Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

La controrivoluzione vive ancora

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Ringraziamo Claudio Pellone e Antonella Orefice per averci invitato il 23 gennaio a partecipare alla riflessione sul rapporto di Napoli con la rivoluzione. Noi della Società di studi politici stiamo facendo nel nostro piccolo una rivoluzione nel modo di concepire la cultura e gli studi. Abbiamo creato un gruppo di lavoro sui temi della filosofia politica e della storia, formato da studenti, ricercatori, docenti, di diversa provenienza disciplinare, e stiamo cercando di fare ricerca in un modo nuovo, al di là degli schemi scolastici e universitari, nel tentativo di costituirci come gruppo di studio indipendente dai poteri forti.

Il 1799 è uno dei momenti storici che stiamo cercando di approfondire tramite delle letture in comune: attualmente stiamo studiando un autore che è considerato il maestro di tutta una generazione di pensatori rivoluzionari, Antonio Genovesi.

Ma il punto che vorrei trattare oggi è l’idea per cui la rivoluzione nel 1799, in realtà, non c’è mai stata. Ricapitolo brevemente alcuni eventi. L’esercito francese entra a Roma e conquista il regno del Papa. Ferdinando IV di Borbone va in soccorso del grande vecchio e subisce una sconfitta tanto vergognosa che è costretto a fuggire, calandosi nelle vesti del duca d’Ascoli per non farsi riconoscere. Mentre l’esercito francese guidato da Championnet si avvicina a Napoli per finire il lavoro iniziato a Roma, il Borbone è preso da un tale coraggio che organizza la sua fuga a Palermo con tutta la famiglia, compresa la corte e le suppellettili e, prima di partire, il cuore gli si apre a tal punto che non gli è possibile resistere dal lasciare alla città un delizioso ricordo di sé: autorizza l’ammiraglio Nelson a bruciare l’intera flotta del Regno.

 

Dopo la partenza del Re, abbiamo qualche goffo tentativo da parte della nobiltà dei sedili di mettersi d’accordo con la plebe per un governo provvisorio, tentativi che vanno tutti a vuoto e che si chiudono nell’esplosione della violenza, dei saccheggi, degli omicidi. A Napoli non esisteva un vero e proprio partito repubblicano, ma di fronte allo spettacolo della completa anarchia in cui il Re aveva lasciato il Regno, gli uomini più coraggiosi e amanti della patria – che a torto furono chiamati giacobini perché il loro vero appellativo era quello di patrioti – decisero di accordarsi col generale Championnet per rifondare l’ordine politico e civile. Fu così istituito un governo provvisorio incaricato di redigere la nuova costituzione, una costituzione basata sui principi di giustizia, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà, i più avanzati che vi fossero in quel momento in Europa.

Questa non si può definire una rivoluzione, se con ciò noi vogliamo equiparare gli eventi di Napoli a quelli di Parigi, perché a Napoli non c’era quello oggi si definirebbe “soggetto rivoluzionario”, ovvero non c’era una borghesia, come quella francese, a sostegno del nuovo governo. Noi, però, possiamo vederla ugualmente come una rivoluzione, se con ciò intendiamo quello che intendeva Platone: ovvero un cambiamento radicale dei principi e della politica di un Regno (non solo degli uomini che sono transeunti), un cambiamento per cui al governo arbitrario di un uomo che aveva il solo merito di essere figlio di Re, fu sostituito un governo di “filosofi”; perché effettivamente i fondatori della Repubblica partenopea del 1799 – che come prima legge abolirono i fedecommessi e avevano già preparato la legge di soppressione dei privilegi feudali – non erano soltanto avvocati, giuristi, scienziati, poeti, scrittori, di fama internazionale, ma erano filosofi in senso proprio e umanisti, ossia amanti del sapere e amanti dell’umanità.

E ora veniamo, invece, alla controrivoluzione. Abbiamo detto che il 1799 rappresenta la istituzione di un nuovo ordine nei principi e nelle idee che stanno alla base dello Stato e di tutte le sue leggi, un ordine rispondente al senso di giustizia, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà che ogni uomo, in quanto tale, è capace di sentire e di comprendere, se non è troppo corrotto da una falsa educazione (avrebbe detto Antonio Genovesi). Noi, invece, che cosa vediamo oggi? Vediamo che si governa da decenni per mezzo dell’assenza di leggi o tramite leggi che usurpano il titolo di leggi e offendono il diritto dei popoli.

Gli esempi sono numerosi e non c’è il tempo di richiamarli tutti. Si pensi, però, alla legge sull’Aima per il sostegno dell'agricoltura nell’Italia meridionale (risalente agli anni Sessanta), che ha sicuramente costituito, per vastità di intervento e per quantità di risorse stanziate, uno dei progetti più nefasti – a causa dell’assenza di controlli efficaci – per l'economia, la vita sociale e politica del Mezzogiorno. Miliardi e miliardi, destinati al sostegno degli agricoltori con il sistema del macero, sono transitati dalle casse pubbliche, europee ed italiane, nelle mani della criminalità organizzata, che con i mezzi che le sono propri, si è imposta sui contadini depredando tutte le risorse e costituendo così il proprio capitale finanziario.

