L’apostolo Paolo: cronaca di un naufragio annunziato
Poco o nulla si conosceva sulle vele delle antiche navi romane sino a quando, nel 1863, in un fondo del Principe Alessandro Torlonia, sito a destra del Tevere (rispetto alla direzione del flusso d’acqua), dove un tempo esisteva l’emporio navale romano, gli scavi ordinati dal proprietario portarono alla luce un bassorilievo in marmo del II - III secolo d.C. raffigurante due navi da carico, una in avvicinamento al molo e una già ormeggiata, con gli operai addetti allo scarico delle anfore trasportate e a varie attività manuali. Non che al principe di Torlonia importasse gran che degli scavi archeologici, avendo in mente di mutare il porto di Claudio in un vivaio di ostriche.1 Il marmo, conservato nel museo Torlonia di Roma, misura metri 1,225 di larghezza, m 0,743 di altezza e raffigura, oltre alle navi e ad immagini di lavoro, anche alcuni monumenti coi relativi piedistalli che ornavano le banchine del porto. Tre anni dopo la scoperta e il trasporto a Roma del bassorilievo, il Domenicano P. Alberto Guglielmotti (1812- 1893), appassionato studioso delle cose di mare 2 proveniente da una famiglia dedita al commercio marittimo, illustrò il bassorilievo, sciogliendo peraltro alcune questioni allora molto dibattute sulla forma e la funzionalità delle vele romane, in due adunanze (3 maggio e 13 giugno 1866), alla presenza dei soci dell’Accademia Archeologica di Roma.3
Nella sala dell’Accademia, durante la lettura, erano esposti il calco in gesso del bassorilievo e una foto dell’originale.4 Le due navi raffigurate sono chiaramente da carico, difettando di ogni elemento che contraddistingueva le navi da guerra, sottili e allungate, munite di rostro e con lance, spade, scudi e cimieri, usualmente disposti lungo le fiancate e soprattutto di remi, disposti su uno o più livelli, indispensabili per le manovre nel caso di battaglie navali. Indimenticabile rimane la ricostruzione della battaglia navale e l’attività febbrile dei rematori nel film Ben-Hur diretto da William Wyler nel 1959. Le navi da carico, sprovviste di remi e di rematori, avevano invece aspetto tondeggiante, col ventre gonfio e manovravano unicamente servendosi della velatura e dei timoni posti ai due lati della poppa. Dagli ornamenti e dalle anfore che si stanno scaricando si deduce che si tratta di navi vinarie. Le misure della nave in primo piano, dedotte da Guglielmotti, sono di metri 15 di lunghezza e metri quattro di larghezza in mezzeria, quindi, di modeste dimensioni. L’altezza della stiva, al centro, misura metri 1,75, con capienza intorno alle 2000 anfore di 25 litri ciascuna, del peso complessivo di 50 tonnellate L’emporium, nonostante il successivo ampliamento e miglioramento operato da Traiano, i cui lavori durarono dal 100 al 112, venne abbandonato nel IV secolo a causa del trasporto solido delle piene del Tevere che lo andarono via via interrando. La prora, parte anteriore della nave, è ornata con l’incisione di un piccolo Bacco con otri. Il corpo appare formato da tre corsi di tavole e di altrettante piccole cinte di rinforzo, poste sopra le coste e sul fasciame per legare e irrigidire l’intero corpo della nave. Sulla poppa, che costituisce la parte posteriore dell’imbarcazione, trova posto, in particolare, il marinaio addetto alla manovra del timone c.d. alla latina, composto da due elementi a forma di lunghe pale ai due lati della poppa che, mosse dal timoniere con apposite barre di legno, governano a contrasto: una di taglio e l’altra di piatto. Sopra l’alloggiamento dei marinai, sulla tolda, è in corso un sacrificio votivo, senz’altro di ringraziamento per la buona traversata. Sulle navi dell’epoca era posto in atto, alla bisogna, un dispositivo