. Quando Championnet se ne avvide, si pentí e mostrò pentirsi del fatto, ma non lo ritrattò; anzi stabilí quindici milioni per le province, a suo tempo. Ma chi potrebbe esporre il modo, quasi direi capriccioso, col quale un’imposizione per se stessa smoderata fu ripartita? Nulla era piú facile che seguire il piano della decima che giá esigeva il re, e proporzionare cosí la nuova imposizione alla quantitá dei beni che nell’officio della decima trovavasi giá liquidata. Si videro famiglie milionarie tassate in pochi ducati, e tassate in somme esorbitantissime quelle che nulla possedeano: ho visto la stessa tassa imposta a chi avea sessantamila ducati all’anno di rendita, a chi ne avea dieci, a chi ne avea mille. Le famiglie dei patrioti si vollero esentare, mentre forse era piú giusto che dassero le prime l’esempio di contribuire con generositá ai bisogni della patria. Si cangiarono tutte le idee: ciò che era imposizione fu considerato come una pena, e non si calcolarono tanto i beni quanto i gradi di aristocrazia che taluno avea nel cuore. - Noi tassiamo l’opinione - risposero i tassatori ad una donna che si lagnava della tassa imposta a suo marito, il quale, non avendo altro che il soldo di uffiziale, fuggendo il re, avea perduto tutto. Si tenne da coloro ai quali il governo avea commesso l’affare una massima che appena si sarebbe tollerata in un generale di un’armata vittoriosa e nemica. Una tassa imposta sul pensiero apriva tutto il campo all’arbitrio. Questo è il male che producono le imposizioni male immaginate e mal dirette; quando anche evitate l’ingiustizia, non potete evitare il sospetto che producono sul popolo gli effetti medesimi dell’ingiustizia. Difatti non vi era in Napoli tanto danaro da pagar l’imposizione. Fu permesso di pagarla in metalli preziosi ed in gioie. Chi era incaricato a riceverle ne fu nel tempo istesso il tesoriere, il ricevitore, l’apprezzatore; ed il popolo credette che tutto fosse trafficato non colla bilancia dell’equitá, ma con quella dell’interesse dell’esattore. Io non intendo affermare ciò che il popolo credeva. Il governo, per dar fine ai tanti reclami, nominò una commissione composta di persone superiori ad ogni sospetto. Mentre in Napoli si esigeva una tale imposizione, le province erano vessate per un ordine del nuovo governo, con cui si obbligavano le popolazioni a pagar anche l’attrasso di ciò che doveano all’antico. Quest’ordine fatale dovette esser segnato in qualche momento d’inconsideratezza e per ragion di pratica. Si seguí l’antico stile, lo stile di tutt’i governi: difatti fu un solo dei membri componenti il governo quegli che sottoscrisse il decreto, ed io so per cosa certa che non lo credette di tanta importanza da meritare una discussione cogli altri suoi compagni. Non avvertí che quello stile non conveniva ad una rivoluzione. Poco tempo prima, il governo avea abolito un terzo della decima, ed avea fatta sperare l’abolizione intera. La decima interessava piú la capitale che le province, e di quella piú che di queste, per eterna fatalitá, si occupò sempre il nostro governo. Ma le province si doveano aspettar mai questo linguaggio da un governo nuovo, che avea bisogno di guadagnar la loro affezione? In Ostuni Giuseppe Ayroldi, uno de’ principali della cittá e che conosceva gli uomini, si oppose alla pubblicazione ed all’esecuzione dell’ordine. Egli ne prevedeva le funeste conseguenze. Il governo non si rimosse; e quale ne fu l’effetto? Ostuni si rivoltò, ed Ayroldi fu la prima vittima del furore popolare. Esse nel tempo stesso erano tormentate dalle requisizioni arbitrarie di taluni commissari e generali. Mali inevitabili in ogni guerra, ma maggiori sempre quando la nazione vincitrice non ha quell’energia di governo, che tutto attira a sé e fa sí che le passioni dei privati non turbino l’unitá delle pubbliche operazioni. L’esercito di una repubblica, se non è composto dei piú virtuosi degli uomini, cagionerá sempre maggiori mali dell’esercito di un re. Questi mali portano sempre seco loro il disgusto de’ popoli verso colui che ha vinto, e impongono al vincitore verso l’umanitá l’obbligo di un compenso infinito, che solo può assicurare la conquista e quasi render legittima la forza.
CAPITOLO XXIX
FAIPOULT[1]
Finalmente venne Faipoult. Egli con un editto, in cui si ripeteva un decreto del Direttorio esecutivo, dichiarò tutto ciò che la conquista avea dato alla nazione francese. Si parlava di conquista dopo che si era tante volte promessa la libertá; e, per conciliar la promessa e l’editto, si chiamava «frutto della conquista» tutto ciò che apparteneva al fuggito re. Ma quali erano i beni del re, che non fossero della nazione? Si chiamava «fondo del re» la reggia, che suo padre non avea al certo condotto da Spagna; si chiamavano «beni del re» i fondi dell’ordine di Malta e dell’ordine costantiniano, i quali erano certamente de’ privati[2]; i monasteri, che erano de’ monaci e che, ove non vi fossero piú monaci, non perciò diventavano beni del re; gli allodiali, de’ quali il re non era che amministratore; e si spinse la cosa fino al segno di dichiarar beni del re i banchi, deposito del danaro de’ privati, la fabbrica della porcellana e gli avanzi di Pompei, nascosti ancora nelle viscere della terra. Il re istesso, ne’ momenti della maggior ebbrezza del suo potere, non avea giammai tenuto un simile linguaggio, e forse in bocca di un re sarebbe stato meno dannoso alla nazione e meno strano: meno dannoso, perché, per quanto ei si prendesse, tutto rimaneva alla nazione, tra la quale egli stesso restava; meno strano, perché egli era realmente il capo di quel governo, e non vi era nei suoi detti la contraddizione che si osservava nell’editto di Faipoult. Tale editto potea far rivoltar la nazione: Championnet lo previde e lo soppresse; Faipoult si oppose, e Championnet discacciò Faipoult. O Championnet, tu ora piú non esisti; ma la tua memoria riceva gli omaggi dovuti alla fermezza ed alla giustizia tua. Che importa che il Direttorio abbia voluto opprimerti? Egli non ti ha però avvilito. Tu diventasti allora l’idolo della nazione nostra. Il richiamo di Championnet fu un male per la repubblica napolitana. Io non voglio decidere del suo merito militare: ma egli era amato dal popolo di Napoli; e questo era un merito ben grande.
Note
CAPITOLO XXX
PROVINCE - FORMAZIONE DI DIPARTIMENTI
Ma quale intanto era lo stato delle province? Esse finalmente doveano richiamar l’attenzione del governo, forse, fino a quel punto, troppo occupato della sola capitale. Il miglior partito sarebbe stato di farvi le minori novitá possibili; ma, come sempre suole avvenire, s’incominciò dal farsene le piú grandi e le meno necessarie. Il maggior numero delle rivoluzioni ha avuto un esito infelice per la soverchia premura di cangiare i nomi delle cose. S’incominciò dalla riforma dei dipartimenti. Volle incaricarsi di quest’opera Bassal, francese, che era venuto in compagnia di Championnet. Qual mania è mai quella di molti di voler far tutto da loro! Quest’uomo, il quale non avea veruna cognizione del nostro territorio, fece una divisione ineseguibile, ridicola. Un viaggiatore, che dalla cima di un monte disegni di notte le valli sottoposte che egli non abbia giammai vedute, non può far opera piú inetta[1]. La natura ha diviso essa istessa il territorio del regno di Napoli: una catena non interrotta di monti lo divide da Occidente ad Oriente dagli Apruzzi fino all’estremitá delle Calabrie; i fiumi, che da questi monti scorrono ai due mari che bagnano il nostro territorio a settentrione ed a mezzogiorno, formano le suddivisioni minori. La natura dunque indicava i dipartimenti: la popolazione, i rapporti fisici ed economici di ciascuna cittá o terra doveano indicare le centrali ed i cantoni. Invece di ciò, si videro dipartimenti che s’incrociavano, che si tagliavano a vicenda; una terra, che era poche miglia discosta dalla centrale di un dipartimento, apparteneva ad un’altra da cui era lontana cento miglia; le popolazioni della Puglia si videro appartenere agli Apruzzi; le centrali non furono al centro, ma alle circonferenze; alcuni cantoni non aveano popolazione, mentre moltissimi ne aveano soverchia, perché sulla carta si vedevano notati i nomi dei paesi e non le loro qualitá. Si vuol di piú? Molte centrali di cantoni non erano terre abitate, ma o monti o valli o chiese rurali, ecc. ecc., che aveano un nome sulle carte; molte terre, avendo un doppio nome, si videro appartenere a due cantoni diversi. Dopo un mese, il governo, che non avea potuto impedire l’opera del cittadino Bassal, la dovette solennemente abolire, e fu necessitá ricorrere a quel metodo col quale avrebbe dovuto incominciare, cioè d’incaricare di un’opera geografica i geografi nostri. Frattanto si comandò che si conservasse l’antica divisione delle province, la quale, sebbene difettosa, era però tollerabile. Ma intanto si crede forsi picciolo male che il governo (poiché il popolo non conosceva né era obbligato a conoscere Bassal), con ordini male immaginati, ineseguibili, strani, perda nell’animo della popolazione quella opinione di saviezza che sola può ispirare la confidenza?
Note
CAPITOLO XXXI
ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE
Forse il miglior metodo per organizzare le province era quello di far uso delle autoritá costituite che giá vi erano. Tutte le province aveano di giá riconosciuto il nuovo governo: le antiche autoritá o conveniva distruggerle tutte, o tutte conservarle. Non so quale di questi due mezzi sarebbe stato il migliore: so che non si seguí né l’uno né l’altro, ed i consigli mezzani non tolsero i nemici né accrebbero gli amici. Con un proclama del nuovo governo si ordinò a tutte le antiche autoritá costituite delle province che rimanessero in attivitá fino a nuova disposizione. Intanto s’inviarono da per tutto dei «democratizzatori», i quali urtavano ad ogni momento la giurisdizione delle autoritá antiche; e, siccome queste erano ancora in attivitá, rivolsero tutto il loro potere a contrariar le operazioni dei democratizzatori novelli. In tal modo si permise loro di conservar il potere, per rivolgerlo contro la repubblica, quando ne fossero disgustati; e s’inviarono i democratizzatori, perché avessero un’occasione di disgustarsi. Quale strana idea era quella dei democratizzatori? Io non ho mai compreso il significato di questa parola. S’intendea forse parlar di coloro che andavano ad organizzar un governo in una provincia? Ma di questi non ve ne abbisognava al certo uno per terra. S’intendeva di colui che andava, per cosí dire, ad organizzare i popoli e render gli animi repubblicani? Ma questa operazione né si potea sperare in breve tempo né richiedeva un commissario del governo. Le buone leggi, i vantaggi sensibili che un nuovo governo giusto ed umano procura ai popoli, le parole di pochi e saggi cittadini, che, vivendo senz’ambizione nel seno delle loro famiglie, rendonsi per le loro virtú degni dell’amore e della confidenza dei loro simili, avrebbero fatto quello che il governo da sé né dovea tentare né potea sperare. Quando voi volete produrre una rivoluzione, avete bisogno di partigiani; ma, quando volete sostenere o menare avanti una rivoluzione giá fatta, avete bisogno di guadagnare i nemici e gl’indifferenti. Per produrre la rivoluzione, avete bisogno della guerra, che sol colle sètte si produce; per sostenerla, avete bisogno della pace, che nasce dall’estinzione di ogni studio di parti. A persuadere il popolo sono meno atti, perché piú sospetti, i partigiani che gl’indifferenti. Quindi è che, in una rivoluzione passiva, voi dovete far piú conto di coloro che non sono dalla vostra che di quelli che giá ci sono; e, siccome fu un errore e l’istituzione della commissione censoria e la prima pratica seguíta per la formazione della guardia nazionale, perché tendevano a ristringer le cose tra coloro soli che eran dichiarati per la buona causa, cosí fu anche un errore, e fu frequente presso di noi, l’impiegare colui che volontariamente si offeriva, in preferenza di colui che volea esser richiesto, ed il servirsi dell’opera dei giovani anziché di quella degli uomini maturi. Non quelli che con facilitá, ma bensí che con difficoltá guadagnar si possono, sono coloro che piú vagliono sugli animi del popolo. I giovani non vi mancano mai nella rivoluzione; Russo li credeva perciò piú atti alla medesima: se egli con ciò volea intendere che erano piú atti a produrla, avea ragione; se poi credeva che fossero perciò piú atti a sostenerla, s’ingannava. I giovani possono molto ove vi è bisogno di moto, non dove vi è bisogno di opinione. Giovanetti inesperti, che non aveano veruna pratica del mondo, inondarono le province con una «carta di democratizzazione», che Bisceglia, allora membro del comitato centrale, concedeva a chiunque la dimandava. Essi non erano accompagnati da verun nome; fortunati quando non erano preceduti da uno poco decoroso! Non aveano veruna istruzione del governo: ciascuno operava nel suo paese secondo le proprie idee; ciascuno credette che la riforma dovesse esser quella che egli desiderava: chi fece la guerra ai pregiudizi, chi ai semplici e severi costumi dei provinciali, che chiamò «rozzezze»: s’incominciò dal disprezzare quella stessa nazione che si dovea elevare all’energia repubblicana, parlandole troppo altamente di una nazione straniera, che non ancora conosceva se non perché era stata vincitrice; si urtò tutto ciò che i popoli hanno di piú sacro, i loro dèi, i loro costumi, il loro nome. Non mancò qualche malversazione, non mancò qualche abuso di novella autoritá, che risvegliava gli spiriti di partito, non mai estinguibili tra le famiglie principali dei piccioli paesi. Gli animi s’inasprirono. Il secondo governo vide il male che nasceva dall’errore del primo: Abamonti specialmente richiamò quanti ne potette di questi tali democratizzatori. Ma il male era giá troppo inoltrato; il vincolo sociale dei dipartimenti erasi giá rotto, poiché si era giá tolta l’uniformitá della legge e la riunione delle forze: non mancava che un passo per la guerra civile, ed infatti poco tardò a scoppiare. Come no? Una popolazione scosse il giogo del giovanetto; le altre la seguirono: le popolazioni che eran repubblicane, cioè che aveano avuta la fortuna di non aver democratizzatori o di averli avuti savi si armarono contro le insorgenti. Ma queste aveano idee comuni, poiché quelle dell’antico governo eran comuni a tutte; s’intendevano tra loro; le loro operazioni erano concertate. Nessuno di questi vantaggi avevano le popolazioni repubblicane. Le antiche autoritá costituite, che conservavano tuttavia molto potere, erano, almeno in segreto, per le prime. Qual meraviglia se, dopo qualche tempo, le popolazioni insorgenti, sebbene sulle prime minori di numero e di forze, oppressero le repubblicane? Si volle tenere una strada opposta a quella della natura. Questa forma le sue operazioni in getto, ed il disegno del tutto precede sempre l’esecuzione delle parti: da noi si vollero fare le parti prima che si fosse fatto il disegno.