Lo stesso si può dire – ma questa volta con la complicità attiva della classe ben più agiata e colta, dei professionisti – per la legge sul disinquinamento del golfo di Napoli tramite opere di depurazione delle acque reflue: il progetto PS3 della Cassa del Mezzogiorno. Una colossale opera inutile e inquinante che ha sconvolto il tracciato dei regi lagni nella terra di lavoro e ha creato un altro buco nel bilancio pubblico, dove tutto si mischia e si confonde in un caos nocivo alla salute e vitale alla corruzione e alla criminalità delle professioni.

I 59 mila miliardi della ricostruzione del terremoto dell’Irpinia hanno segnato il consolidamento di quello che il meridionalista Pasquale Saraceno chiamava “blocco sociale”, cioè l’unione di politici, amministratori, industriali e professionisti corrotti, e criminalità organizzata. Il caos dilagò in innumerevoli paesi, città e campagne dell’area considerata colpita dal sisma grazie alla madre delle leggi criminogene: l. n. 219/1981.

Così consolidato sul piano finanziario e istituzionale, il blocco sociale procedette alla creazione di una serie di leggi criminogene che sconvolsero definitivamente il sistema giuridico del nostro paese: la l. n. 488 e la l. n. 123/2008 sono degli esempi di quanto è accaduto, insieme alla “riforma della pubblica amministrazione” delle leggi Bassanini che culminarono nella riforma del titolo V della Costituzione, un provvedimento che – come ha più volte denunciato la Corte Costituzionale – mandò in confusione lo stesso dettato costituzionale italiano.

Infine, l’emergenza rifiuti, con tutta la sua produzione perversa di decreti alieni dai fini pubblici, è stata, in pratica, la sospensione permanente (perché 15 anni non sono una settimana) di un intero corpo di leggi giuste, che erano state redatte per la difesa della salute, dell’ambiente, dei diritti civili e delle casse pubbliche. In tutti questi settori della vita pubblica, almeno a Napoli e dintorni, non ha governato la legge in questi ultimi 15 anni, ma ha governato l’arbitrio e il potere dei gruppi più forti di scavalcare le leggi o di deviarle in loro favore.

Noi crediamo che si debba vedere allo stesso modo la crisi economica, perché se i responsabili non saranno individuati e costretti a restituire il maltolto e se si continuerà a indicare la crisi come qualcosa che c’è, che esiste, in modo fatalistico, e di cui tutti devono fare le spese, senza una responsabilità penale, civile e morale ben chiara, allora essa servirà solo come un pretesto per rimandare una riflessione sincera su quello che è successo e sta succedendo nel nostro paese e per evitare ancora una volta un cambiamento radicale nei principi e nelle leggi che stanno alla base del nostro Stato.

Il mondo della cultura e della ricerca può fare molto per impedire che sia messo da parte il problema della “verità storica”. Gli studenti, i ricercatori, ma anche tanti cittadini autodidatti che hanno avuto il coraggio di rimettersi a studiare e a comunicare tra loro per risolvere problemi comuni a tutti, hanno il compito, oggi, di sorvegliare il discorso pubblico, di sollevare obiezioni quando questo discorso è fallace e ingiusto, di proteggere coi mezzi della civiltà e dell’intelligenza collettiva i beni comuni e i principi universali che stanno alla base della loro convivenza. E’ chiaro, però, che se quella parte attiva della popolazione che viene chiamata “società civile” finirà per subordinare lo scopo comune ai propri interessi particolari, alle proprie vanità e velleità, allora, continuerà a trionfare il peggio che è in noi, “mafia, camorra e teppa” (come diceva Benedetto Croce) e ignoranza, mediocrità, viltà.

Questa è la controrivoluzione che vive ancora, tra noi e anche dentro di noi. Staremmo quasi per dire, quindi, che la controrivoluzione va avanti indisturbata… Ma questo non è vero. C’è qualcuno che sta imparando a disturbare il lavoro della controrivoluzione, delle forze antistoriche (come dice l’avvocato Marotta), che sta imparando a dare del filo da torcere a chi vorrebbe sostituire il proprio arbitrio alla legge in questioni che riguardano la vita, la salubrità e la pace di una città. E disturbatori della quiete controrivoluzionaria stanno diventando anche molti napoletani, tutti quei napoletani che si associano e si assoceranno per far valere, ogni giorno, le ragioni di una legge più giusta, di un costume meno volgare, di un governo più saggio e soprattutto più umano di quello attuale. Credo che questa sia rivoluzione.


[di Luigi Bergantino e Milena Cuccurullo - Società di studi politici ]

 

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