detto ipozoma, composto da una sorta di imbracatura di corde passate sotto la chiglia e strette sul ponte, avente lo scopo di serrarne meglio il corpo che, inevitabilmente, per il caso di tempesta, sotto l’urto delle onde, tendeva a sfasciarsi. La parte che però gettava finalmente luce su un argomento controverso e tanto dibattuto nel passato, erano le vele e le alberature. Un unico albero (albero maestro), che dal bassorilievo si deduce alto circa dodici metri, sormontato da un pomo (malus) e tenuto dritto da robusti cordami (sartie), sosteneva tre distinti ordini di velature. La vela maestra (acatus), quadrata (c.d. latina), veniva issata per volgerla al vento mediante un’antenna trasversale di legno denominata pennone, più grossa in centro e via via assottigliandosi verso le estremità, manovrata mediante una corda denominata drizza. L’acato (vela maestra) misurava circa dieci metri di larghezza e 6 metri e ¼ di altezza, con superficie capace di accogliere il vento di 62,5 mq, ornata con le classiche figure della lupa che allatta i gemelli. Al disopra della vela maestra sono due vele triangolari nominate Artimone (velatura di secondo ordine) fissate inferiormente al pennone, la cui funzione era quella di sfruttare la forza del vento per dirigere la nave da uno o dall’altro lato. Al disopra dell’artimone è evidente una terza, piccola velatura (suppara), anch’essa composta da due teli triangolari e comune a tutte le navi romane, avente lo scopo di aumentare la superficie a vento. Era la sola impiegata per il lento avvicinamento ai moli. In definitiva, la sùppara, l’artimone e l’acatus, tre ordini di vele sovrapposte, sostenute dal medesimo albero e governate dallo stesso pennone, costituivano la velatura delle navi romane da carico. Una volta in porto, l’imbarcazione veniva assicurata al molo con appositi canapi ma quando doveva stazionare in mare era tenuta ferma, affinché non andasse alla deriva, da una o più ancore di ferro con raffi uncinati, assicurate all’imbarcazione da altrettante gomene, grosse funi di canapa. Tra le attrezzature di bordo una delle più importanti rimaneva lo scandaglio, un peso in piombo tenuto da una fune, che serviva a misurare la profondità del fondale dal pelo libero dell’acqua. Molto conosciute in epoca romana erano le navi alessandrine, grossi bastimenti della pubblica annona, capaci di mille a duemila tonnellate di grano, che facevano la spola tra Alessandria d’Egitto e i porti romani d’Italia. Quelle navi erano facilmente distinguibili anche da lontano per la grande sùppara posta sulla sommità dell’albero maestro, tra il pomo e la velatura inferiore. Contrariamente a tutte le altre navi, le sole alessandrine si vedevano tornare con le sùppare spiegate, che garantivano la spinta necessaria a tanto peso per una lenta, sicura manovra di avvicinamento alla banchina del porto. La navigazione per Alessandria con le stive vuote iniziava dal porto marittimo (e non fluviale) sito 4 Km a nord di Ostia i cui lavori, iniziati da Claudio nel 42, furono terminati da Nerone nel 54. Prima di allora il porto fluviale, sito alla foce del Tevere, non consentiva l’attracco di grandi navi, che dovevano essere scaricate al largo. Le navi facevano quindi vela per Pozzuoli e Reggio. Da qui, per Alessandria, il tragitto si compiva in unica tappa. Il viaggio di ritorno con la stiva carica di grano era più lungo e articolato. Si toccava dapprima il porto di Pafo a Cipro, quindi si costeggiava la costa della Licia a nord dell’isola di Rodi e poi il lato sud dell’isola di Creta, arrivando a Reggio e Pozzuoli e infine al portus di Claudio ma talora il trasporto del grano da Pozzuoli a Roma avveniva via terra. L’Apostolo Paolo era un giudeo nativo di