CAPITOLO XXXII
SPEDIZIONE CONTRO GL’INSORGENTI DI PUGLIA
La nazione napolitana non era piú una: il suo territorio si potea dividere in democratico ed insorgente. Ardeva l’insorgenza negli Apruzzi e comunicava con quella di Sora e di Castelforte. Queste insorgenze si doveano in gran parte all’inavvertenza ed al picciol numero dei francesi, i quali, spingendo sempre innanzi le loro conquiste né avendo truppa sufficiente da lasciarne dietro, non pensarono ad organizzarvi un governo. Che vi lasciarono dunque? L’anarchia. Questa non è possibile che duri piú di cinque giorni. Che ne dovea avvenire? Dopo qualche giorno, dovea sorgere un ordine di cose, il quale si accostasse piú all’antico governo, che i popoli sapeano, piuttosto che al nuovo, che essi ignoravano; e l’idea dei nuovi conquistatori dovea associarsi negli animi loro alla memoria di tutti i mali che avea prodotti l’anarchia. Il cardinal Ruffo, il quale ai primi giorni di febbraio avea occupata la Calabria dalla parte di Sicilia, spingeva un’altra insorgenza verso il settentrione e veniva a riunirsi alle altre insorgenze in Matera. Il governo troppo tardi avea spedito nelle Calabrie due commissari, tali appunto quali gli abitanti non gli voleano: per che, senza forze, erano stati costretti a fuggire, e fu fortunato chi salvò la vita. Monteleone, ricca e popolata cittá, ripiena di spirito repubblicano, avea opposta una resistenza ostinata a Ruffo; ma, sola, senza comunicazione, era stata costretta a cedere. E nello stesso modo cedettero tutte le altre popolazioni di Calabria. Tutte le popolazioni repubblicane delle altre province, isolate, circondate, premute da per tutto dagl’insorgenti, si vedevano minacciate dello stesso destino. Si aggiungeva a ciò che le popolazioni insorgenti saccheggiavano, manomettevano tutto; le popolazioni repubblicane erano virtuose. Ma, quando, per effetto dei partiti, gli scellerati non si possono tenere a freno, essi si dánno a quel partito i di cui princípi sono piú conformi ai loro propri, e forzano, per cosí dire, gli dèi a non essere per quella causa che approva Catone. Si vollero distruggere le insorgenze della Puglia e della Calabria come le piú pericolose, come le piú lontane e le piú difficili a vincere, perché le piú vicine alla Sicilia. Partirono da Napoli due picciole colonne, una francese, che prese il cammino di Puglia, l’altra di napolitani, comandata da Schipani, che prese quello di Calabria per Salerno. Ma la colonna di Puglia dovea anch’essa per l’Adriatico ed il Ionio passar nella Calabria e riunirsi alla colonna di Schipani. Il comandante della colonna francese, aiutato dai patrioti e soldati che conduceva Ettore Carafa e dai patrioti di Foggia, distrusse la formidabile insorgenza di Sansevero; indi, spingendosi piú oltre, prese Andria e poi Trani, e fu egli che distrusse l’armata dei còrsi nelle vicinanze di Casamassima. Ma egli abusò della sua forza. Prese settemila ducati che trasportava il corriere pubblico, e che avrebbero dovuti esser sagri; e, quando gliene fu chiesto conto, non potette dimostrare che essi erano degl’insorgenti. Il troppo zelo di punir questi forsi lo ingannò! Non seppe distinguere gli amici dagl’inimici, ed, ove si trattava d’imposizioni, la condizione dei primi non fu migliore di quella dei secondi. Bari, in una provincia tutta insorta, avea fatti prodigi per difendersi. Quando egli vi giunse, dovette liberarla da un assedio strettissimo, che sosteneva da quarantacinque giorni: vi entra e, come se fosse una cittá nemica, le impone una contribuzione di quarantamila ducati. La stessa condotta tenne in Conversano, cui, ad onta di esser stata assediata dagl’insorgenti, impose la contribuzione di ottomila ducati. Nella provincia di Bari non vi restò un paio di fibbie d’argento. Tutto fu dato per pagar le contribuzioni imposte. Le prime armi di una rivoluzione virtuosa doveano esser la prudenza e la giustizia; ed i nostri traviati fratelli meritavano piú di esser corretti che distrutti. Facendo altrimenti, si credevano vinti, mentre non erano che fugati. Trani fu saccheggiata; questa bella, popolosa e ricca cittá fu distrutta; ma gl’insorgenti di Trani rimanevano ancora: essi, all’avvicinarsi dei francesi, si erano tutt’imbarcati, pronti a ritornare piú feroci, tosto che i francesi avessero abbandonate le loro case. Lo dirò io? Le tante vittorie ottenute contro gl’insorgenti hanno distrutti piú uomini da bene che scellerati. Questi, consci del loro delitto, pensano sempre per tempo alla loro salvezza. L’uomo dabbene è còlto all’improvviso ed inerme: la sua casa è saccheggiata del pari e forse anche prima di quella dell’insorgente, perché l’uomo dabbene è quasi sempre il piú ricco, e, quando l’insorgente ritorna, lo ritrova disgustato di colui da cui ha sofferto il saccheggio. Un buon governo vuole esser forte ma non crudele, severo ma non terrorista. Le insorgenze di Napoli si poteano ridurre a calcolo. Pochi erano i punti centrali delle medesime, e chiunque conosceva i luoghi vedeva essere quegl’istessi che nell’antico governo erano ripieni di uomini i piú oziosi e piú corrotti e, per tal ragione, piú miserabili e piú facinorosi. Nei luoghi dove in tempo del re vi eran piú ladri, contrabbandieri ed altra simile genia, in tempo della repubblica vi furono piú insorgenti. Erano luoghi d’insorgenza Atina, Isernia, Longano, le colonie albanesi del Sannio, Sansevero, ecc. Nei luoghi ove la gente era industriosa ed, in conseguenza, agiata e ben costumata, si potea scommettere cento contro uno che vi sarebbe stata una eterna tranquillitá. I primi motori dell’insorgenza furon coloro che avean tutto perduto colla ruina dell’antico governo, e che nulla speravano dal nuovo: se questi furon molti, gran parte della colpa ne fu del governo istesso, che non seppe far loro nulla sperare, e che fece temere che il governo repubblicano fosse una fazione. Eppure la repubblica avea tanto da dare, che era pericolosa follia credere di poter sempre dare ai repubblicani! Grandi strumenti di controrivoluzione furono tutte le milizie dei tribunali provinciali, tutti gli armigeri dei baroni, tutt’i soldati veterani che il nuovo ordine di cose avea lasciati senza pane, tutti gli assassini che correvano con trasporto dietro un’insorgenza, la quale dava loro occasione di poter continuare i loro furti e quasi di nobilitarli. Luoghi di grande insorgenza furono perciò quasi tutte le centrali delle province, come Lecce, Matera, Aquila, Trani, dove la residenza delle autoritá provinciali, delle loro forze e di quanto nelle province eravi di scellerati, che ivi si trovavano in carcere e che, nell’anarchia che accompagnò il cangiamento del governo, furono tutti scapolati, riuniva piú malcontenti e piú facinorosi. Costoro strascinarono tutti gli altri esseri pacifici e meramente passivi, intimoriti egualmente dall’audacia dei briganti e dalla debolezza del governo nuovo. Contro tali insorgenze non vale tanto una spedizione militare che distrugga, quanto una forza sedentaria che conservi: gl’insorgenti fuggivano alla vista di un esercito: tostoché l’esercito era passato, una picciola forza, ma permanente, loro avrebbe impedito di riunirsi e di agire. Il soldato non soffre le stazioni: brama la guerra ed ama che il nemico si renda forte a segno di meritare una spedizione, onde aver l’occasione di misurarsi, la gloria di vincerlo ed il piacere di spogliarlo. Il comandante francese padrone di Trani fu chiamato da Palomba, commissario del dipartimento della Lucania, perché marciasse sopra Matera ad impedire che vi si formasse un’insorgenza, che potea divenir pericolosa per quel dipartimento. Ma, Matera non essendo ancora rivoltata, non vi andò, perché non avrebbe potuto farla saccheggiare. E, quando, premurato dalle reiterate istanze di Palomba, s’incaminò con tutte le forze che aveva, fu richiamato in Napoli. L’insorgenza, che in Matera era tutta pronta e solo compressa dal timore della vicinanza delle forze superiori, quando queste furono lontane, scoppiò e si riuní a quella della Calabria. Ma perché non marciò Palomba istesso colle sue forze sopra Matera? Perché Palomba, come commissario, non avea saputo trovare i mezzi di riunirle e di sostenerle; perché il suo generale Mastrangiolo tutt’altro era che generale. Caldi ambidue del piú puro zelo repubblicano, colle piú pure intenzioni, ma privi di quella pubblica opinione, che sola riunisce le forze altrui alle nostre, e di quel consiglio, senza di cui non vagliono mai nulla né le forze nostre né le altrui, tutti e due non sapeano far altro che gridare «Viva la repubblica!», ed intanto aspettare che i francesi la fondassero, come se fosse possibile fondare una repubblica colle forze di un’altra nazione! Nel dipartimento il piú democratico della terra, colle forze imponenti di Altamura, di Avigliano, di Potenza, di Muro, di Tito, Picerno, Santofele, ecc. ecc., Mastrangiolo perdette il suo tempo nell’indolenza. I bravi uffiziali, che aveva attorno, lo avvertirono invano del pericolo che lo premeva: l’insorgenza crebbe e lo costrinse a fuggire.
CAPITOLO XXXIII
SPEDIZIONE DI SCHIPANI
Schipani rassomiglia Cleone di Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del piú caldo zelo per la rivoluzione, attissimo a far sulle scene il protagonista in una tragedia di Bruto, fu eletto comandante di una spedizione destinata a passar nelle Calabrie, cioè nelle due province le piú difficili a ridursi ed a governarsi per l’asprezza dei siti e per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica. Schipani marcia: prende Rocca di Aspide, prende Sicignano. A Castelluccia trova della gente riunita e fortificata in una terra posta sulla cima di un monte di difficilissimo accesso. Vi erano però mille strade per ridurla. Castelluccia era una picciola terra, che potea senza pericolo lasciarsi dietro. Egli dovea marciare diritto alle Calabrie, ove eranvi diecimila patrioti che lo attendevano; ove Ruffo non era ancora molto forte, ed andava tentando appena una controrivoluzione, di cui forse egli stesso disperava; e, discacciato una volta Ruffo, tutte le insorgenze della parte meridionale della nostra regione andavano a cedere. Ma Schipani non seppe conoscere il nemico che dovea combattere, né seppe, come Scipione, trascurare Annibale per vincere Cartagine. Tutt’i luoghi intorno a Castelluccia erano ripieni di amici della rivoluzione. Campagna, Albanella, Controne, Postiglione, Capaccio, ecc., potevano dare piú di tremila uomini agguerriti: il commissario del Cilento ne avea giá pronti altri quattrocento, ed anche di piú, se avesse voluto, ne avrebbe potuto riunire. Se Schipani avesse avuto piú moderato desiderio di combattere e di vincere, e se prima di distruggere i nemici avesse pensato a rendersi sicuro degli amici, che gli offerivano i loro soccorsi, avrebbe potuto facilmente formare una forza infinitamente superiore a quella che dovea combattere. Avrebbe potuto ridurre Castelluccia per fame, poiché non avea provvisioni che per pochi giorni: avrebbe potuto prenderla circondandola e battendola dalla cima di un monte che la domina; e questo consiglio gli fu suggerito dai cittadini di Albanella e della Rocca, che si offrirono volontari a tale impresa. Qual disgrazia che tal consiglio non sia nato da se stesso nella mente di Schipani! Egli avea un’idea romanzesca della gloria, e riputava viltá il seguire un consiglio che non fosse suo. Questo suo carattere fece sí che ricusasse l’offerta dei castelluccesi, i quali volean rendersi, a condizione però che la truppa non fosse entrata nella terra; e l’altra, offertagli da Sciarpa, capo di tutta quella insorgenza, di voler unire le sue truppe alle truppe della repubblica, purché gli si fosse dato un compenso[1]. Schipani rispose come Goffredo: Guerreggio in Asia, e non vi cambio o merco. Questo stesso carattere gli fece immaginare un piano d’assalto della Castelluccia da quel lato appunto per lo quale il prenderla era impossibile. I nostri fecero prodigi di valore. Il nemico, forte per la sua situazione, distrusse la nostra truppa colle pietre. Schipani fu costretto a ritirarsi; e, cadendo in un momento dall’audacia nella disperazione, la sua ritirata fu quasi una fuga. La spedizione diretta da Schipani dovea esser comandata dal valoroso Pignatelli di Strongoli. È stata una disgrazia per la nostra repubblica che Pignatelli, per malattia sopravvenutagli, non poté allora prestarsi agli ordini del governo ed al desiderio dei buoni. Dopo questa operazione, Schipani fu inviato contro gl’insorgenti di Sarno. Giunse a Palma, incendiò due ritratti del re e della regina, che per caso vi si ritrovarono, arringò al popolo e se ne ritornò indietro. Vi andarono i francesi, saccheggiarono ed incendiarono Lauro, donde tutti gli abitanti erano fuggiti, e non uccisero un solo insorgente. Cosí gl’insorgenti di Lauro e di Sarno, non vinti, ma solo irritati, si unirono a quelli di Castelluccia e delle contrade di Salerno, giá vincitori.
Note
CAPITOLO XXXIV
CONTINUAZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE DELLE PROVINCE
Per una rivoluzione non vi è oggetto piú importante della scelta de’ munícipi. Dipende da essi che la forza del governo sia applicata convenientemente in tutt’i punti; dipende da essi di far amare o far odiare il governo. Il popolo non conosce che il municipe, e giudica da lui di coloro che non conosce. Per eleggere i munícipi in una nazione, la quale giá anche nell’antica costituzione avea un governo municipale, si volle seguire il metodo di un’altra che non conosceva municipalitá prima della rivoluzione; e cosí, mentre si promettevano nuovi diritti al popolo, se gli toglievano gli antichi. Era quasi fatalitá seguire le idee, sebbene indifferenti, de’ nostri liberatori! L’elezione de’ munícipi fu affidata ad un collegio di elettori, che furono scelti dal governo. - Qual è dunque questa libertá e questa sovranitá che ci promettete? - dicevano le popolazioni. - Prima i munícipi erano eletti da noi; abbiam tanto sofferto e tanto conteso per conservarci questo diritto contro i baroni e contro il fisco! Oggi non lo abbiamo piú. Prima i munícipi rendevano conto a noi stessi delle loro operazioni; oggi lo rendono al governo. Noi dunque colla rivoluzione, anziché guadagnare, abbiam perduto? - Si volea spiegar loro il sistema elettorale; si volea far comprendere come continuavano a dirsi eletti da loro quelli che erano eletti dai suoi elettori: ma le popolazioni non credevano né erano obbligate a credere ad una costituzione che ancora non si era pubblicata. Si diceva che gli elettori dovessero un giorno esser eletti dal popolo; ma intanto il popolo vedeva che erano eletti dal governo: il fatto era contrario alla promessa. Quando anche la costituzione fosse stata giá pubblicata, i popoli credevan sempre superfluo formar un corpo elettorale per eleggere coloro che prima in modo piú popolare eleggevano essi stessi, e riputavano sempre perdita il passare dal diritto dell’elezione immediata a quello di una semplice elezione mediata. Ho osservato in quella occasione che le scelte de’ munícipi fatte dal popolo furono meno cattive di quelle fatte dai collegi elettorali, non perché i collegi fossero intenzionati a far il male, ma perché erano nell’impossibilitá di fare il bene, perché non conoscevano le persone che eleggevano e perché spesso eleggevano persone che il popolo non conosceva. Io ripeto sempre lo stesso: nella nostra rivoluzione gli uomini eran buoni, ma gli ordini eran cattivi. Io comprendo l’utilitá di un collegio elettorale dipartimentale, che elegga o proponga que’ magistrati che soprastano alla repubblica intera; ma un collegio dipartimentale che discenda ad eleggere i magistrati municipali mi sembra un’istituzione antilogica, per la quale dalle idee delle specie, invece di risalire a quella del genere, si voglia discendere a quella degl’individui, che debbon precedere l’idea della specie. È vero che in taluni momenti si richieggono negli uomini pubblici molte qualitá che il popolo o non conosce o non apprezza; ma voi, che avete il governo della nazione, sapete molto poco, quando non sapete far sí che l’elezione cada sulle persone degne della vostra confidenza, senza alterare l’apparenza della libertá. Che ne avvenne? I collegi elettorali distrussero le elezioni fatte dal popolo, disgustarono il popolo e gli uomini popolari che il popolo avea eletto. Se il collegio elettorale chiedeva degli uomini probi, questi erano piú noti al popolo, coi quali convivevano, che a sei persone inviate da Napoli, le quali non conoscevano il popolo né erano conosciute dal medesimo; se chiedeva degli uomini utili alla rivoluzione, quali potevano esser mai questi se non quegl’istessi che il popolo amava e che il popolo rispettava? Questa parola «popolo», in tutt’i luoghi ed in tutt’i tempi, altro non dinota che quattro, tre, due e talvolta una sola persona, che, per le sue virtú, pe’ suoi talenti, per le sue maniere, dispone degli animi di una popolazione intera: se non si guadagnano costoro, invano si pretende guadagnare il popolo, e non senza pericolo talora uno si lusinga di averlo guadagnato. Dopo qualche tempo i collegi elettorali furono aboliti; ma non si restituí l’antico diritto alle popolazioni. Si credette male degli uomini il male che nasceva dalle cose. S’inviarono de’ commissari organizzatori, cui si diedero tutte le facoltá del corpo elettorale; si commise ad un solo quel diritto che prima almeno esercitavano sei; e, con ciò, l’esercizio, sebbene fosse piú giusto, parve piú tirannico e piú capriccioso. Diverso sarebbe stato il giudizio del popolo, se questi commissari fossero stati inviati prima. La loro istituzione era piú conforme alla natura, alle antiche idee de’ popoli, ai bisogni della rivoluzione.
CAPITOLO XXXV
MANCANZA DI COMUNICAZIONE
Ma il governo, mentre si occupava della organizzazione apparente, trascurava o, per dir meglio, era costretto a trascurare, la parte piú essenziale dell’organizzazione vera, che consiste nel mantener libera la comunicazione tra le diverse parti di una nazione. Sarebbe stato inescusabile il governo, se questa trascuratezza fosse stata volontaria; ma essa era una conseguenza inevitabile della scarsezza e della non buona direzione delle forze. Se poca forza, ben ripartita, la quale avesse agito continuamente sopra tutt’i punti, o almeno sopra i punti principali, sarebbe stata bastante a prevenire, ad impedire, a togliere ogni male; molta, che agiva per masse e per momenti in un punto solo, non potea produrre che un debole effetto e passeggiero. Le province ignoravano ciò che si ordinava nella capitale; la capitale ignorava ciò che avveniva nelle province. Si crederebbe? Non si pubblicavano neanche le leggi. Due mesi dopo la pubblicazione in Napoli della legge feudale, non fu questa pubblicata in tutto il dipartimento del Volturno, vale a dire nel dipartimento piú vicino; e la legge feudale era tutto nella nostra rivoluzione. Questa legge, che dovea esser nota ai popoli ai quali giovava, fu nota ai soli baroni che offendeva, perché questi soli erano nella capitale. Questa sola circostanza avrebbe di molto accelerata la controrivoluzione, se una parte non piccola della primaria nobiltá non fosse stata per sentimento di virtú attaccata alla repubblica, ad onta de’ non piccoli sacrifici che le costava. Intanto circolavano per i dipartimenti tutte le carte che potevano denigrare il nuovo ordine di cose, e passavano per le mani de’ realisti, i quali accrescevano colle loro insidiose interpretazioni i sospetti che ogni popolo ha per le novitá. Questa mancanza di comunicazione fu quella che favorí l’impostura dei còrsi Boccheciampe e De Cesare nella provincia di Lecce; e di questa profittarono il cardinal Ruffo e tutti gli altri capi sollevatori, e riuscí loro facile il far credere che in Napoli era ritornato il re e che il governo repubblicano erasi sciolto. Essi erano creduti, perché il governo nelle province era muto, né piú si udiva la sua voce. Ruffo dava a credere alle province che fosse estinta la repubblica: il Monitore repubblicano, al contrario, dava a credere alla capitale che fosse morto Ruffo. Ma l’errore di Ruffo spingeva gli uomini all’azione, e quello de’ repubblicani gli addormentava nell’indolenza; ed a Ruffo giovavano egualmente e l’errore de’ realisti e quello de’ repubblicani.
CAPITOLO XXXVI
POLIZIA
I realisti aveano piú libera e piú estesa comunicazione pel nostro territorio che lo stesso governo repubblicano. Le Calabrie erano loro aperte; aperto era tutto il littorale del Mediterraneo da Castelvolturno fino a Mondragone, cosicché gl’insorgenti di quei luoghi erano confortati ed aveano armi e munizioni dagl’inglesi, padroni de’ mari; aperto avea il mare anche Proni[1], che comandava l’insorgenza degli Apruzzi. Tutte queste insorgenze si andavano stringendo intorno Napoli, ed in Napoli stessa aveano delle corrispondenze segrete, che loro davano nuove sicure dell’interna debolezza. Nulla fu tanto trascurato quanto la polizia nella capitale. In primo luogo non si pensò a guadagnar quelle persone che sole potevano mantenerla. La polizia, al pari di ogni altra funzione civile, richiede i suoi agenti opportuni, poiché non tutti conoscono il paese e sanno le vie, per lo piú tortuose ed oscure, che calcano gl’intriganti e gli scellerati. Felice quella nazione ove le idee ed i costumi sono tanto uniformi agli ordini pubblici, che non vi sia bisogno di polizia. Ma, dovunque essa vi è, non è e non deve esser altro che il segreto di saper render utili pochi scellerati, impiegandoli ad osservare e contenere i molti. Ma in Napoli gli scellerati e gl’intriganti furono odiati, perseguitati, abbandonati. I nuovi agenti della polizia repubblicana erano tutti coloro che aveano educazione e morale, perché essi erano quelli che soli amavano la repubblica. Or le congiure si tramavano tra il popolaccio e tra quelli che non aveano né costume né educazione, perché questi soli avea potuto comprar l’oro di Sicilia e d’Inghilterra. Quindi le congiure si tramavano quasi in un paese diverso, di cui gli agenti della polizia non conoscevano né gli abitanti né la lingua; e la morale de’ repubblicani, troppo superiore a quella del popolo, è stata una delle cagioni della nostra ruina. La seconda cagione fu che il gran numero de’ repubblicani si separò soverchio dal popolo; onde ne avvenne che il popolo ebbe sempre dati sicuri per saper da chi guardarsi. Questo fece sí che fosse ben esercitata quella parte della polizia che si occupa della tranquillitá, perché per essa bastava il timore; mal esercitata fu l’altra che invigila sulla sicurezza, perché per essa è necessaria la confidenza. Il popolo, temendo, era tranquillo; ma, diffidando, non parlava: cosí si sapeva ciò che esso faceva e s’ignorava ciò che esso macchinava. I francesi forse temettero piú del dovere un popolo sempre vivo, sempre ciarliero; credettero pericoloso che questo popolo, per necessitá di clima e per abitudine di educazione, prolungasse i suoi divertimenti fino alle ore piú avanzate della notte. Il popolo si vide attraversato nei suoi piaceri, che credeva e che erano innocenti; cadde nella malinconia (stato sempre pericoloso in qualunque popolo e precursore della disperazione; e non vi furono piú quei luoghi dove, tra l’allegrezza e tra il vino, il piú delle volte si scoprono le congiure. Il carattere e le intenzioni dei popoli non si possono conoscere se non se quando essi sono a lor agio: in un popolo oppresso le congiure sono piú frequenti a macchinarsi e piú difficili a scoprirsi. È indubitato che in Napoli erasi ordita una gran congiura, uno dei grandi agenti della quale fu un certo Baccher. Baccher fu arrestato in buon punto: le fila dei congiurati non furono scoperte; ma intanto la congiura rimase priva di effetto.
Note
CAPITOLO XXXVII
PROCIDA - SPEDIZIONE DI CUMA - MARINA
Il primo progetto dei congiurati era quello che gl’inglesi dovessero occupar Ischia e Procida, come difatti l’occuparono, onde aver maggior comoditá di mantenere una corrispondenza in Napoli e di prestare a tempo opportuno la mano alle altre operazioni. Questo inconveniente fu previsto; ma il governo non avea forze sufficienti per custodir Procida: i francesi non compresero il pericolo di perderla. Gl’inglesi, padroni di Procida, tentarono uno sbarco nel littorale opposto di Cuma e Miseno. Un distaccamento di pochi nostri, che occupò il littorale, lo impedí; e la corte di Sicilia dovette piú di una volta fremere per le disfatte dei suoi superbi alleati. Forse sarebbe riuscito anche di discacciarli dall’isola. Ma la nostra marina era stata distrutta dagli ultimi ordini del re; e nei primi giorni della nostra repubblica le spese sempre esorbitanti, che seco porta un nuovo ordine di cose, avean tolto ogni modo di poter far costruire anche una sola barca cannoniera. I pochi e miseri avanzi della marina antica furono per indolenza di amministrazione militare dissipati; e si vide vendere pubblicamente il legno, le corde e finanche i chiodi dell’arsenale. Caracciolo, ritornato dalla Sicilia[1] e restituito alla patria, ci rese le nostre speranze. Caracciolo valeva una flotta. Con pochi, mal atti e mal serviti barconi, Caracciolo osò affrontar gl’inglesi: l’officialitá di marina, tutta la marineria era degna di secondar Caracciolo. Si attacca, si dura in un combattimento ineguale per molte ore; la vittoria si era dichiarata finalmente per noi, che pure eravamo i piú deboli: ma il vento viene a strapparcela dalle mani nel punto della decisione; e Caracciolo è costretto a ritirarsi, lasciando gl’inglesi malconci, e si potrebbe dire anche vinti, se l’unico scopo della vittoria non fosse stato quello di guadagnar Procida. Un altro momento, e Procida forse sarebbe stata occupata. Quante grandi battaglie, che sugl’immensi campi del mare han deciso della sorte degl’imperi, non si possono paragonare a questa picciola azione per l’intelligenza e pel coraggio de’ combattenti! Il vento, che impedí la riconquista di Procida, fu un vero male per noi, perché tratanto i pericoli della patria si accrebbero. Le disgrazie diluviavano: dopo due o tre giorni, si ebbero altri mali a riparare piú urgenti di Procida; e la nostra non divisibile marina fu costretta a difendere il cratere della capitale.
Note
CAPITOLO XXXVIII
IDEE DI TERRORISMO
La storia di una rivoluzione non è tanto storia dei fatti quanto delle idee. Non essendo altro una rivoluzione che l'effetto delle idee comuni di un popolo, colui può dirsi di aver tratto tutto il profitto dalla storia, che a forza di replicate osservazioni sia giunto a saper conoscer il corso delle medesime. Nell’individuo la storia dei fatti è la stessa che la storia delle idee sue, perché egli non può esser in contraddizione con se stesso. Ma, quando le nazioni operano in massa (e questo è il vero caso della rivoluzione), allora vi sono contraddizioni ed uniformitá, simiglianze e dissimiglianze; e da esse appunto dipende il tardo o sollecito, l’infelice o felice evento delle operazioni. La congiura di Baccher, l’occupazione di Procida, i rapidi progressi dell’insorgenza aveano scossi i patrioti, e, nella notte profonda in cui fino a quel punto avean riposati tranquilli sulle parole dei generali francesi e del governo, videro finalmente tutto il pericolo onde erano minacciati. Il primo sentimento di un uomo che sia o che tema di esser offeso è sempre quello della vendetta, la quale, se diventa massima di governo, produce il terrorismo. Il governo napolitano, quantunque composto di persone che tanto avean sofferto per l’ingiusta persecuzione sotto la monarchia, credette viltá vendicarsi, allorché, avendo il sommo potere nelle mani, una vendetta non costava che il volerla. Pagano avea sempre in bocca la bella lettera che Dione scrisse ai suoi nemici allorché rese la libertá a Siracusa, ed il divino tratto di Vespasiano, quando, elevato all’impero, mandò a dire ad un suo nemico che egli ormai non avea piú che temere da lui. Noi incontriamo sempre i nostri governanti, allorché ricerchiamo la morale individuale. Ma molti patrioti accusarono il governo di un «moderantismo» troppo rilasciato, a cui si attribuivano tutt’i mali della repubblica. Siccome in Francia al «terrorismo» era succeduta una rilasciatezza letargica e fatale di tutt’i princípi, cosí il terrorismo era rimasto quasi in appannaggio alle anime piú ardentemente patriotiche. Forse ciò avvenne anche perché il cuore umano mette l’idea di una certa nobiltá nel sostenere un partito oppresso, per vendicarsi cosí del partito trionfante che invidia: forse in Napoli si eran vedute salve talune persone, che la giustizia, la pubblica opinione, la salute pubblica voleano distrutte o almeno allontanate. Ma vi era un mezzo saggio tra i due estremi. Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall’esser diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che, non sapendo render gli uomini migliori, si tolgono l’imbarazzo che dánno i cattivi, distruggendo indistintamente cattivi e buoni. Il terrorismo lusinga l’orgoglio, perché è piú vicino all’impero; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perché è molto facile. Ma richiede sempre la forza con sé: ove questa non vi sia, voi non farete che accelerare la vostra ruina. Tale era lo stato di Napoli. In Napoli le prime leggi marziali de’ generali in capo erano terroristiche, perché tali son sempre e tali forse debbono essere le leggi di guerra: esse non poteano produrre e non produssero alcuno effetto, imperocché come eseguite voi la legge, come l’applicate, quando tutta la nazione è congiurata a nascondervi i fatti e salvare i rei? Robespierre avea la nazione intera esecutrice del terrorismo suo. Quando le pene non sono livellate alle idee de’ popoli, l’eccesso stesso della pena ne rende piú difficile l’esecuzione e, per renderle piú efficaci, convien renderle piú miti. Negli ultimi tempi si eresse in Napoli un «tribunale rivoluzionario», il quale procedeva cogli stessi princípi e colla stessa tessitura di processo del terribile comitato di Robespierre. Forse quando si eresse era troppo tardi, ed altro non fece che tingersi inutilmente del sangue degli scellerati Baccher nell’ultimo giorno della nostra esistenza civile, quando la prudenza consigliava un perdono, che non potea esser piú dannoso. Ma, quand’anche un tal tribunale si fosse eretto prima, la legge stessa, colla quale se ne ordinava l’erezione, sarebbe stato un avviso alla nazione perché si fosse posta in guardia contro il tribunale eretto. Il terrorismo cogl’insorgenti si provò sempre inutile. «E che? - scrivea la saggia e sventurata Pimentel - quando un metodo di cura non riesce, non se ne saprá tentare un altro?». Difatti si accordò un’amnistia agl’insorgenti: non a tutti, perché sarebbe stata inutile; ma a coloro che il governo ne avesse creduti degni, onde cosí ciascuno si fosse affrettato a meritarla, e questo desiderio avesse fatto nascere il sospetto e la divisione tra tutti. Ma tale perdono dovea farsi valere per mezzo di persone sagge ed energiche, le quali avessero potuto penetrare ed eseguire gli ordini del governo in tutt’i punti del nostro territorio. Io lo ripeto: la mancanza delle comunicazioni tra le diverse parti dello Stato e la mancanza delle forze diffuse in molti punti per mantener tale comunicazione, la mancanza a buon conto della diligenza e della severitá erano l’origine di tutti i nostri mali e facevan credere necessario ad alcuni un terrorismo, il quale non avrebbe fatto altro che accrescerli.
CAPITOLO XXXIX
NUOVO GOVERNO COSTITUZIONALE
Forse con piú ragione domandavano i patrioti la riforma del governo. Tralasciando i motivi privati, che spingevano taluni a declamare piú di quello che conveniva, era sicuro però che si voleva una riforma. Abrial finalmente giunse commissario organizzatore del nostro Stato, e si accinse a farla. Ma vi erano nell’antico governo molti che godevano la pubblica confidenza, o perché la meritassero, o perché l’avessero usurpata; e questi secondi (pochissimi per altro di numero) erano, come sempre suole avvenire, piú accetti, piú illustri de’ primi, perché le lodi che loro si davano non rimanevano senza premio. - Questi sono i primi che io toglierei - diceva acutamente, ma invano, in una societá patriotica il cittadino Mazziotti. Un governo formato da un’assemblea si riduce a cinque o sei teste, le quali dispongono delle altre: se queste rimangono, voi inutilmente cangiate tutta l’assemblea. Le intenzioni di Abrial erano rette: Abrial fu quello che piú sinceramente amava la nostra felicitá e quello di cui piú la nazione è rimasta contenta. Le sue scelte furono molto migliori delle prime; e, se non furono tutte ottime, non fu certo sua colpa, poiché né poteva conoscere il paese in un momento, né vi dimorò tanto tempo quanto era necessario a conoscerlo. Abrial divise i poteri che Championnet avea riuniti. Il governo da lui formato fu il seguente: nella commissione esecutiva, Abamonti; Agnese, napolitano, ma che aveva dimorato da trent’anni in Francia, ove avea i beni e famiglia; Albanese; Ciaia; Delfico, il quale non potette per le insorgenze di Apruzzo mai venire in Napoli. I ministri furono: 1° dell’interno, De Filippis; 2° di giustizia e polizia, Pigliacelli; 3° di guerra, marina ed affari esteri, Manthoné; 4° di finanze, Macedonio. Tra i membri della commissione legislativa vi furono sempre Pagano, Cirillo, Galanti, Signorelli, Scotti, De Tommasi, Colangelo, Coletti, Magliani, Gambale, Marchetti... Gli altri si cambiarono spesso, e noi non li riferiremo; tanto piú che, nello stato in cui era allora la nostra nazione, poco potea il potere legislativo, e tutto il bene e tutto il male dipendeva dall’esecutivo. Con ciò Abrial volle darci la forma della costituzione prima di avere una costituzione, e con ciò rese i poteri inattivi, e discordi i poteri dei cittadini. Questo involontario errore fu cagione di non piccoli mali, perché la divisione de’ poteri ci diede la debolezza nelle operazioni in un tempo appunto in cui avevamo bisogno dell’unitá e dell’energia di un dittatore; ch’egli per altro non poteva darci, perché, incaricato di eseguire le istruzioni del Direttorio francese, avrebbe ben potuto modificare in parte gli ordini che si trovavano in Francia stabiliti, ma non mai cangiarli intieramente. Talché tutti i fatti ci conducono sempre all’idea, la quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu sbagliata, ed i migliori architetti non potevano innalzar edifizio che fosse durevole.