Tarso, città dell’Asia Minore sita ad una ventina di chilometri dal Mediterraneo e sede del governatorato romano della Cilicia. Di ritorno in nave da un viaggio nella Galazia, Frigia, Macedonia e Grecia, salpato da Efeso, dopo uno scalo a Tiro e Tolemaide, giunse al porto di Cesarea e da qui, via terra a Gerusalemme dove, dodici giorni dopo, nel Tempio, i giudei dell’Asia gli aizzarono contro una moltitudine che lo malmenò, cercando di ucciderlo. Salvato dalla furia della folla per l’intervento della milizia romana di stanza a Gerusalemme, fu condotto nella fortezza detta Mole Antonia, adiacente al muro di cinta del Tempio, alla quale si accedeva dalla città bassa mediante una lunga gradinata, dalla quale gli fu concesso di parlare al popolo. Dopo un lungo, appassionato discorso, la folla inferocita continuava a chiederne la morte e così fu condotto nella fortezza, dove fu disteso e legato per essere flagellato ma Claudio Lisia, Tribuno di Roma, avvisato dal centurione che Paolo era romano di nascita, ebbe paura perché lo aveva fatto legare e rinunziò a farlo fustigare. Siamo intorno all’anno 58 d. C., Roma era padrona del Mediterraneo e il portus di Claudio cominciava a funzionare a pieno ritmo. Da qui comincia la lunga peripezia che lo condusse dapprima in catene e sotto scorta armata a Cesarea e rinchiuso nelle segrete del palazzo di Erode, da dove fu fatto comparire davanti al governatore della Giudea Marco Antonio Felice, marito di Drusilla, donna ebrea figlia minore di Agrippa I e sorella di Berenice e di Erode Agrippa II. Felice, per far cosa grata ai giudei, tenne rinchiuso Paolo nelle prigioni di Cesarea per due anni, sino a che non fu sostituito nel governo della Giudea da Porcio Festo, al quale si appellò per difendere la sua causa a Roma, davanti a Cesare, al che Festo: “Ti sei appellato a Cesare, a Cesare andrai”. In quei giorni Festo ricevette a Cesarea la visita di Re Agrippa e di Berenice davanti ai quali, in un lungo discorso nella sala d’udienze coi tribuni e i notabili della città, Paolo proclamò Cristo e la resurrezione dai morti. Stabilita la partenza per l’Italia, venne consegnato a un centurione della coorte Augusta di nome Giulio e fatto salire, con altri prigionieri, nel porto di Cesarea, su una nave Adramittina.5 Dopo uno scalo a Sidone la nave fece vela per le coste dell’Asia (odierna parte occidentale della Turchia) ma, avendo i venti contrari, fu costretta a costeggiare l’isola di Cipro e, transitando attraverso il mar di Cilicia e il mar di Panfilia, giunse infine nel porto di Mira, capoluogo della Licia.6 Vi era qui ormeggiata una grossa nave alessandrina che col suo carico di grano faceva vela per l’Italia e il centurione vi fece montare i suoi prigionieri. In tutto, tra marinai, soldati e prigionieri, pilota e proprietario, la nave ospitava 276 persone. Navigando lentamente e per molti giorni a causa del vento contrario e oltrepassato lo stretto braccio di mare tra Rodi e la costa asiatica dirimpetto a Cnido, la nave s’avventurò in alto mare diretta a Creta dove, doppiato il Capo Salmone, approdò finalmente a Beiporti, città marinara a sud dell’isola, vicino alla città di Lasea. La ricorrenza ebraica dell’Espiazione (Yom Kippur), giorno di digiuno che cadeva nel calendario ebraico il decimo giorno del mese di Tishri (intorno ai primi di ottobre) era già passata, la navigazione cominciava a diventare pericolosa e le navi svernavano prudentemente nei vari porti del Mediterraneo, sino all’inizio della primavera. Poiché il porto dove aveva attraccato la nave non era adatto a svernare, il pilota e il proprietario della nave insieme ai più della ciurma, essendosi levato un leggero vento di scirocco, decisero di levare le ancore e di raggiungere