CAPITOLO XL
SALE PATRIOTICHE
Taluni credevano che col mezzo delle sale patriotiche si potesse «attivare» la rivoluzione; e furono perciò stabilite. Ma come mai ciò si potea sperare? Io non veggo altro modo di attivare una rivoluzione che quello d’indurci il popolo: se la rivoluzione è attiva, il popolo si unisce ai rivoluzionari; se è passiva, convien che i rivoluzionari si uniscano al popolo, e, per unirvisi, convien che si distinguano il meno che sia possibile. Le sale patriotiche, e nell’uno e nell’altro caso, debbono essere le piazze. Qual bene hanno mai esse prodotto in Francia? Hanno, direbbe Macchiavelli, fatto degenerare in sètte lo spirito di partito, che sempre vi è nelle repubbliche, e, come sempre suole avvenire, hanno spinto i princípi agli estremi, hanno fatto cangiar tre volte la costituzione, hanno a buon conto ritardata l’opera della rivoluzione e forse l’hanno distrutta. Senza societá patriotiche, le altre nazioni di Europa aveano dirette le loro rivoluzioni con princípi piú saggi ad un fine piú felice. Ma l’abuso delle sale per attivare la rivoluzione dipendeva da un principio anche piú lontano. L’oggetto della democrazia è l’eguaglianza; e, siccome in ogni societá vi è una disuguaglianza sensibilissima tra le varie classi che la compongono, cosí si giunge al governo regolare o abbassando gli ottimati al popolo, o innalzando il popolo agli ottimati. Ma, siccome gli ottimati, insieme coi diritti e colle ricchezze, hanno ancora princípi e costumi, cosí, quando le cose si spingono all’estremo, non solo si sforzano a cedere i loro diritti e divider le loro ricchezze (il che sarebbe giusto), ma anche a rinunciare ai loro costumi. Si volea fraternizzare col popolo, e per «fraternizzare» s’intendeva prendere i vizi del popolaccio, prender le sue maniere ed i suoi costumi; mezzi che possono talora riuscire in una rivoluzione attiva, in cui il popolo, in grazia dello spirito di partito, perdona l’indecenza, ma non mai in una rivoluzione passiva, in cui il popolo, libero da passioni tumultuose, è piú retto giudice del buono e dell’onesto. Doveasi perciò disprezzare il popolo? No, ma bastava amarlo per esserne amato, distruggere i gradi per non disprezzarlo, e conservar l’educazione per esserne stimato e per poter fargli del bene[1]. Ammirabile e fortunata è stata per questo la repubblica romana, in cui i patrizi, mentre cedevano ai loro diritti, forzavano il popolo ad amarli ed a rispettarli pei loro talenti e per le loro virtú: il popolo cosí divenne libero e migliore. Nella repubblica fiorentina tutte le rivoluzioni erano dirette da quella «fraternizzazione», che s’intendeva in Firenze come s’intese un tratto in Francia; e perciò la repubblica fiorentina ondeggiò tra perpetue rivoluzioni, sempre agitata e non mai felice: il popolo, o presto o tardi, si annoiava dei conduttori, che non aveano ottenuto il suo favore se non perché si erano avviliti, ed, annoiato dei suoi capi, si annoiava del governo, ch’esso di rado conosce per altro che per l’idea che ha di coloro che governano[2]. Si condussero taluni lazzaroni del Mercato nelle sale; ma questi erano per lo piú comperati e, come è facile ad intendersi, non servivano che a discreditare maggiormente la rivoluzione. Non sempre, anzi quasi mai, l’uomo del popolo è l’uomo popolare. Le sale patriotiche attivavano la rivoluzione, attirando una folla di oziosi, che vi correva a consumar cosí quella vita di cui non sapeva far uso. I giovani sopra tutti corrono sempre ove è moto, e ripetono semplici tutto ciò che loro si fa dire. Intanto pochi abili ambiziosi si prevalgono del nome di conduttori e di moderatori di sale per acquistarsi un merito; e questo merito appunto, perché troppo facile, perché inutile alla nazione, un governo saggio non deve permettere o (ciò che val lo stesso) non deve curare: senza di ciò, i faziosi se ne prevaleranno per oscurare, per avvilire, per opprimere il merito reale. Taluni buoni, i quali vedevano l’abuso che delle sale si potea fare, credettero bene di opporre una sala all’altra e, se fosse stato possibile, riunirle tutte a quella ove lo spirito fosse piú puro ed i princípi fossero piú retti; ed il desiderio della medicina fu tanto, che si credette poter aver la salute dallo stesso male. Ma io lo ripeto: quando l’istituzione è cattiva, rende inutili gli uomini buoni, perché o li corrompe o li fa servire, illusi dall’apparenza del bene, ai disegni dei cattivi. «I vostri maggiori - diceva il console Postumio al popolo di Roma - vollero che, fuori del caso che il vessillo elevato sul Tarpeio v’invitasse alla coscrizione di un esercito, o i tribuni indicessero un concilio alla plebe, o talun altro dei magistrati convocasse tutto il popolo alla concione, voi non vi dobbiate riunir cosí alla ventura ed a capriccio: essi credevano che, dovunque vi fosse moltitudine, ivi esser vi dovesse un legittimo rettore della medesima». In Francia le societá popolari, rese costituzionali da Robespierre, che avea quasi voluto render costituzionale l’anarchia, o non produssero sulle prime molti mali, o i mali che produssero non si avvertirono, perché, quando una nazione soffre moltissimi mali, spesso un male serve di rimedio all’altro. In Napoli, dove, per la natura della rivoluzione, le sale erano meno necessarie, si corruppero piú sollecitamente[3]. Chi è veramente patriota non perde il suo tempo a ciarlare nelle sale; ma vola a battersi in faccia all’inimico, adempie ai doveri di magistrato, procura rendersi utile alla patria coltivando il suo spirito ed il suo cuore: voi lo ritrovate ov’è il bisogno della patria, non dove la folla lo chiama; e, quando non ha verun dovere di cittadino da adempire, ha quelli di uomo, di padre, di marito, di figlio, di amico. Il governo non lo vede; ma guai a lui se non sa riconoscerlo e ritrovarlo! Il solo governo buono è quello agli occhi del quale ogni altro uomo non si può confondere con questo, né può usurpare la stima che se gli deve, se non facendo lo stesso; per cui la prima parte di un ottimo governo è quella di far sí che non vi sieno altre classi, altre divisioni che quelle della virtú, ed evitare a quest’oggetto tutte le istituzioni che potrebbero riunire i virtuosi a coloro che non lo sono, tutti i nomi finanche che potessero confonderli. Io non confondo colle sale patriotiche quei «circoli d’istruzione», ove la gioventú va ad istruirsi, a prepararsi al maneggio negli affari, ad ascoltare le parole dei vecchi ed accendersi di emulazione ai loro esempi, a rendersi utile ai loro simili ed acquistare dai suoi coetanei quella stima che un giorno meriterá dalla patria e dal governo. In Napoli se ne era aperto uno, e con felici auspíci: il suo spirito era quello di proporre varie opere di beneficenza che si esercitavano in favore del popolo: si soccorsero indigenti, si prestarono senza mercede all’infima classe del popolo i soccorsi della medicina e dell’ostetricia. Questa era l’istituzione che avrebbe dovuto perfezionarsi e moltiplicarsi[4].
Note
CAPITOLO XLI
COSTITUZIONE - ALTRE LEGGI
Tali erano le idee del popolo. Le cure della repubblica erano ormai divise da che si eran divisi i poteri; e la commissione legislativa, sgravata dalle cure del governo, si era tutta occupata della costituzione, il di cui progetto, formato dal nostro Pagano, era giá compíto. Ma di questo si dará giudizio altrove, come di cosa che, non essendosi né pubblicata né eseguita, niuna parte occupa negli avvenimenti della nostra repubblica. Altri bisogni piú urgenti richiamavano l’attenzione della commissione legislativa. Volle occuparsi a riparare al disordine dei banchi. Fin dai primi giorni della rivoluzione, la prima cura del governo fu di rassicurare la nazione, incerta ed agitata per la sorte del debito dei banchi, da cui pendeva la sorte di un terzo della nazione. Un tal debito fu dichiarato debito nazionale. Tale operazione fu da taluni lodata, da altri biasimata, secondo che si riguardava piú il vantaggio o la difficoltá dell’impresa: tutti però convenivano che una semplice promessa potea tutt’al piú calmare per un momento la nazione, ma che essa sarebbe poi divenuta doppiamente pericolosa, quando non si fossero ritrovati i mezzi di adempirla. Allora tutta la vergogna e l’odiositá di un fallimento sarebbe ricaduta sul nuovo governo, e si sarebbe intanto perduto il solo momento favorevole, quale era quello di una rivoluzione, in cui la colpa e l’odio del male si avrebbe potuto rivolgere contro il re fuggito, e gli uomini l’avrebbero piú pazientemente tollerato, come uno di quegli avvenimenti inseparabili dal rovescio di un impero, effetto piú del corso irresistibile delle cose che della scelleraggine de’ governanti. Cosí il governo non fece allora che una promessa, e rimaneva ancora a far la legge. Ma, quando volle occuparsi della legge, non era forse il tempo opportuno. La nazione era oppressa da mille mali, le opinioni erano vacillanti, tutto era inquietezza ed agitazione. In tale stato di cose il far delle leggi utili e forti è ottimo consiglio: sgravasi cosí la somma de’ mali che opprimono il popolo e si scema il motivo del malcontento; il farne delle inutili e delle inefficaci è pericoloso, perché al malcontento, che giá si soffre per il male, l’inutilitá del rimedio aggiunge la disperazione. Se non potete fare il bene, non fate nulla: il popolo si lagnerá del male e non del medico. La commissione legislativa altro non fece (e, per dire il vero, allora che potea far di piú?) che rinnovare per i beni, ch’eran divenuti nazionali, quella ipoteca che giá il re avea accordata sugli stessi beni, quando erano regi. Gli esempi passati poteano far comprendere che questa operazione sola era inutile. Questi beni non poteano mai esser in commercio, perché riuniti in masse immense in pochi punti del territorio napolitano; ed i possessori delle carte monetate erano molti, divisi in tutt’i punti e non voleano fare acquisti immensi e lontani. Quando furono esposti in vendita, in tempo del re, i fondi ecclesiastici, i quali non aveano questo inconveniente, si ritrovarono piú facilmente i compratori. Si aggiungeva a ciò l’incertezza della durata della repubblica, la quale alienava maggiormente gli animi dei compratori; l’incertezza della sorte dei beni che davansi in ipoteca, quasi contesi tra la nazione ed il francese: per eseguir le vendite in tanti pericoli, conveniva offerire ai compratori vantaggi immensi, e cosí tutt’i fondi nazionali non sarebbero stati sufficienti a soddisfare una picciola parte del debito pubblico[1]. Il debito nazionale in Napoli non era tale che non si avesse potuto soddisfare. Era piú incomodo che gravoso. Conveniva una piú regolata amministrazione, e questa vi fu[2]: infatti, in cinque mesi di repubblica, il governo, colle rendite di sole due province, tolse dalla circolazione un milione e mezzo di carte. Con tanta moralitá nel governo, si potea far quasi a meno della legge per un male che si avrebbe potuto forsi guarire col solo fatto, e che si sarebbe guarito senza dubbio, se le circostanze interne ed esterne della nazione fossero state meno infelici. Ma conveniva, nel tempo istesso, che tutta la nazione avesse soddisfatto il debito nazionale; conveniva che questo debito avesse toccato la nazione in tutt’i punti; e, dove prima gravitava solo sulla circolazione, si fosse sofferto in parte dall’agricoltura e dalla proprietá: cosí il debito, diviso in tanti, diveniva leggiero a ciascuno. La nazione napolitana è una nazione agricola. In tali nazioni la circolazione è sempre piú languida che nelle nazioni manifatturiere o commercianti; ed il danaro, o presto o tardi, va a colare, senza ritorno, nelle mani dei possessori dei fondi. Difatti in Napoli, e specialmente nelle province, non mancava il danaro: ma questo danaro era accumulato in poche mani, mentreché per la circolazione non vi erano che carte. Conveniva attivare tutta la nazione, ed offerire ai proprietari di fondi delle occasioni di spendere quel danaro che tenevano inutilmente accumulato. Conveniva... Ma io non iscrivo un trattato di finanze: scrivo solo ciò che può far conoscere la mia nazione.
Note
CAPITOLO XLII
ABOLIZIONE DEL TESTATICO, DELLA GABELLA DELLA FARINA E DEL PESCE
Per giudicare rettamente di un legislatore, conviene che ei sia indipendente; per far che le sue leggi abbiano tutto l’effetto, conviene che egli sia libero. Quando o altri uomini o le cose tendono a frenare i suoi pensieri e le sue mani, quando la sovranitá è divisa, pretenderete invano veder quel legislatore, nelle di cui mani è il cuore delle nazioni: i consigli son timidi, le misure mezzane; tra l’imperiosa necessitá e l’occasione precipitosa, spesso il miglior consiglio non è quello che si può seguire, o solo si segue quando l’occasione è giá passata, e di tutte le operazioni voi altro non potete rilevare che la puritá del cuore e la rettitudine dei suoi pensieri. Cosí, non altrimenti che la legge sui banchi, riuscirono inutili quasi tutte le altre leggi immaginate per isgravare i popoli dai pesi che nell’antico governo sofferiva. Io non ne eccettuo che la sola legge colla quale si abolí la gabella del pesce; legge che produsse un effetto immediato, e trasse alla repubblica gli animi di quasi tutti i marinai ed i pescatori della capitale. Quando si abolí la gabella sulla farina, non si ottenne l’intento di far ribassare il prezzo de’ grani in Napoli, dove, per le insorgenze che aveano giá chiuse tutte le strade delle province, non potevano ivi piú entrar grani nuovi, e quei che esistevano erano pochi ed avean giá pagato il dazio. Il popolo napolitano disse allora: che «la gabella si era tolta quando non vi era piú farina». Dal 1764 era in Napoli molto cresciuto il prezzo del grano; e, sebbene questo aumento fosse in parte effetto della maggior ricchezza della nazione, non si poteva però mettere in controversia che l’aumento del prezzo degli altri generi non era proporzionato all’aumento di quello del grano[1]. Questo non era alterato, quando si paragonava al prezzo del grano nelle altre nazioni di Europa; ma era alteratissimo, allorché si paragonava al prezzo degli altri generi presso la stessa nazione napolitana. Tutto il male nasceva da che l’industria, ed in conseguenza la ricchezza, non si era risvegliata e diffusa equabilmente sopra tutt’i generi ed in tutte le persone. Il male era tollerabile nelle province, ma insoffribile nella capitale, non perché il grano mancasse, non perché il prezzo ne fosse molto piú caro che nelle province; ma perché Napoli conteneva un numero immenso di renditieri, di oziosi o di persone che, senza essere oziose, nulla producevano e che non partecipavano dell’aumento dell’industria e della ricchezza nazionale. Per rendere il popolo napolitano contento sull’articolo del pane, o conveniva migliorarlo e renderlo cosí piú attivo e piú ricco, o conveniva render piú misere le province: la prima operazione avrebbe reso il popolo napolitano contento dei nuovi prezzi; la seconda avrebbe fatto ritornar gli antichi[2]. La sola abolizione della gabella era nella capitale un’operazione piú pomposa che utile. Guardiamola nelle province. Essa dovette esser inutile in quei luoghi nei quali non si pagava, e questi formavano il numero maggiore; in quelli nei quali si pagava, dovette riuscire piuttosto dannosa. Il ritratto della gabella serviva a pagare le pubbliche imposizioni: proibir quella e pretender queste era un contradditorio; rinunciare a queste era impossibile tra i tanti urgentissimi bisogni dai quali era allora il governo premuto; obbligare le popolazioni a sostituire all’antico metodo un nuovo, ed obbligarle a sostituirlo di loro autoritá (giacché colla legge non si era preveduto questo caso), era pericoloso in un tempo in cui lo spirito di partito né fa conoscere il giusto né lo fa amare. Un dio solo avrebbe potuto persuadere alle popolazioni che una novitá non fosse stata allora una ingiustizia patriotica. Infatti molte popolazioni, che per la vicinanza alla capitale erano nello stato di portar i loro reclami al governo[3], chiesero che la gabella sulla farina si ristabilisse. Nella costituzione antica del regno di Napoli, ove si trattava d’imposizioni dirette, il sovrano quasi altro non faceva che imporre il tributo: la ripartizione era determinata da una legge quasi che fondamentale dello Stato, ed il modo di esigerlo era in arbitrio di ciascuna popolazione. Non si esigeva dappertutto nello stesso modo: una popolazione avea una gabella, un’altra ne avea un’altra; chi non avea gabelle e pagava la decima sul raccolto del grano, chi pagava sui fondi, chi in un modo, chi in un altro, secondo le sue circostanze, i suoi prodotti, i suoi bisogni, i suoi costumi e talora i pregiudizi suoi. Questo metodo di amministrazione avea i suoi inconvenienti; ma questi inconvenienti si potean correggere, e conservare un metodo, il quale, se non toglieva il male, lo rendeva però meno sensibile. Questo stato della nazione fece sí che inutile riuscisse anche la legge sull’abolizione del testatico. «Nessun testatico, nessuna imposizione personale avrá luogo nella nazione napolitana». Questo stesso, e colle stesse parole, era stato detto quasi tre secoli prima: quella legge era tuttavia in vigore nel Regno; ed intanto, ad onta della medesima, si pagava l’imposizione personale. In pochi luoghi si esigeva ancora sotto il nome di «testatico»; in molti si pagava ricoperta del nome d’«industria»; in moltissimi si pagava pagando un dazio indiretto sui generi di prima necessitá, che si consumano egualmente da chi possiede e da chi non possiede: ove in un modo, ove in un altro, il testatico si pagava dappertutto e non era in verun luogo nominato. La legge esisteva; ma l’abuso, cangiando le parole, faceva una frode alla legge. Prima di riformare l’antico sistema delle nostre finanze, conveniva conoscerlo: la riforma dovea essere simultanea ed intera. Tutte le parti di un sistema di finanze hanno stretti rapporti tra loro e collo stato intero della nazione. Ma la maggior parte degli Stati di Europa erano nati, non dalle unioni spontanee, ma dalla conquista: il signore di un piccolo Stato avea oppressi gli altri con diversi mezzi ed in diversi tempi; per lo piú si erano transatti colle popolazioni, che avean conservati i loro usi, i dazi loro, i loro costumi. Una gran nazione non fu che l’aggregato di tante piccole nazioni, che si consideravano come estranee tra loro; ed il sovrano si considerava estraneo a tutte. Invece di leggi, si chiedevano «privilegi»; il sistema delle finanze non era che un’unione di diversi pezzi fatti da mani e in tempi diversi; i bisogni del momento, non essendo mai quelli della nazione, facevano sí che, invece di correggersi gli antichi abusi, se ne aggiugnessero dei nuovi; e tutto ciò produceva quell’orribile caos di finanze, in cui, al dir di Vauban, era grande quell’uomo che sapesse immaginar nuovi nomi per poter imporre un nuovo tributo senza alterare gli antichi. Era venuta l’epoca fortunata della riforma; ma questa riforma né dovea esser fatta con leggi particolari, le quali o presto o tardi si sarebbero contraddette, né in un momento. Era l’opera di molto tempo. Sulle prime, per contentare il popolo, il quale fra le novitá è sempre impaziente di veder segni sensibili di utile, bastava dire che si pagassero solo due terzi delle antiche imposizioni. Questa diminuzione di un terzo di tutt’i tributi avrebbe attirato alla rivoluzione maggior numero di persone; mentre colla sola abolizione del testatico e della gabella della farina non si giovava che ai poveri. In séguito, quando il favore dei ricchi non era piú tanto necessario e l’odio loro tanto pericoloso, i poveri si sarebbero del tutto sgravati. Un governo stabilito deve esser giusto; un governo nuovo deve farsi amare: quello deve dare a ciascuno ciò che è suo; questo deve dare a tutti. Una commissione a quest’oggetto stabilita avrebbe fatto in séguito conoscere le antiche finanze, i nuovi bisogni dello Stato, e si sarebbe formato un sistema generale e durevole, su di cui si sarebbe potuta fondare la felicitá della nazione.
Note
CAPITOLO XLIII RICHIAMO DE’ FRANCESI
I francesi ripresero Castellamare e Salerno; Cetara fu distrutta. Ma, pochi giorni dopo, i francesi furon costretti ad abbandonare il territorio napolitano, richiamati nell’Italia superiore; e, sebbene tentassero colorire con pomposi proclami la loro ritirata, gl’insorgenti ben ne compresero il motivo e ne trassero audacia maggiore. Salerno fu di nuovo occupata: a Castellamare s’inviò da Napoli una forte guarnigione, la quale però fu ridotta a dover difendere la sola cittá, quasi assediata dalle insorgenze che la circondavano. Magdonald, partendo, lasciò una guarnigione di settecento uomini in Sant’Elmo; circa duemila rimasero a difender Capua, e quasi altri settecento in Gaeta. Egli avea promesso lasciar una forte colonna mobile; ma questa poi in effetti altro non fu che una debole colonna di quattrocento uomini, i quali, distaccati dalla guernigione di Capua, venivano a Sant’Elmo, donde altri quattrocento uomini partivano alternativamente per Capua. Questa forza sarebbe stata superflua presso di noi, se da principio ci fosse stato permesso di organizzar la forza nazionale. Poiché il far questo ci era stato tolto, la forza rimasta era insufficiente. I rovesci d’Italia mostravano giá lo stato di languore, in cui la rilassatezza del governo direttoriale avea gittata la Francia. La Francia diminuiva di forze in proporzione che cresceva di volume; le nuove repubbliche organizzate in Italia, che avrebbero dovuto essere le sue alleate, furono le sue province; invece di esserne amati, i francesi ne furono odiati, perché essi, invece di amarle, le temettero. I romani, di cui i francesi volevano esser imitatori, ritraevano forza dagli alleati. Gli spagnuoli tennero una condotta diversa, ed avvilirono quelle nazioni che doveano esser loro amiche. Ma ciò che potea ben riuscire per qualche tempo agli spagnuoli, per lo stato in cui allora si ritrovava l’Europa, non poteva riuscire al Direttorio, che avea da per tutto governi regolari e potenti ai loro confini. Quando, in séguito di una conquista, si vuole organizzare una repubblica, l’operazione è sempre piú difficile che quando conquista un re. Un re deve avvezzare i popoli ad ubbidire, perché egli non deve far altro che schiavi; un conquistatore, che far voglia dei cittadini, deve avvezzarli ad ubbidire e a comandare. Ma non si avvezzano i popoli a comandare senza dar loro l’indipendenza, la quale richiede un sacrifizio, per lo piú doloroso, di autoritá per parte di colui che conquista. E quindi è che quasi sempre vana riesce la libertá che si riceve in dono dagli altri popoli, perché, non essendovi chi sappia comandare, non vi sará nemmeno chi sappia ubbidire, ed, invece di saggi ordini di governo, non si hanno che le volontá momentanee di coloro che comandano la forza straniera; volontá che sono tanto piú ruinose quanto il comando è piú vacillante e poco o nulla vale a prolungarlo il merito della buona condotta. La libertá invidia e la legge toglie gl’impieghi anche agli ottimi. Questi cangiamenti ne produssero degli altri ugualmente rapidi nel governo delle nuove repubbliche. Quasi ogni mese si cangiavano i governanti nella repubblica romana. Come sperare quella stabilitá di princípi, quella costanza di operazioni, che solo può rendere le repubbliche ferme e vigorose? Talora, oltre dei governanti, si violentava anche la costituzione; e quello stesso Direttorio, che avea violata la costituzione francese, rovesciò anche la cisalpina. Si trovarono delle anime eroiche, che seppero resistere agl’intrighi ed alla forza, e preferirono la libertá del loro giuramento al favore del conquistatore. In Napoli, quando si temeva che le idee del Direttorio potessero non esser quelle dell’indipendenza e felicitá della nazione, tutt’i governanti giurarono di deporre la carica. Non vi fu uno che esitò un momento. Ma possiamo noi contare sopra un popolo di eroi? Il maggior numero è sempre debole; ed il popolo intero come può amar una costituzione che non si abbia scelta da se stesso e che non possa conservare né distruggere se non per volere altrui? Si aggiunga a ciò che il principio fondamentale delle repubbliche, che è il rispetto e l’amore pe’ suoi cittadini, mentre rende un governo repubblicano attentissimo ad ogni ingiustizia che si commetta tra’ suoi, lo rende negligente sulla sorte degli esteri: un proconsolo era giudicato in Roma da coloro che erano suoi eguali e che temevano piú di lui che delle province desolate. Le repubbliche italiane segnavano l’etá con sempre nuovo languore invece di rassettarsi cogli anni, quanto piú vivevano piú si accostavano alla morte; e le altre repubbliche d’Italia, dopo quattro anni di libertá, si trovarono tanto deboli quanto la nostra lo era al principio della sua politica rivoluzione. Se i francesi avessero permesso alla repubblica cisalpina di organizzare una forza regolare, se lo avessero permesso alla repubblica romana, avrebbero potuto piú lungo tempo contrastare in Italia contro le forze austro-russe: se non impedivano l’organizzazione delle forze napolitane, queste avrebbero assicurata la vittoria al partito repubblicano. Ma il voler difendere la repubblica cisalpina, la romana, la napolitana colle sole proprie forze; il voler temere egualmente il nemico e gli amici, era la massima di un governo che vuol crescer il numero dei soggetti senza aumentar la forza[1]. Si parla tanto del tradimento di Scherer: Scherer tradí il governo, ma la condotta di quel governo avea di giá tradita una gran nazione. La rivoluzione di Napoli potea solo assicurar l’indipendenza d’Italia, e l’indipendenza d’Italia potea solo assicurar la Francia. L’equilibrio tanto vantato di Europa non può esser affidato se non all’indipendenza italiana; a quell’indipendenza, che tutte le potenze, quando seguissero piú il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrá meco che, nella gran lotta politica che oggi agita l’Europa, quello dei due partiti rimarrá vincitore che piú sinceramente favorirá l’indipendenza italiana[2]. Il destino avea finalmente fatto pervenire i momenti; ma il governo che allora avea la Francia non fu buono per eseguire gli ordini del destino, ed i prodirettoriali governi d’Italia non seppero comprenderne le intenzioni. Dura necessitá ci costrinse a trascurare tutti gli esterni rapporti che avrebbero potuto salvar la nostra esistenza politica. Noi ignoravamo ciò che si faceva nel rimanente dell’Europa, e l’Europa non sapeva la nostra rivoluzione se non per bocca dei nostri nemici. Dalla stessa Cisalpina, dalla stessa armata francese non avevamo che gazzette o rapporti piú frivoli di una gazzetta e piú mendaci. I generali francesi ci scrivean sempre vittorie, perché questo loro imponeva la ragion della guerra: ma il nostro interesse era di saper anche le disfatte; e l’ignoranza in cui rimase il governo e le false lusinghe che gli furon date di prossimo soccorso accelerarono la perdita, se non della repubblica, almeno dei repubblicani. Napoli avrebbe potuto salvar l’Italia; ma l’Italia cadde, ed involse anche Napoli nella sua ruina.
Note
CAPITOLO XLIV
RICHIAMO DI ETTORE CARAFA DALLA PUGLIA
I francesi dovettero aprirsi la ritirata colle armi alla mano, ed all’isola di Sora e nelle gole di Castelforte perdettero non poca gente. Appena essi partirono, nuove insorgenze scoppiarono in molti luoghi. Roccaromana suscitò l’insorgenza nelle sue terre alle mura di Capua. Egli divenne l’istrumento piú grande della nobiltá, a cui apparteneva, e del popolo, tra cui avea un nome. Il governo lo avea disgustato, lo avea degradato forsi per sospetti troppo anticipati; ma non seppe osservarlo, ritrovarlo reo e perderlo: offendendo, non seppe metterlo nella impossibilitá di far male. Luigi de Gams organizzò nello stesso tempo una insorgenza in Caserta. Queste insorgenze, unite a quelle di Castelforte e di Teano, ruppero ogni comunicazione tra Capua e Gaeta e tra il governo napolitano ed il resto dell’Italia. La ritirata dei francesi dalla provincia di Bari fece insorgere di nuovo quella provincia di Lecce. In Puglia eravi ancora Ettore Carafa colla sua legione, ed, oltre la legione, avea un nome e molti seguaci; ma, sia imprudenza, sia, come taluni vogliono, gelosia del governo, Carafa fu richiamato da una provincia dove poteva esser utile ed inviato a guernire la fortezza di Pescara. La ritirata di Carafa fu un vero male per quelle province e per la repubblica intera. A questo male si sarebbe in parte riparato, se riusciva a Federici di penetrare in Puglia ed a Belpulsi nel contado di Molise; ma le spedizioni di questi due, ritardate soverchio, non furono intraprese se non dopo la partenza delle truppe francesi, quando cioè era impossibile eseguirle. Cosí sopra tutta la superficie del territorio napolitano rimanevano appena dei punti democratici. Ma questi punti contenevano degli eroi. Nel fondo della Campania era Venafro, che sola avea resistito per lungo tempo a Mammone[1], comandante dell’insorgenza di Sora: con poco piú di forza, avrebbe potuto prendere la parte offensiva. I paesi della Lucania fecero prodigi di valore, opponendosi all’unione di Ruffo con Sciarpa; e, se il fato non faceva perire i virtuosi e bravi fratelli Vaccaro, se il governo avesse inviati loro non piú che cento uomini di truppa di linea, qualche uffiziale e le munizioni da guerra che loro mancavano, forse la causa della libertá non sarebbe perita. Gli stessi esempi di valore davano le popolazioni repubblicane del Cilento, le quali per lungo tempo impedirono che l’insorgenza delle Calabrie non si riunisse a quella di Salerno. Foggia finalmente era una cittá piena di democratici: essa avea una guardia nazionale di duemila persone; era una cittá che, per lo stato politico ed economico della provincia, potea trarsi dietro la provincia intera; e da Foggia una linea quasi non interrotta prendeva pel settentrione verso gli Apruzzi, dove si contavano Serracapriola, Casacalenda, Agnone, Lanciano... Dall’altra parte, per Cirignola e Melfi, Foggia comunicava colle tante popolazioni democratiche della provincia di Bari e della Lucania. Noi vorremmo poter nominare tutte le popolazioni e tutti gl’individui; ma né tutto distintamente sappiamo, né tutto senza imprudenza apertamente si può dire: un tempo forse si saprá, e si potrá loro rendere giustizia. Ma che fare? A tutte queste forze mancava la mente, mancava la riunione tra tutti questi punti, mancava un piano comune per le loro operazioni. Non si crederá, ma intanto è vero: una delle cagioni, che piú hanno contribuito a rovesciar la nostra repubblica, è stata quella di non aver avute nelle province delle persone che riunissero e dirigessero tutte le operazioni: gl’insorgenti aveano tutti questi vantaggi.
Note
CAPITOLO XLV
CARDINAL RUFFO
Ruffo intanto trionfava in Calabria. Dalla Sicilia, ove era fuggito seguendo la corte, era ritornato quasiché solo nella Calabria; ma le terre nelle quali si era fermato erano appunto le terre di sua famiglia. Quivi il suo nome gli diede qualche seguace: a questi si aggiunsero tutti quelli che si trovavan condannati nelle isole della Sicilia, ai quali fu promesso il perdono; tutt’i scellerati banditi, fuorusciti delle Calabrie, ai quali fu promessa l’impunitá. A Ruffo si unirono il preside della provincia, Winspeare, e l’uditore Fiore. L’impunitá, la rapina, il saccheggio, le promesse facili, il fanatismo superstizioso[1]; tutto concorse ad accrescergli seguaci. Incominciò con picciole operazioni, piú per tentare gli animi e le cose che per invadere. Ma, vinte una volta le forze repubblicane perché divise e mal dirette, superata Monteleone, attaccò e prese Catanzaro, capitale della Calabria ulteriore, e, passando quindi alla citeriore, attaccò e prese Cosenza, sede di antico ed ardente repubblicanismo. Cosenza cadde vittima degli errori del governo, perché disgustò il basso popolo coll’ordine di doversi pagare anche gli arretrati delle imposizioni dovute al re, perché vi costituí comandante della guardia nazionale il tenente De Chiara, profondo scellerato ed attaccato all’antico governo. Quando Ruffo era giá vicino a Cosenza, De Chiara era alla testa di sette in ottomila patrioti, risoluti di vincere o di morire. Ruffo aveva appena diecimila uomini. Quando queste truppe furono a vista, De Chiara ordinò la ritirata; intanto ad un segno concertato scoppiò la sollevazione dentro Cosenza: cosicché i repubblicani si trovarono tra due fuochi; ma, ciò non ostante, riguadagnano la cittá e si difendono tre giorni. Labonia e Vanni corrono a radunar gente nelle loro patrie. Ma, quando il soccorso giunse, Cosenza era giá caduta. Essi si ridussero a dover fare prodigi di valore nella difesa di Rossano. Ma Rossano, rimasta sola, cadde anch’essa: cadde Paola, una delle piú belle cittá di Calabria, incendiata dal barbaro vincitore, indispettito da un valore che avrebbe dovuto ammirare. La fama del successo ed il terrore che ispirava lo resero padrone di tutte le Calabrie fino a Matera, dove incontrò il còrso De Cesare, di cui parlammo nel paragrafo decimosesto[2]. Il disegno di Ruffo era di penetrar nella Puglia. Altamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l’assedia; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa piú ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti: a difendersi impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mitraglia; ma finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacché gli abitanti ricusarono sempre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro giá da tutte le parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la cittá fu abbandonata al loro furore; non fu perdonato né al sesso né all’etá. Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tuttavia: - Viva la repubblica! - Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue. Dopo la caduta di Altamura, Sciarpa soggiogò i bravi abitanti di Avigliano, Potenza, Muro, Picerno, Santofele, Tito, ecc. ecc., i quali si erano uniti per la difesa comune. La stessa mancanza di provvisioni di guerra, che avea fatta perdere Altamura, li costrinse a cedere a Sciarpa; ma, anche cedendo al vincitore, conservarono tanto di quell’ascendente che il valore dá sul numero, che fecero una capitolazione onorevole, colla quale, riconoscendo di nuovo il re, le loro persone e le cose rimaner dovessero salve. Ben poche nazioni possono gloriarsi di simili esempi di valore. Intanto Micheroux fece nell’Adriatico uno sbarco di russi, che occuparono Foggia. L’occupazione, sia caso, sia arte, avvenne ne’ giorni in cui la fiera richiamava colá gli abitanti di tutte le altre province del Regno; e cosí la nuova dell’invasione, sparsa sollecitamente, portò negli altri luoghi il terrore anche prima delle armi. Chi non sarebbesi rivoltato allora contro il governo repubblicano, dopo i funesti esempi di coloro che eran rimasti vittima del suo partito, vedendo dappertutto il nemico vincitore e niuna difesa rimaner a sperarsi dagli amici? Si era giá nel caso che i repubblicani, ridotti a picciolissimo numero, sembravano essi esser gl’insorgenti. Eppure l’amore per la repubblica era cosí grande, che faceva ancora amare il governo, e tutt’i repubblicani morirono con lui. Un poco di truppa francese e patriotica che era in Campobasso fu costretta ad abbandonarla. Si perdette anche il contado di Molise. Non si era pensato a guadagnar le posizioni di Monteforte, Benevento, Cerreto ed Isernia, onde impedire le comunicazioni di queste insorgenze tra loro. Ribollí l’insorgenza di Nola, comunicando con quella di Puglia; e Napoli fu quasi che assediata.
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CAPITOLO XLVI
MINISTRO DELLA GUERRA
Il governo era su questo oggetto molto mal servito da’ suoi agenti tanto interni che esterni, poiché per lo piú eransi affidati gli affari a coloro i quali altro non aveano che l’entusiasmo; ed essi piú del pericolo temevano la fatica di doverlo prevedere. I popoli non erano creduti. Si chiesero de’ soccorsi al governo per frenare l’insorgenza scoppiata nel Cilento. Si proponeva al ministro che s’inviassero i francesi. - I francesi - si rispondeva - non sono buoni a frenare l’insorgenza; - e si diceva il vero[1]. - Vi anderanno dunque i patrioti? - I patrioti faranno peggio. - Ma intanto il pessimo di tutt’i partiti fu quello di non prenderne alcuno; ed il piú funesto degli errori fu quello di credere che il tempo avesse potuto giovare a distruggere l’insorgenza. Il ministro della guerra diceva sempre al governo che egli si occupava a formare un piano, che avrebbe riparato a tutto. Prima parte però di ogni piano avrebbe dovuto esser quella di far presto. Si disse al ministro che avesse occupata Ariano, e non curò di farlo; se gli disse che avesse occupata Monteforte, e non curò di farlo. Manthoné credeva che il nemico non fosse da temersi. Fino agli ultimi momenti ei lusingò se stesso ed il governo: credeva che i russi, i quali erano sbarcati in Puglia, non fossero veramente russi, ma galeoti che il re di Napoli avea spediti abbigliati alla russa. Gl’insorgenti erano giá alla Torre, lo stesso Ruffo co’ suoi calabresi era in Nola, Micheroux co’ russi era al Cardinale, Aversa era insorta ed aveva rotta ogni comunicazione tra Napoli e Capua; ed il ministro della guerra, a cui tutto ciò si riferiva, rispondeva non esser altro che pochi briganti, i quali non avrebbero ardito di attaccar la capitale. Quale stranezza! Una centrale immensa, aperta da tutt’i lati, il di cui popolo vi è nemico, a cui dopo un giorno si toglie l’acqua e dopo due giorni il pane!...