il più sicuro porto di Fenice «che guarda a Libeccio e a Maestro», posto a sud della medesima isola di Creta, e di passarvi l’inverno, nonostante il parere contrario di Paolo: «Uomini, io veggo che la navigazione si farà con pericolo e grave danno, non solo del carico e della nave, ma anche delle nostre stesse persone» (Atti 27:10). Iniziarono così a costeggiare «più da presso» l’isola di Creta ma di lì a poco si scatenò giù dall’isola un vento impetuoso che i marinai chiamavano Euraquilone o anche Grecale, uno dei più violenti e pericolosi del Mediterraneo. La nave, incapace di reggere al vento e impossibilitata di ogni manovra, fu lasciata andare ed era portata alla deriva. Sospinta dalla furia del vento e delle acque, passò rapidamente in vicinanza di un’isoletta chiamata Clauda a Sud di Creta, dopodiché fu messo in atto ogni accorgimento per evitare che la nave si sfasciasse all’urto delle onde. Issata faticosamente a bordo la scialuppa, con le vele ammainate per la paura di essere sbattuti sulle sabbie libiche della Sirti, la nave fu imbracata con cordame per evitare lo scollamento del fasciame. Il secondo giorno cominciarono a gettare il carico fuori bordo per alleggerire la nave e il terzo giorno fecero altrettanto con gli arredi ma, trascorsi ancora molti giorni, la tempesta non accennava a placarsi, nel cielo non si vedeva alcuna schiarita ed era svanita dalla mente degli uomini ogni speranza di salvezza. La quattordicesima notte che la nave era sballottata senza governo per il mare fu calato lo scandaglio che misurò venti braccia di profondità, più in là quindici braccia e, temendo d’infrangersi sugli scogli, calarono da poppa quattro ancore. Per evitare il tentativo di diserzione da parte di alcuni marinai che volevano abbandonare la nave, furono tagliate le funi della scialuppa che avevano già calata in mare, lasciandola alla deriva. Prima che albeggiasse Paolo esortò tutti a prendere cibo dopo di che, per alleggerire la nave, finirono di gettare il grano in mare. Fattosi giorno erano in vista della terra e non riconoscevano quale fosse ma, avendo intravisto una baia con la spiaggia, deliberarono di spingervi la nave. Dopo avere staccato le ancore lasciandole al mare, legati i timoni e alzato l’artimone al vento, fecero incagliare la nave sulla spiaggia e mentre la prua, incagliata, rimaneva immobile, la poppa si sfasciava per l’urto delle onde. I soldati volevano uccidere i prigionieri affinché non raggiungessero a nuoto la riva ma il centurione, volendo salvare Paolo, li distolse da quel proposito e così chi a nuoto, chi su tavole o altri mezzi di fortuna, tutti giunsero salvi a terra, riconoscendo in quella l’isola di Malta e trovando buona accoglienza tra i suoi abitanti. E così tutti, per la volontà di Dio, furono salvi «Paolo, non temere; bisogna che tu comparisca dinanzi a Cesare, ed ecco, Iddio ti ha donato tutti coloro che navigano teco.» (Atti 27:24) Trascorso l’inverno sull’isola, tre mesi dopo s’imbarcarono su una nave alessandrina che vi aveva svernato e aveva per insegna Castore e Polluce e, dopo tre giorni di sosta a Siracusa, proseguirono per Reggio, giungendo infine a Pozzuoli, ultimo scalo della nave. Proseguendo via terra, Paolo fu condotto a Roma per la via del Foro Appio e delle Tre Taverne, dove rimase per due anni dopo essere stato liberato, dimorando in una casa presa in affitto. Dopo di che, di lui non si sa più nulla, a parte le storielle raccontate dai soliti affabulatori, come quella «di S. Pietro crocifisso capofitto sul Gianicolo, là dove Costantino eresse un oratorio e più tardi Ferdinando e Isabella di Spagna edificarono la basilica di S. Pietro in Montorio, donde il campanile domina la città e la circostante campagna.»7 