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CAPITOLO XLVII
DISFATTA DI MARIGLIANO
Egli avea fatto credere al governo ed alla nazione che potea disporre di ottomila uomini di truppe di linea; ma questa colonna, colla quale si avrebbe potuto formare un campo per difendere Napoli, non si vide mai intera. Molti credettero che si avrebbe potuto riunire gran numero di patrioti, se si dichiarasse la patria in pericolo; ma, sia timore, sia soverchia confidenza, questo linguaggio franco non si volle mai adottare dal governo, e solo si ridusse ad ordinare che ad un tiro designato di cannone tutti della milizia nazionale dovessero condursi ai loro posti, e gli altri del popolo ritirarsi nelle loro case, né uscirne, sotto pena della vita, prima del nuovo segno. Misura piú allarmante di qualunque dichiarazione di pericolo, poiché, non dichiarandolo, lasciava libero il capo alla fantasia alterata d’immaginarlo piú grande di quello che era; misura che non dovea usarsi se non negli estremi casi e che, essendosi usata imprudentemente la prima volta, quando bisogno non vi era, fece sí che si fosse usata quasi che inutilmente, quando poi vi fu bisogno[1]. Intanto le infinitesimali colonne spedite da Manthoné furono ad una ad una distrutte. Quella comandata da Spanò fu battuta a Monteforte; l’altra, comandata da Belpulsi, che dovea esser per lo meno di mille e duecento uomini, vanguardia di un corpo piú numeroso, e che poi si trovò essere in tutto di duecentocinquanta, fu costretta a retrocedere da Marigliano, ove non potea piú reggere in faccia a tutta la forza di Ruffo. La sola colonna di Schipani resse nella Torre dell’Annunziata, perché era composta di numero maggiore, perché non poteva esser circondata se prima non si guadagnava Marigliano e perché finalmente era sotto la protezione delle barche cannoniere, le quali allontanavano l’inimico dalla strada che va lungo il mare. La nostra marina continuò a ben meritare della patria e, finché vi rimase il minimo legno, tenne sempre lontani gl’inglesi. E chi mai demeritò della patria, all’infuori di coloro che alla patria non appartenevano? Ma finalmente Ruffo, padrone di Nola e di Marigliano, si avanzò da quella via verso Portici, tagliando cosí la ritirata alla colonna di Schipani e togliendole ogni comunicazione con Napoli. Tra Portici e Napoli vi era il picciol forte di Vigliena, difeso da pochi patrioti; e, ad onta delle forze infinitamente superiori di Ruffo, sostennero oltre ogni credere il forte: quando furono ridotti alla necessitá di cederlo, risolverono di farlo saltar per aria. L’autore di questa ardita risoluzione fu Martelli. Non minor valore dimostrò la colonna di Schipani: si aprí per sei miglia la strada in mezzo ai nemici, prese de’ cannoni, giunse a Portici. Le nuove che si aveano di Napoli, la quale si credeva giá presa, indussero alcuni vili a gridar «viva il re» e costrinsero gli altri a rendersi prigionieri di guerra.
Note
CAPITOLO XLVIII
CAPITOLAZIONE
Ma Napoli non era presa ancora. I nostri si eran battuti con sorte infelice nel dí 13 giugno al ponte della Maddalena, e furono costretti a ritirarsi nei castelli. Il governo si era giá ritirato nel Castello nuovo. Il solo castello del Carmine, il quale altro non è che una batteria di mare e che per la via di terra non si può difendere, era caduto nelle mani degl’insorgenti. E quale castello di Napoli, all’infuori di Sant’Elmo si può difendere? Il partito migliore sarebbe stato quello di abbandonar la cittá, e, fatta una colonna di patrioti, che allora forse per la necessitá sarebbe divenuta numerosissima, guadagnar Capua per la via di Aversa o di Pozzuoli. Questo era stato il progetto di Girardon, che comandava in Capua le poche forze francesi rimaste nel territorio della repubblica napolitana. Se questo progetto fosse stato eseguito, Napoli non sarebbe divenuta, come addivenne, teatro di stragi, d’incendi, di scelleraggini e di crudeltá; ed ora non piangeremmo la perdita di tanti cittadini. Durante l’assedio dei castelli il popolo napolitano, unito agl’insorgenti, commise delle barbarie che fan fremere: incrudelí financo contro le donne, alzò nelle pubbliche piazze dei roghi, ove si cuocevano le membra degl’infelici, parte gittati vivi e parte moribondi. Tutte queste scelleraggini furono eseguite sotto gli occhi di Ruffo ed alla presenza degl’inglesi. I due castelli Nuovo e dell’Uovo, difesi dai patrioti, fecero intanto per qualche giorno la piú vigorosa resistenza. Se i patrioti avessero avuto un poco piú di forza, avrebbero potuto riguadagnar Napoli: ma essi non erano che appena cinquecento uomini atti alle armi; e Mégeant, che comandava in Sant’Elmo, non permise piú ai suoi francesi di unirsi ai nostri. Si sono tanto ammirati i trecento delle Termopili, perché seppero morire; i nostri fecero anche dippiú: seppero capitolare coll’inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napolitana. La capitolazione fu sottoscritta nella fine di giugno. Si promise l’amnistia; si diede a ciascuno la libertá di partire o di restare, come piú gli piaceva; e tanto a coloro che partissero quanto a coloro che restassero si promise la sicurezza delle persone e degli averi. La capitolazione fu sottoscritta da Ruffo, vicario generale del re di Napoli; da Micheroux, generale delle sue armi; dall’ammiraglio russo; dal comandante delle forze turche; da Food, comandante i legni inglesi che si trovarono all’azione; e da Mégeant, il quale, in nome della repubblica francese, entrò garante della napolitana. Furon dati per parte di Ruffo degli ostaggi per la sicurezza dell’esecuzione del trattato, e questi furon consegnati a Mégeant[1]. Per eseguire il trattato fu stabilito un armistizio, ma nell’armistizio si preparò il tradimento. Appena che la regina seppe l’occupazione di Napoli, inviò da Palermo milady Hamilton a raggiungere Nelson. - Voglio prima perdere - avea detto la regina ad Hamilton - tutti e due i regni che avvilirmi a capitolar coi ribelli. - Che Hamilton si prestasse a servir la regina, era cosa non insolita; essa finalmente non disponeva che dell’onor suo: ma che Nelson, il quale avea trovata la capitolazione giá sottoscritta, prostituisse ad Hamilton l’onor suo, l’onor delle sue armi, l’onor della sua nazione; questo è ciò che il mondo non aspettava, e che il governo e la nazione inglese non dovea soffrire[2]. Nelson col resto della sua flotta giunse nella rada di Napoli durante l’armistizio, e dichiarò che un trattato fatto senza di lui, che era ammiraglio in capo, non dovea esser valido; quasi che l’onorato e valoroso Food, che era persona legittima a ricevere i castelli, non lo fosse poi ad osservare le condizioni della resa; quasi che una capitolazione potesse esser legittima per una parte ed illegittima per l’altra, e, non volendo mantener le promesse fatte alla repubblica napolitana, non fosse necessario restituire ai suoi agenti tutto ciò che per tali promesse aveano giá consegnato. Acton diceva e faceva dire al re, che era a bordo dei vascelli inglesi, circondato però dalle creature di Carolina: che «un re non capitola mai coi suoi ribelli»[3]. Egli infatti era padrone di non capitolare; ma si poteva domandare se mai, quando un re abbia capitolato, debba o no mantenere la sua parola! Intanto i patrioti per Napoli erano arrestati; la partenza di quei che eransi imbarcati si differiva; Mégeant che avea gli ostaggi nelle sue mani, Mégeant che avea ancora forza per resistere, che poteva e doveva essere il garante della capitolazione, Mégeant dormiva. Nel tempo dell’armistizio permise che i nemici erigessero le batterie sotto il suo forte. Fu attaccato, fu battuto, non fece una sortita, appena sparò un cannone, fu vinto, si rese. Segnò una capitolazione vergognosissima al nome francese. Quando dovea rimaner solo per ricoprirsi di obbrobrio, perché non capitolò insieme cogli altri forti? Restituí gli ostaggi, ad onta che vedesse i patrioti non ancora partiti e ad onta che resistesse ancora Capua, ove gli ostaggi si poteano conservare. Promise di consegnare i patrioti che erano in Sant’Elmo, e li consegnò. Fu visto scorrere tra le file dei suoi soldati, e riconoscere ed indicare qualche infelice che si era nascosto alle ricerche, travestito tra quei bravi francesi, coi quali avea sparso il suo sangue. Neanche Matera, antico ufficiale francese, fu risparmiato, ad onta dell’onor nazionale che dovea salvarlo e del diritto di tutte le genti. Fu imbarcato colla sua truppa, partí solo colla sua truppa, e non domandò neanche dei napolitani. E vi è taluno il quale ardisce di mettere in dubbio che Mégeant sia un traditore? E quest’uomo intanto ancora «disonora, portandolo, l’uniforme francese», che è l’uniforme della gloria e dell’onore?[4]. Bravi ed onorati militari destinati a giudicarlo, avvertite: il giudizio, che voi pronuncerete sopra di lui, sará il giudizio che cinque milioni di uomini pronunzieranno sopra di voi!
Note
CAPITOLO XLIX
PERSECUZIONE DE’ REPUBBLICANI
Fu eretta una delle solite Giunte di Stato nella capitale; ma giá da due mesi un certo Speziale, spedito espressamente da Sicilia, avea aperto un macello di carne umana in Procida, ove condannò a morte un sartore perché avea cuciti gli abiti repubblicani ai munícipi, ed anche un notaro, il quale in tutto il tempo della durata della repubblica non avea mai fatto nulla e si era rimasto nella perfetta indifferenza. - Egli è un furbo - diceva Speziale: - è bene che muoia. - Per suo ordine morirono Spanò, Schipani, Battistessa. Quest’ultimo non era morto sulla forca; dopo esservi stato sospeso per ventiquattro ore, allorché si portò in chiesa per seppellirlo, fu osservato che dava ancora qualche languido segno di vita. Si domandò a Speziale che mai si dovea fare di lui: - Scannatelo - egli rispose. Ma la Giunta che si era eretta in Napoli si trovò per accidente composta di uomini dabbene, che amavano la giustizia ed odiavano il sangue. Ardirono dire al re esser giusto e ragionevole che la capitolazione si osservasse: giusto, perché, se prima della capitolazione si poteva non capitolare, dopo aver capitolato non rimaneva altro che eseguire; ragionevole, perché non è mai utile che i popoli si avvezzino a diffidare della parola di un re, e perché si deturpa cosí la causa di ogni altro sovrano e si toglie ogni mezzo di calmare le rivoluzioni. Allora fu che Acton disse che, se non avea luogo la capitolazione, poteva averlo la clemenza del re. Ma qual clemenza, qual generositá sperare da chi non osservava un trattato? La prima caratteristica degli uomini vili è quella di mostrarsi superiori al giusto e di voler dare per capriccio ciò che debbono per legge: cosí sotto l’apparenza del capriccio nascondono la viltá, e promettono piú di quel che debbono per non osservare quello che hanno promesso. Rendasi giustizia a Paolo primo. Egli conobbe quando importasse che i popoli prestassero fede alle parole dei sovrani, ed il di lui gabinetto fu sempre per la capitolazione. Il maggior numero degli officiali della flotta inglese compresero quanta infamia si sarebbe rovesciata sulla loro nazione, giacché il loro ammiraglio era il vero, l’unico autore di tanta violazione del diritto delle genti; e si misero in aperta sedizione. La Giunta intanto rammentava al governo le leggi della giustizia; ed invitata a formare una classificazione di trentamila persone arrestate (poiché non meno di tante ve ne erano in tutte le carceri del Regno), disse che doveano esser posti in libertá, come innocenti, tutti coloro i quali non fossero accusati di altro che di un fatto avvenuto dopo l’arrivo dei francesi. La rivoluzione in Napoli non potea chiamarsi «ribellione», i repubblicani non eran ribelli, ed il re non potea imputare a delitto azioni commesse dopo che egli non era piú re di Napoli, dopo che per un diritto tanto legittimo quanto quello della conquista, cioè quanto lo stesso diritto di suo padre e suo, aveano i francesi occupato il di lui regno. Che se i repubblicani avean professate massime le quali parevan distruttrici della monarchia, ciò neanche era da imputarsi loro a delitto, perché eran le massime del vincitore, a cui era dovere ubbidire. Essi avean professata democrazia, perché democrazia professavano i vincitori: se i vincitori si fossero governati con ordini monarchici, i vinti avrebbero seguite idee diverse. L’opinione dunque non dovea calcolarsi, perché non solamente non era volontaria, ma era necessaria e giusta, perché era giusto ubbidire al vincitore. Il voler stabilire la massima contraria, il pretendere che un popolo dopo la legittima conquista ritenghi ancora le antiche affezioni e le antiche idee, è lo stesso che voler fomentare l’insubordinazione, e coll’insubordinazione voler eternare la guerra civile, la mutua diffidenza tra i governi ed i popoli, la distruzione di ogni morale pubblica e privata, la distruzione di tutta l’Europa. Al ministero di Napoli ciò dispiaceva, perché nella guerra era rimasto perdente; ma, se fosse stato vincitore, se invece di perderlo avesse conquistato un regno, gli sarebbe piaciuto che i nuovi suoi sudditi avessero conservato troppo tenacemente e fino alla caparbietá l’affezione alle antiche massime ed agli ordini antichi? Non avrebbe punito come ribelle chiunque avesse troppo manifestamente desiderato l’antico sovrano? La vera morale dei principi deve tendere a render facile la vittoria, e non giá femminilmente dispettosa la disfatta. I princípi della Giunta eran quelli della ragione, e non giá della corte. In questa i partiti eran divisi. Dicesi che la regina non volesse la capitolazione, ma che, fatta una volta, ne volesse l’osservanza: difatti era inutile coprirsi di obbrobrio per perdere due o trecento infelici. Ruffo, autor della capitolazione, voleva lo stesso, e divenne perciò inviso ed alla regina, che non avrebbe voluta la capitolazione, ed agli altri, ai quali non dispiaceva che si fosse fatta, ma non volevano che si osservasse. Le istruzioni, che furon date alla Giunta, da persone degne di fede si assicura che furono scritte da Castelcicala. In esse stabilivasi, come massima fondamentale, esser rei di morte tutti coloro i quali avean seguíta la repubblica: bastava che taluno avesse portata la coccarda nazionale. Per avere una causa di vendetta, ammetteva che il re era partito; ma, per averne una ragione, asseriva che, ad onta della partenza, era rimasto sempre presente in Napoli. Il Regno si dichiarava un regno di conquista, quando si trattava di distruggere tutt’i privilegi della Cittá e del Regno, i quali si chiamano quasi in tutta l’Europa «privilegi», mentre dovrebbero esser diritti, perché fondati sulle promesse dei re; ma, quando si trattava di dover punire i repubblicani, il Regno non era mai stato perduto[1]. Tale fu la logica di Caligola, quando condannava a morte egualmente e chi piangeva e chi gioiva per la morte di Drusilla. Nelson, unico autore dell’infrazione del trattato, quell’istesso Nelson che avea condotto il re in Sicilia, lo ricondusse in Napoli, ma sempre suo prigioniero; né mai, partendo o ritornando, ebbe mai la minima cura dell’onor di lui: giacché, partendo, lo tenne in mostra al popolo quasi uom che disprezzasse ogni segno di affezione che questo gli dava; tornando, quasi insultasse ai mali che soffriva. Egli vide dal suo legno i massacri e i saccheggi della capitale. Poco di poi con suo rescritto avvisò i magistrati che egli avea perdonato ai lazzaroni il saccheggio del proprio palazzo, e sperava che gli altri suoi sudditi, dietro il di lui esempio, perdonassero egualmente i danni che avean sofferti! Tutti gl’infelici che il popolo arrestava eran condotti e presentati a lui, tutti pesti, intrisi di polvere e di sangue, spirando quasi l’ultimo respiro. Non s’intese mai da lui una sola parola di pietá. Era quello il tempo, il luogo ed il modo in cui un re dovea mostrarsi al popolo suo? Egli era in mezzo ai legni pieni d’infelici arrestati, che morivano sotto i suoi occhi per la strettezza del sito, per la mancanza di cibi e dell’acqua, per gl’insetti, sotto la piú ardente canicola, nell’ardente clima di Napoli. Egli avea degl’infelici ai ferri finanche nel suo legno. Con tali princípi, la corte dovea stancarsi, e si stancò ben presto, delle noiose cure che la Giunta si prendeva per la salute dell’umanitá. Gli uomini dabbene, che la componevano, furono allontanati: non rimase altro che Fiore, il quale da piccioli princípi era pervenuto alla carica di uditore provinciale in Catanzaro, donde, fuggiasco pel taglione in tempo della repubblica, era ritornato in Napoli, come Mario in Roma, spirando stragi e vendette. Ritornò Guidobaldi, seco menando, come in trionfo, la coorte delle spie e dei delatori, che erano fuggiti con lui. A questi due furono aggiunti Antonio La Rossa e tre siciliani: Damiani, Sambuti ed, il piú scellerato di tutti, Speziale. La prima operazione di Guidobaldi fu quella di transigersi con un carnefice. Al numero immenso di coloro che egli volea impiccati, gli parve che fosse esorbitante la mercede di sei ducati per ciascuna operazione, che per antico stabilimento il carnefice esigeva dal fisco; credette poter procurare un gran risparmio, sostituendo a quella mercede una pensione mensuale. Egli credeva che almeno per dieci o dodici mesi dovesse il carnefice esser ogni giorno occupato. La storia ci offre mille esempi di regni perduti e poscia colle armi ricuperati: in nessuno però si ritrovano eguali esempi di tale stolta ferocia. Silla fece morire centomila romani non per altro che per la sua volontá: Augusto depose la sua ferocia colle armi. Un altro re di Napoli, Ferdinando primo di Aragona, capitolò egualmente coi suoi sudditi, e poscia sotto specie di amicizia li fece tutti assassinare. Ma, mentre commetteva il piú orribile tradimento di cui ci parli la storia, mostrò almeno di rispettare l’apparenza della santitá dei trattati. Mostrarono almeno gli alleati, che li avean garantiti, di reclamarne l’esecuzione. Il nostro storico Camillo Porzio attribuisce a questa scelleraggine le calamitá, che poco dopo oppressero e finalmente distrussero la famiglia aragonese in Napoli. La vera gloria di un vincitore è quella di esser clemente: il voler distruggere i suoi nemici per la sola ragione di esser piú forte è facile, e nulla ha con sé che il piú vile degli uomini non possa imitare. Una vendetta rapida e forte è simile ad un fulmine che sbalordisce; ma porta seco qualche carattere di nobiltá. Il deliziarsi nel sangue, il gustare a sorsi tutto il calice della vendetta, il prolungarla al di lá del pericolo e dell’ira del momento, che sola può renderla, se non lodevole, almeno scusabile, il vincer la ferocia del popolo e lo stesso terrore dei vinti, e far tutto ciò prostituendo le formole piú sacre della giustizia; ecco ciò che non è né utile né giusto né nobile. La storia ha dato un luogo distinto tra i tiranni ai geni cupi e lentamente crudeli di Tiberio e di Filippo secondo, ai fatti dei quali la posteritá aggiungerá gli orrori commessi in Napoli. Si conobbe finalmente la legge di maestá, che dovea esser di norma alla Giunta nei suoi giudizi; legge terribile, emanata dopo il fatto e da cui neanche gl’innocenti si potevan salvare. Eccone li principali articoli, quali si sono potuti raccogliere dalle voci piú concordi tra loro e piú consone alle sentenze pronunziate dalla Giunta, poiché è da sapersi che questa legge, colla quale si sono giudicati quasi trentamila individui, non è stata pubblicata giammai. «Sono dichiarati rei di lesa maestá in primo capo (e perciò degni di morte) tutti coloro che hanno occupato i primari impieghi della sedicente repubblica». Per «primari impieghi» s’intendevano le cariche della rappresentanza nazionale, del direttorio esecutivo, dei generali, dell’alta commissione militare, del tribunale rivoluzionario[2]. Egualmente erano rei «tutti coloro che fossero cospiratori prima della venuta dei francesi». Sotto questo nome andavano compresi tutti coloro che aveano occupato Sant’Elmo e tutti coloro che erano andati ad incontrare i francesi in Capua ed in Caserta; ad onta che la cessione di Capua fosse stata fatta da autoritá legittima; ad onta che tra i privilegi della cittá di Napoli, riconosciuti dal re, vi fosse quello che, giunto il nemico a Capua, la cittá di Napoli potesse, senza taccia di ribellione, prendere quegli espedienti che volesse, ed invitare anche il nemico; ad onta che, essendo legittima la cessione di Capua e di tutte le province del Regno a settentrione della linea di demarcazione, un numero infinito di persone, che dimoravano nella capitale, ma che intanto aveano la cittadinanza in quelle province, fossero divenuti legittimamente cittadini francesi; ad onta finalmente che, dopo la resa di Capua, in Napoli fosse cessata ogni autoritá legittima: niun re, niun vicario regio, niun generale, nessuna forza pubblica; tutto era nell’anarchia ed a ciascuno nell’anarchia era permesso di salvar come meglio poteva la propria vita. Intanto, ad onta di tutto ciò, furon dichiarati rei «tutti coloro che nelle due anarchie avessero fatto fuoco sul popolo dalle finestre»; cioè tutti coloro i quali non avessero sofferto che la piú scellerata feccia del popolo tra la licenza dell’anarchia li assassinasse. «Tutti coloro che avevano continuato a battersi in faccia alle armi del re, comandate dal cardinal Ruffo, o a vista del re, che stava a bordo degl’inglesi». Questo articolo avrebbe portate alla morte per lo meno ventimila persone, tra le quali eranvi tutti coloro che si trovavan rifugiati a Sant’Elmo, i quali, neanche volendo, poteano piú separarsi dai francesi. «Tutti coloro che avessero assistito all’innalzamento dell’albero nella piazza dello Spirito santo (perché in quell’occasione si atterrò la statua di Carlo terzo) o alla festa nazionale in cui si lacerarono le bandiere reali ed inglesi, prese agl’insorgenti». «Tutti coloro che durante il tempo della repubblica aveano, o predicando o scrivendo, offeso il re o l’augusta sua famiglia». La legge del Regno esentava dalla pena di morte chiunque non avea fatto altro che parlare. La legge diceva: «Se è stato mosso da leggerezza, nol curiamo; se da follia, lo compiangiamo; se da ragione, gli siam grati; e, se da malizia, lo perdoniamo, a meno che dalle parole non ne possa nascere un attentato piú grave». Una legge posteriore a questa condannò a morte tutti coloro i quali avean parlato o scritto in un’epoca, nella quale forse nessuno poteva render ragione di ciò che avea fatto. Si vide allora che non bastava non aver offese le leggi per esser sicuro. «Finalmente tutti coloro i quali in modo deciso avessero dimostrata la loro empietá verso la sedicente caduta repubblica». Quest’ultimo comprendeva tutti. Per questo articolo infatti fu condannata a morte la sventurata Sanfelice. Essa non avea altro delitto che quello di aver rivelato al governo la congiura di Baccher, quando era sul punto di scoppiare. Niuna parte avea avuta né nella rivoluzione né nel governo. Questa operazione le fu ispirata dalla piú pura virtú. Non poté reggere all’idea del massacro, dell’incendio e della ruina totale di Napoli, che i congiurati avean progettata. Questa generosa umanitá, indipendente da ogni opinione di governo e da ogni spirito di partito, le costò la vita; e fu spinta la ferocia al segno di farla entrare tre volte in «cappella», ad onta della consuetudine del Regno, la quale ragionevolmente volea che chi avesse una volta sofferta la «cappella» aver dovesse la grazia della vita. Non ha sofferta infatti la pena della morte colui che per ventiquattr’ore l’ha veduta inevitabile ed imminente? Eppure, rompendosi ogni legge di pietá, ogni consuetudine del Regno, la sventurata Sanfelice, dopo un anno, fu decollata senza delitto! «Coloro che erano ascritti alla sala patriotica, benché colle loro mani istesse avessero segnata la loro sentenza di morte (non si comprende perché: un’adunanza patriotica è un delitto in una monarchia, perché è rivoluzionaria; in un governo democratico, è un’azione indifferente), pure Sua Maestá, per la sua innata clemenza, li condanna all’esilio in vita colla perdita de’ beni, se abbiano prestato il giuramento; quelli che non l’hanno prestato, sono condannati a quindici anni di esilio». «Finalmente coloro, i quali avessero avute cariche subalterne e non avessero altri delitti, saranno riserbati all’indulto che Sua Maestá concederá». Questo indulto fu immaginato per due oggetti: il primo era quello di far languire un anno nelle carceri coloro che non aveano alcun delitto. - Mio figlio è innocente - diceva una sventurata madre a Speziale. - Ebbene - rispondeva costui, - se è innocente, avrá l’onore di uscir l’ultimo. - Il secondo oggetto era quello di condannare almeno nell’opinione pubblica, con un perdono, anche coloro che per la loro innocenza doveano essere assoluti. Non avea forse ragione la regina, quando, se è vero ciò che si dice, si opponeva a questa prostituzione di giudizi? Io vorrei che si esaminassero li giudizi della Giunta e di coloro che dirigevan la Giunta, non colle massime della ragione e della giustizia naturale, non colle massime della stessa giustizia civile, poiché neanche con queste si troverebbe ragion di condannar come ribelli coloro i quali non avean fatto altro che ubbidire ad una forza legittima e superiore, alla quale era stato costretto a cedere lo stesso re; ma colle massime dell’interesse del re. Io non dirò che la giustizia è il primo interesse di un re: ammetto anzi che l’interesse del re è la norma della giustizia. Ed anche allora, chi potrebbe assolver molti (io dico «molti», e sono ben lontano dal dir «tutti»: sono ben lontano dal credere tutt’i membri della Giunta simili a Speziale, e forse taluno non ha altra colpa che quella di non esser stato abbastanza forte contro i tempi); chi potrebbe, dico, assolver molti di aver non solo conculcata la giustizia, ma anche tradito il re? Quando Silla fece scannare seimila sanniti, disse al senato, allarmato da’ gemiti e dalle grida di quest’infelici: - Ponete mente agli affari: son pochi sediziosetti che si correggono per ordine mio. - Silla era piú grande e forse anche men crudele. Se coloro che consigliavano il re gli avessero parlato il linguaggio della saviezza e gli avessero fatto scrivere un editto, in cui si fosse ai popoli parlato cosí: «Coloro i quali han seguíto il partito della repubblica, ora che questo partito è caduto, han pensato di aver bisogno di una capitolazione per la loro salvezza. Se essi avessero conosciuto il mio cuore, avrebbero compreso che questa capitolazione era superflua. Questo errore è stato la causa di tutt’i loro traviamenti. Obblio tutto. Possano cessare tutt’i partiti e riunirsi a me per il vero bene della patria! Possa questa generositá far loro comprendere il mio cuore e rendermi degno del loro amore! Possano le tante vicende e le tante sventure sofferte renderli piú saggi! Se, ad onta di tutto ciò, vi è taluno a cui il nuovo ordine di cose non piaccia, siagli permesso partire. Ma, o che parta o che resti, i suoi beni, la sua persona, la sua famiglia saranno intatte, ed in me non troverá che un padre»; in quel momento,... momento forsi di disinganno... un proclama di questa natura avrebbe riuniti tutti gli animi. La nazione non sarebbe stata distrutta da una guerra civile;... l’amor del popolo avrebbe prodotta la sicurezza del re e la forza del Regno... Se oggi il regno di Napoli si trova diviso, desolato, pieno di odii intestini, quasi sul punto di sciogliersi, perché il re non dice ai suoi ministri e suoi consiglieri: - Voi siete stati tanti traditori! voi colpate alla mia rovina! -? L’esecuzione di questa legge spaventò finanche gli stessi carnefici della Giunta. Essa avrebbe fatto certamente rivoltare il popolo. La stessa crudeltá rese indispensabile la moderazione. Vennero da Palermo le note de’ proscritti; ma rimase la legge, affinché si potesse loro apporre un delitto. Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla morte dovea morire, ancorché il preteso reo fosse minore. Tutti li mezzi si adoperavano per ritrovare il delitto; nessuno se ne ammetteva per difendere l’innocenza. Il nome del re dispensò a tutte le formole del processo, quasi che si potesse dispensare alla formola senza dispensare alla giustizia. Ventiquattro ore di tempo si accordavano alla difesa: i testimoni non si ammettevano, si allontanavano, si minacciavano, si sbigottivano, talora anche si arrestavano; il tempo intanto scorreva, e l’infelice rimaneva senza difesa. Non confronto tra i testimoni, non ripulse di sospetti, non ricognizione di scritture si ammettevano; non debolezza di sesso, non imbecillitá di anni potevan salvare dalla morte. Si son veduti condannati a morte giovinetti di sedici anni; giudicati, esiliati fanciulli di dodici. Non solo tutt’i mezzi della difesa erano tolti, ma erano spenti tutt’i sensi di umanitá. Se la Giunta, per invincibile evidenza d’innocenza, è stata talora quasi costretta ad assolvere suo malgrado un infelice, si è veduto da Palermo rimproverarsi di un tal atto di giustizia, e condannarsi per arbitrio chi era stato o assoluto o condannato a pena molto minore. Dal processo di Muscari nulla si rilevava che potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea mostrato Muscari per la repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi, ebbe ordine di sospender la sentenza assolutoria e di non decidere la causa finché non si fosse ritrovata una causa di morte. A capo di due mesi è facile indovinare che questa causa si trovò. Pirelli, uno dei migliori uomini che avesse la patria, uno dei migliori magistrati che avesse lo Stato, anche in tempo del re, fu dalla Giunta assoluto: i trenta di Atene quasi arrossirono di condannare Focione. Pirelli era però segnato tra le vittime, e da Palermo fu condannato ad un esilio perpetuo. Michelangiolo Novi era stato condannato all’esilio; la sentenza era stata giá eseguita, si era giá imbarcato, il legno era per far vela: giunge un ordine da Palermo, e fu condannato al carcere perpetuo nella Favignana. Gregorio Mancini era stato giá giudicato, era stato giá condannato a quindici anni di esilio; di giá prendeva commiato dalla moglie e dai figli: un ordine di Speziale lo chiama, e lo conduce... dove?... alla morte. Altre volte si era detto che le leggi condannavano ed i re facevano le grazie: in Napoli si assolveva in nome della legge e si condannava in nome del re. Intanto Speziale, a cui venivano particolarmente commesse le persone che si volevan perdute, nulla risparmiava né di minacce né di suggestioni né d’inganni per servire alla vendetta della corte. Nicola Fiani era suo antico amico; Nicola Fiani era destinato alla morte, ma non era né convinto né confesso. Speziale si ricorda della sua antica amicizia: dal fondo di una fossa, ove il povero Fiani languiva tra’ ferri, lo manda a chiamare; lo fa condurre sciolto, non giá nel luogo delle sedute della Giunta, ma nelle sue stanze. Nel vederlo gli scorrono le lagrime; lo abbraccia: - Povero amico! a quale stato ti veggo io ridotto! Io sono stanco di piú fare la figura di boia. Voglio salvarti. Tu non parli ora al tuo giudice; sei coll’amico tuo. Ma, per salvarti, convien che tu mi dica ciò che hai fatto. Queste sono le accuse contro di te. In Giunta fosti saggio a negare; ma ciò che dirai a me non lo saprá la Giunta... - Fiani presta fede alle parole dell’amicizia; Fiani confessa... - Bisogna scriverlo; servirá per memoria... - Fiani scrive. È inviato al suo carcere, e dopo due giorni va alla morte. Speziale interrogò Conforti. Dopo avergli domandato il suo nome e la carica che nella repubblica avea ottenuto, lo fa sedere. Gli fa sperare la clemenza del re; gli dice che egli non avea altro delitto che la carica, ma che una carica eminente era segno di «patriotismo», e perciò delitto in coloro che erano stati, senza merito e senza nome, elevati per solo favore di fazione rivoluzionaria. Conforti era tale, che ogni governo sarebbe stato onorato da lui. Indi gli parla delle pretensioni che la corte avea sullo Stato romano. - Tu conosci - gli dice - profondamente tali interessi. - La corte ha molte memorie mie - risponde Conforti. - Sí, ma la rivoluzione ha fatto perdere tutto. Non saresti in grado di occupartici di nuovo? - E, cosí dicendo, gli fa quasi sperare in premio la vita. Conforti vi si occupa; Speziale riceve il lavoro del rispettabile vecchio; e, quando ne ebbe ottenuto l’intento, lo mandò a morire[3]. Qual mostro era mai questo Speziale! Non mai la sua anima atroce ha conosciuto altro piacere che quello di insultar gl’infelici. Si dilettava passar quasi ogni giorno per le prigioni a tormentare, opprimere colla sua presenza coloro che non poteva uccidere ancora. Se avea il rapporto di qualche infelice morto di disagio o d’infezione, inevitabile in carceri orribili, dove gli arrestati erano quasiché accatastati, questo rapporto era per lui l’annunzio di «un incomodo di meno». Un soldato insorgente uccise un povero vecchio, che per poco si era avvicinato ad una finestra della sua carcere a respirare un’aria meno infetta: gli altri della Giunta volean chieder conto di questo fatto: - Che fate voi? - disse Speziale; - costui non ha fatto altro che toglierci l’incomodo di fare una sentenza. - La moglie di Baffa gli raccomanda il suo marito... - Vostro marito non morrá - gli diceva Speziale; - siate di buon animo: egli non avrá che l’esilio. - Ma quando? - Al piú presto. - Intanto scorsero molti giorni: non si avea nuova della causa di Baffa. La moglie ritorna da Speziale, il quale si scusa che non ancora avea, per altre occupazioni, potuto disbrigar la causa del marito; e la congeda confermandole le stesse speranze che altra volta le avea date. - Ma perché insultare questa povera infelice? - gli disse allora uno che era presente al discorso... Baffa era stato giá condannato a morte; ma la sentenza s’ignorava dalla moglie. Chi può descrivere la disperazione, i lamenti, le grida, i rimproveri di quella moglie infelice? Speziale con un freddo sorriso le dice: - Che affettuosa moglie! Ignora finanche il destino di suo marito. Questo appunto io voleva vedere. Ho capito: sei bella, sei giovine, vai cercando un altro marito. Addio. - Sotto la direzione di un tale uomo, ciascuno può comprendere quale sia stata la maniera con cui sieno stati tenuti i carcerati. Quante volte quegli infelici hanno desiderata ed invocata la morte!... Ma la mia mente è stanca di piú occuparsi de’ mali dell’umanitá... Il mio cuore giá freme!