La vita di Paolo non era mai stata facile, tre volte aveva fatto naufragio e una volta era rimasto sospeso sull’abisso per un giorno e una notte, come lui stesso ebbe a raccontare in una lettera alla Chiesa di Corinto. «Sono spesso stato in pericolo di morte. Dai Giudei cinque volte ho ricevuto quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe; una volta sono stato lapidato; tre volte ho fatto naufragio; ho passato un giorno e una notte sull’abisso. Spesse volte in viaggio, in pericoli sui fiumi, in pericoli di ladroni, in pericoli per parte de’ miei connazionali, in pericoli per parte dei Gentili, in pericoli in città, in pericoli nei deserti, in pericoli sul mare, in pericoli tra falsi fratelli; in fatiche ed in pene; spesse volte in veglie, nella fame e nella sete, spesse volte nei digiuni, nel freddo e nella nudità. E per non parlar d’altro, c’è quel che m’assale tutti i giorni, l’ansietà per tutte le chiese.» (II Cor. 11:24-28) Da lì a dieci anni (70 d. C.) le legioni romane, al comando di Tito, figlio di Vespasiano, cinsero d’assedio Gerusalemme e il Tempio, orgoglio della Nazione Giudaica, distrutto e dato alle fiamme, la città devastata, le mura abbattute e la popolazione deportata (Giuseppe Flavio, Storia della Guerra Giudaica).8 Alcuni arredi saccheggiati dal Tempio e portati a Roma tra cui la Menorah, candelabro a sette bracci, fanno ancora bella vista nei bassorilievi dell’arco di Tito. Era avvenuto quanto profetizzato da Gesù: «Gerusalemme, Gerusalemme… ecco, la vostra casa sta per esservi lasciata deserta…» E riguardo al Tempio: «Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata.» (Matteo 23:37 a 24:2) Per finire, una parola di speranza per tutti: giudei e gentili. «Perché, fratelli, non voglio che ignoriate questo mistero, affinché non siate presuntuosi; che cioè, un induramento parziale s’è prodotto in Israele, finché sia entrata la pienezza dei Gentili; e così tutto Israele sarà salvato, secondo che è scritto: Il liberatore verrà da Sion; Egli allontanerà da Giacobbe l’empietà; e questo sarà il mio patto con loro, quand’io torrò via i loro peccati…. perché i doni e la vocazione di Dio sono senza pentimento» (Romani cap. 9 a 11)9
Note 1. Jessie White Mario, Il Tevere, Nuova Antologia, 20 gennaio 1879. 2. Una rapida biografia compare nella Nuova Antologia del 1893 e negli Atti della R. Accademia della Crusca del 1895. Le sue opere maggiori sono la Storia della marina pontificia (I ediz. Le Monnier, 1871), e il Vocabolario marino e militare, pubblicato a Roma nel 1889. 3. Rivista Marittima – Anno VII -1874, fasc. I, pagine 69-115 e fascicolo II, pagine 273-325. Il lavoro è stato ripubblicato dagli editori Cotta e Comp. di Roma nel medesimo anno con il titolo: Delle due navi romane scolpite sul bassorilievo portuense del principe Torlonia. 4. Nel disegno tratto dall’originale, in appendice al libro di Guglielmotti, è aggiunta la scala grafica e la ricostruzione di alcune parti mancanti del bassorilievo. 5. Adramitto era una città portuale della Misia, nominata oggi Edremit e posta nell’omonimo golfo turco, in faccia all’isola greca di Mitilene (V. cartina). 6. In autunno i venti dominanti sono il maestrale, che spira da Nord-Ovest e il ponente, che soffia da Ovest. 7. Jessie White Mario in «Albo del Tevere, La Rivista Repubblicana», Milano, 12 luglio 1878. 8. Giuseppe Flavio (Gerusalemme, 37 d.C. – Roma, 100 d.C.) Storia della Guerra Giudaica, due volumi del 1822 scaricabili gratuitamente da Google libri o anche da Internet Archive. 9. Le citazioni bibliche derivano dalla versione Riveduta in testo originale dal dr. Giovanni Luzzi, Soc. Biblica Britannica e Forestiera, Roma, 1969.
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