Note
CAPITOLO L
TALUNI PATRIOTI
Dopo la caduta della repubblica, Napoli non presentò che l’immagine dello squallore. Tutto ciò che vi era di buono, di grande, d’industrioso, fu distrutto; ed appena pochi avanzi de’ suoi uomini illustri si possono contare, scampati quasi per miracolo dal naufragio, erranti, senza famiglia e senza patria, sull’immensa superficie della terra. Si può valutare a piú di ottanta milioni di ducati la perdita che la nazione ha fatto in industrie; quasi altrettanto ha perduto in mobili, in argenti, in beni confiscati: il prodotto di quattro secoli è stato distrutto in un momento. Si son veduti de’ monopolisti inglesi mercanteggiare i nostri capi d’opera di pittura, che il saccheggio avea fatti passare dagli antichi proprietari nelle mani del popolaccio, il quale non ne conosceva né il merito né il prezzo. La rovina della parte attiva della nazione ha strascinata seco la rovina della nazione intera: tutto il popolo restò senza sussistenza, perché estinti furono o dispersi coloro che ne mantenevano o che ne animavano l’industria; e gli stessi controrivoluzionari piangono ora la perdita di coloro che essi stessi hanno spinti a morte. Aggiungete a questi danni la perdita di tutt’i princípi, la corruzione di ogni costume, funeste ed inevitabili conseguenze delle vicende di una rivoluzione; una corte che da oggi in avanti riguarda la nazione come estranea e crede ritrovar nella di lei miseria e nella di lei ignoranza la sicurezza sua; e l’uomo che pensa vedrá con dolore una gran nazione respinta nel suo corso politico allo stato infelice in cui era due secoli fa. Salviamo da tanta rovina taluni esempi di virtú: la memoria di coloro che abbiamo perduti è l’unico bene che ci resta, è l’unico bene che possiamo trasmettere alla posteritá. Vivono ancora le grandi anime di coloro che Speziale ha tentato invano di distruggere; e vedranno con gioia i loro nomi, trasmessi da noi a quella posteritá che essi tanto amavano, servir di sprone all’emulazione di quella virtú che era l’unico oggetto de’ loro voti. Noi abbiamo sofferti gravissimi mali; ma abbiam dati anche grandissimi esempi di virtú. La giusta posteritá obblierá gli errori che, come uomini, han potuto commettere coloro a cui la repubblica era affidata: tra essi però ricercherá invano un vile, un traditore. Ecco ciò che si deve aspettare dall’uomo, ed ecco ciò che forma la loro gloria. In faccia alla morte nessuno ha dato un segno di viltá. Tutti l’han guardata con quell’istessa fronte con cui avrebbero condannati i giudici del loro destino. Manthoné, interrogato da Speziale di ciò che avesse fatto nella repubblica, non rispose altro che: - Ho capitolato. - Ad ogni interrogazione non dava altra risposta. Gli fu detto che preparasse la sua difesa: - Se non basta la capitolazione, arrossirei di ogni altra. - Cirillo, interrogato qual fosse la sua professione in tempo del re, rispose: - Medico. - Nella repubblica? - Rappresentante del popolo. - Ma in faccia a me che sei? - riprese Speziale, che pensava cosí avvilirlo[1]. - In faccia a te? Un eroe. - Quando fu annunziata a Vitagliani la sua sentenza, egli suonava la chitarra; continuò a suonarla ed a cantare finché venne l’ora di avviarsi al suo destino. Uscendo dalle carceri, disse al custode: - Ti raccomando i miei compagni: essi sono uomini, e tu potresti esser infelice un giorno al pari di loro. - Carlomagno, montato giá sulla scala del patibolo, si rivolse al popolo e gli disse: - Popolo stupido! tu godi adesso della mia morte. Verrá un giorno, e tu mi piangerai: il mio sangue giá si rovescia sul vostro capo e, se voi avrete la fortuna di non esser vivi, sul capo de’ vostri figli. - Granalè dall’istesso luogo guardò la folla spettatrice: - Vi ci riconosco - disse - molti miei amici: vendicatemi! - Nicola Palomba era giá sotto al patibolo: il commesso del fisco gli dice che ancora era a tempo di rivelare de’ complici. - Vile schiavo! - risponde Palomba - io non ho saputo comprar mai la vita coll’infamia. - - Io ti manderò a morte - diceva Speziale a Velasco. - Tu?... Io morirò, ma tu non mi ci manderai. - Cosí dicendo, misura coll’occhio l’altezza di una finestra che era nella stanza del giudice, vi si slancia sotto i suoi occhi, e lascia lo scellerato sbalordito alla vista di tanto coraggio ed indispettito per aver perduto la vittima sua. Ma, se vi vuole del coraggio per darsi la morte, non se ne richiede uno minore per non darsela, quando si è certo di averla da altri. A Baffa[2], giá certo del suo destino, fu offerto dell’oppio. Egli lo ricusò; e, morendo, dimostrò che non l’avea ricusato per viltá. Era egli, al pari di Socrate, persuaso che l’uomo sia posto in questo mondo come un soldato in fazione e che sia delitto l’abbandonar la vita, non altrimenti che lo sarebbe l’abbandonare il posto. Questo sangue freddo, tanto superiore allo stesso coraggio, giunse all’estremo nella persona di Grimaldi. Era giá condannato a morte; era stato trattenuto dopo la condanna piú di un mese tra’ ferri; finalmente l’ora fatale arriva: di notte, una compagnia di russi ed un’altra di soldati napolitani lo trasportano dalla custodia al luogo dell’esecuzione. Egli ha il coraggio di svincolarsi dalle guardie; si difende da tutti i soldati, si libera, si salva. La truppa lo insiegue invano per quasi un miglio; né lo avrebbe al certo raggiunto, se, invece di fuggire, non avesse creduto miglior consiglio nascondersi in una casa, di cui trovò la porta aperta. La notte era oscura e tempestosa; un lampo lo tradí e lo scoperse ad un soldato, che l’inseguiva da lontano. Fu raggiunto. Disarmò due soldati, si difese, né lo potettero prendere se non quando, per tante ferite, era giá caduto semivivo. Quante perdite dovrá piangere, e per lungo tempo, la nostra nazione! Io vorrei poter rendere ai nomi di tutti quell’onore che meritano, e spargere sul loro cenere quei fiori che forse chi sa se essi avranno giammai! Ma chi potrebbe rammentarli tutti? Io non posso render a tutti quella giustizia che meritano, tra perché non ho potuto sapere tutto ciò ch’è avvenuto ne’ diversi luoghi del Regno, tra perché nella mia emigrazione non ho avuta altra guida che la mia memoria, la quale non ha potuto tutto ritenere. Mi sia perciò permesso trattenermi un momento sopra taluni piú noti. Caracciolo Francesco. Era, senza contraddizione, uno de’ primi geni che avesse l’Europa. La nazione lo stimava, il re lo amava; ma che poteva il re? Egli fu invidiato da Acton, odiato dalla regina, e perciò sempre perseguitato. Non vi fu alcuna specie di mortificazione a cui Acton non lo avesse assoggettato; si vide ogni giorno posposto... Caracciolo era uno di quei pochi che al piú gran genio riuniva la piú pura virtú. Chi piú di lui amava la patria? Che non avrebbe fatto per lei? Diceva che la nazione napolitana era fatta dalla natura per avere una gran marina, e che questa si avrebbe potuto far sorgere in pochissimo tempo; avea in grandissima stima i nostri marinari. Egli morí vittima dell’antica gelosia di Thurn e della viltá di Nelson... Quando gli fu annunziata la morte, egli passeggiava sul cassero, ragionando della costruzione di un legno inglese che era dirimpetto, e proseguí tranquillamente il suo ragionamento. Intanto un marinaro avea avuto l’ordine di preparargli il capestro: la pietá glielo impediva... Egli piangeva sulla sorte di quel generale, sotto i di cui ordini aveva tante volte militato. - Sbrigati - gli disse Caracciolo: - è ben grazioso che, mentre io debbo morire, tu debbi piangere. - Si vide Caracciolo sospeso come un infame all’antenna della fregata «Minerva»; il suo cadavere fu gittato in mare. Il re era ad Ischia, e venne nel giorno susseguente, stabilendo la sua dimora nel vascello dell’ammiraglio Nelson. Dopo due giorni il cadavere di Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi del re... Fu raccolto dai marinari, che tanto l’amavano, e gli furono resi gli ultimi offici nella chiesa di Santa Lucia, che era prossima alla sua abitazione; offici tanto piú pomposi quantoché senza fasto veruno e quasi a dispetto di chi allora poteva tutto, furono accompagnati dalle lagrime sincere di tutt’i poveri abitanti di quel quartiere, che lo riguardavano come il loro amico ed il loro padre. Simile a Caracciolo era Ettore Carafa. Quest’eroe, unitamente al suo bravo aiutante Ginevra, sostenne Pescara anche dopo le capitolazioni di Capua, Gaeta e Sant’Elmo. Caduto nelle mani di Speziale, mostrògli qual fosse il suo coraggio, ed andò a morte con intrepidezza e disinvoltura. Cirillo Domenico. Era uno de’ primi tra i medici di una cittá ove la medicina era benissimo intesa e coltivata; ma la medicina formava la minor parte delle sue cognizioni, e le sue cognizioni formavano la minor parte del suo merito. Chi può lodare abbastanza la sua morale? Dotato di molti beni di fortuna, con un nome superiore all’invidia, amico della tranquillitá e della pace, senza veruna ambizione, Cirillo è uno di quei pochi, pochi sempre, pochi in ogni luogo, che in mezzo ad una rivoluzione non amano che il bene pubblico. Non è questo il piú sublime elogio che si possa formare di un cittadino e di un uomo? Io era seco lui nelle carceri; Hamilton e lo stesso Nelson, a’ quali avea piú volte prestato i soccorsi della sua scienza, volevano salvarlo. Egli ricusò una grazia che gli sarebbe costata una viltá. Conforti Francesco. Si è giá detto il tratto di perfidia che gli usò Speziale. A questo si aggiunga che Conforti in tutto il corso della sua vita avea reso de’ servigi importanti alla corte; avea difesi i diritti della sovranitá contro le pretensioni di Roma; avea fissati i nuovi princípi per i beni ecclesiastici, princípi che riportavano la ricchezza nello Stato e la felicitá nella nazione; molte utili riforme erano nate per suo consiglio; la corte per sua opera avea rivendicati piú di cinquanta milioni di ducati in fondi... Conforti era il Giannone, era il Sarpi della nostra etá; ma avea fatto piú di essi, istruendo dalla cattedra e formando, per cosí dire, una gioventú nuova. Pochi sono i napolitani che sanno leggere, che non lo abbiano avuto a maestro. E quest’uomo, senza verun delitto, si mandò a morire! Egli riuniva eminentemente tutto ciò che formava l’uomo di lettere e l’uomo di Stato. Pagano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l’orme di Pagano, che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico. Pimentel Eleonora Fonseca. «Audet viris concurrere virgo». Ma essa si spinse nella rivoluzione, come Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora, questa donna avea meritata l’approvazione di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che l’adornavano. Nell’epoca della repubblica scrisse il Monitore napolitano, da cui spira il piú puro ed il piú ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un’indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo, volle bevere il caffè, e le sue parole furono: - «Forsan haec olim meminisse iuvabit». - Russo Vincenzio. È impossibile spinger piú avanti di quello che egli lo spinse l’amore della patria e della virtú. La sua opera de’ Pensieri politici è una delle piú forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l’avrebbe resa anche migliore, rendendola piú moderata. La sua eloquenza popolare era sublime, straordinaria... Egli tuonava, fulminava: nulla poteva resistere alla forza delle sue parole... Sarebbe stato utile che si fossero raccolte delle memorie sulla sua condotta nel carcere. Egli fu sempre un eroe. Giunto al luogo del supplizio, parlò lungamente con un tuono di voce e con un calore di sentimento, il quale ben mostrava che la morte potea distruggerlo, non mai però il suo aspetto poteva avvilirlo. Quasi cinque mesi dopo, ho inteso raccontarmi il suo discorso dagli uffiziali che vi assistevano, con quella forte impressione che gli spiriti sublimi lascian perpetua in noi, e con quella specie di dispetto con cui gli spiriti vili risentono le irresistibili impressioni degli spiriti troppo sublimi... Oh! se la tua ombra si aggira ancora intorno a coloro che ti furono cari, rimira me, fin dalla piú tenera nostra adolescenza tuo amico, che piango, non te (a te che servirebbe il pianto?), ma la patria per cui inutilmente tu sei morto. Federici Francesco. Era maresciallo in tempo del re; fu generale in tempo della repubblica. Il ministro di guerra lo rese inutile, mentre avrebbe potuto esser utilissimo. La stessa ragione lo avea reso inutile in tempo del re. Egli sapeva profondamente l’arte della guerra; ma insieme coll’arte della guerra egli sapeva mille altre cose, che per lo piú ignorano coloro che sanno l’arte della guerra. Il suo coraggio nel punto della morte fu sorprendente. Scotti Marcello. È difficile immaginare un cuore piú evangelico. Egli era l’autore del Catechismo nautico, opera destinata all’istruzione de’ marinai dell’isola di Procida, sua patria, che meriterebbe di esser universale. Nella disputa sulla «chinea» scrisse, sebben senza suo nome, l’opera della Monarchia papale, di cui non si era veduta l’eguale dopo Sarpi e Giannone. Nella repubblica fu rappresentante. Morí vittima dell’invidia di taluni suoi compatrioti. Parlando di Scotti, la mia memoria mi rammenta il virtuoso vescovo di Vico, il rispettabile prelato Troise, e chi no? Figli della patria! La vostra memoria è cara, perché è la memoria della virtú. Verrá, spero, quel giorno in cui, nel luogo istesso nobilitato dal vostro martirio, la posteritá, piú giusta, vi potrá dare quelle lodi che ora sono costretto a chiudere nel profondo del cuore e, piú felice, vi potrá elevare un monumento piú durevole della debole mia voce[3].
Note
CAPITOLO LI
CONCLUSIONE
Il re, strascinato da’ falsi consigli, produsse la rovina della nazione. I suoi ministri o non amavano o non curavano la nazione: dovea perciò perdersi, e si perdette. I repubblicani, colle piú pure intenzioni, col piú caldo amor della patria, non mancando di coraggio, perdettero loro stessi e la repubblica, e caddero colla patria, vittime di quell’ordine di cose, a cui tentarono di resistere, ma a cui nulla piú si poteva fare che cedere. Una rivoluzione ritardata o respinta è un male gravissimo, da cui l’umanitá non si libera se non quando le sue idee tornano di nuovo al livello coi governi suoi; e quindi i governi diventano piú umani, perché piú sicuri; l’umanitá piú libera, perché piú tranquilla; piú industriosa e piú felice, perché non deve consumar le sue forze a lottare contro il governo. Ma talora passano de’ secoli e si soffre la barbarie, prima che questi tempi ritornino; ed il genere umano non passa ad un nuovo ordine di beni se non a traverso degli estremi de’ mali. Quale sará il destino di Napoli, dell’Italia, dell’Europa? Io non lo so: una notte profonda circonda e ricopre tutto di un’ombra impenetrabile. Sembra che il destino non sia ancora propizio per la libertá italiana; ma sembra dall’altra parte che egli, col nuovo miglior ordine di cose, non ne tolga ancora le speranze, e fa che gli stessi re travaglino a preparar quell’opera che con infelice successo hanno tentata i repubblicani. Forse la corte di Napoli, spingendo le cose all’estremo, per desiderio smoderato di conservare il Regno, lo perderá di nuovo; e noi, come della prima è avvenuto, dovremo alla corte anche la seconda rivoluzione, la quale sará piú felice, perché desiderata e conseguíta dalla nazione intera per suo bisogno e non per solo altrui dono. Queste cose io scriveva sul cader del 1799, e gli avvenimenti posteriori le hanno confermate. La corte di Napoli ha prodotto un nuovo cangiamento politico; e questo, diretto da altre massime, può produrre nel Regno quella felicitá che si sperò invano dal primo. Dal 1800 fino al 1806 abbiamo veduto la corte di Napoli seguir sempre quelle stesse massime dalle quali tanti mali eran nati; la Francia, al contrario, cangiar quegli ordini, da’ quali, siccome da ordini irregolarissimi, nessun bene e nessuna durevolezza di bene poteva sperarsi; e si può dire che alla nuova felicitá, che il gran Napoleone ora ci ha data, abbiano egualmente contribuito e l’ostinazione della corte di Napoli ed il cangiamento avvenuto nella Francia. Per effetto della prima gli stessi errori han confermata ed accresciuta la debolezza del Regno: nell’interno lo stesso languor di amministrazione, la stessa negligenza nella milizia, la stessa inconseguenza ne’ piani, diffidenza tra il governo e la nazione, animositá, spirito di partito piú che ragione; nell’esterno la stessa debolezza, la stessa audacia nelle speranze e timiditá nelle imprese, la stessa malafede: non si è saputo né evitar la guerra né condurla; si è suscitata, e si è rimasto perdente. Per effetto del secondo, nella Francia gli ordini pubblici sono divenuti piú regolari: i diversi poteri piú concordi tra loro: il massimo tra essi piú stabile, piú sicuro; perciò meno intento a vincer gli altri che a dirigerli tutti al bene della patria: le idee si sono messe al livello con quelle di tutte le altre nazioni dell’Europa; perciò minore esagerazione nelle promesse, animositá minore ne’ partiti, facilitá maggiore dopo la vittoria di stabilire presso gli altri popoli un nuovo ordine di cose: il potere piú concentrato; onde meno disordine e piú concerto nelle operazioni de’ comandanti militari, abuso minore nell’esercizio de’ poteri inferiori, maggiore prudenza, perché comune a tutti e dipendente dalla stessa natura comune degli ordini e non dalla natura particolare degl’individui: al sistema di democratizzazione sostituito quello di federazione, il quale assicura la pace, che è sempre per i popoli il maggiore de’ beni; e che finalmente ha procurati all’Italia tutti que’ vantaggi che non poteva avere col sistema precedente, secondo il quale si voleva amica e si temeva rivale; onde, non formando mai in essa uno Stato forte ed indipendente, andava a distruggersi interamente: e finalmente, oltre tutti questi beni, il dono grandissimo di un re che tutta l’Europa venerava per la sua mente e pel suo cuore. Me felice, se la lettura di questo libro potrá convincere un solo de’ miei lettori che lo spirito di partito nel cittadino è un delitto, nel governo una stoltezza; che la sorte degli Stati dipende da leggi certe, immutabili, eterne, e che queste leggi impongono ai cittadini l’amor della patria, ai governi la giustizia e l’attivitá nell’amministrazione interna, il valore, la prudenza, la fede nell’esterna; che alla felicitá de’ popoli sono piú necessari gli ordini che gli uomini; e che noi, dopo replicate vicende, siamo giunti ad avere al tempo istesso ordini buoni ed un ottimo re; e che la memoria del passato deve esser per ogni uomo, che non odia la patria e se stesso, il piú forte stimolo per amare il presente.
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