Le ferriere del Regno di Napoli: un fallimento annunziato
Le tante pubblicazioni e i volumi stampati per osannare le meraviglie borboniche della siderurgia meridionale, scritte sovente da reazionari sempre smaniosi di una svolta autoritaria nella politica italiana, il più delle volte non valgono il prezzo della carta stampata. Vediamo quindi di fare chiarezza e di sfatare questo così celebrato eldorado borbonico, tuttora vivente nella fantasia di tanti incolti, nostalgici e visionari. Nel 1838 furono pubblicati in Napoli due brevi opuscoli, inusuali per l’epoca, che trattavano degli effetti dei nuovi dazi doganali posti dal Regno di Napoli sul ferro e sui materiali ferrosi provenienti dall’estero, tendenti a proteggere le produzioni minerarie del regno, in connessione con la convenienza economica della trasformazione della materia prima da parte dei fabbri-ferrai e delle industrie nazionali. Ambedue quegli opuscoli vennero recensiti in contemporanea nel 1838 dal periodico bimestrale “Il Progresso delle Scienze, Lettere ed Arti”, ed ebbero vasta eco negli ambienti culturali napoletani.1 Il primo di questi, titolato “Il ferro” era incluso nelle “Memorie e riflessioni economiche” a firma di M.L.R. (Mauro Luigi Rotondo), impresso a Napoli dalla Tipografia Del Gallo, ma fu stampato anche come monografia.2 L’Autore, nato a Molfetta (1784-1855), «dotto e diligentissimo impiegato napoletano, un uomo che alla teoria accoppiava la pratica più illuminata nelle cose finanziarie»,3 era dotato di straordinaria sensibilità umana, volta a lenire le sofferenze dei meno abbienti, che traspare in tutta la sua bellezza nella pubblicazione del 1838 intitolata “L’egoismo e l’amore. Pensieri economico-politici”.4 Il campo di battaglia sul pensiero economico che interessava, seppur in piccolo, anche il reame di Napoli, era esteso in tutto il mondo occidentale, dove gli economisti più illuminati seguivano il pensiero di Adam Smith (1723-1790) e della scuola classica inglese che ne era derivata (Ricardo, Malthus, etc.), mentre in Germania era sorta nel frattempo, agli inizi del XIX secolo, la c.d. Scuola Storica che si poneva in antitesi al liberismo, auspicando l’intervento risolutivo dello Stato nella politica economica. E così anche in Napoli, mentre Mauro Luigi Rotondo era schierato apertamente con il pensiero di Adam Smith e della Scuola Classica Inglese, l’anonimo autore delle Risposte (a fianco del quale si schiera la recensione citata del Progresso delle Scienze), si dichiarava in netto contrasto con ogni idea liberista, sostenendo l’utilità della protezione del prodotto nazionale mediante l’adozione di energiche misure protezionistiche. Era avvenuto che in Napoli, con decreto del 30 novembre 1824, nel fervore della spinta protezionistica, erano stati introdotti nuovi dazi sulle importazioni degli acciai e dei ferri grezzi e lavorati.5
Ecco il quadro della situazione.
Relativamente alla Sicilia, vi fu eccezione solo per i ferri vecchi e nuovi, che godevano della tariffa molto ridotta di D. 0,67 a cantaio contro i D. 3,50 del continente oltre che dei ferri filati (D. 2,25 contro i 6 del continente). La tariffa del 1815, avendo imposto un tributo di D. 7 al cantaio sull’acciaio in cassetta, aveva reso la nostra agricoltura tributaria alla Carinzia per l’importazione di una immensa quantità di attrezzi agricoli e di meccanismi industriali. In compenso, i nostri artigiani del ferro potevano godere dal modico dazio di 1,7 ducati sugli acciai grezzi che servì al rilancio di quell’attività. La nuova, esorbitante tassa sul ferro (D. 3,50) era quindi, in qualche modo, controbilanciata da quella modica sugli acciai (D. 1,70) ma il settore agricolo, bisognoso di maggiore protezione, rimase il più esposto. Una nuova spinta protezionistica del settore si ebbe con il decreto 19 giugno 1826, che aumentò da ducati 3,50 a 5,50 il dazio sui ferri provenienti dai porti del Baltico (ferri svedesi) e del Mar Nero (ferri russi), fusi a carbone vegetale e fabbricati a martello, facilmente fondibili dalle ferriere del Regno, contrariamente a quelli provenienti dal Regno Unito, che erano tirati a carbon fossile e per i quali non fu facile individuare un idoneo procedimento di lavorazione. La nuova situazione dei balzelli alla frontiera fece quindi volgere i nostri artigiani a lavorare i ferri inglesi abbandonando quelli russi e svedesi di gran lunga superiori ma la crisi delle ferriere del regno perdurava, nonostante i pesanti dazi doganali, resi ulteriormente più gravosi con il decreto del 24 giugno 1832, che elevò da 3,50 a 4,50 ducati la tariffa sui ferri vecchi e nuovi di qualsiasi provenienza, confermando quello di D. 5,50 sui ferri del Baltico e del Mar Nero. Per la Sicilia rimaneva in vigore la vecchia, favoritissima, tariffa di 0,67 ducati a cantaio.
L’anno successivo (1833) furono aumentati del doppio i dazi su tutti i generi e le merci provenienti dall’Austria, coinvolgendo anche il settore del ferro, che vide il dazio sui ferri vecchi e nuovi balzare da 4,50 a 9 ducati il cantaio e gli acciai e ferri lavorati (ferrarecce) da D. 1,70 a D. 3,40. L’obiettivo era quello di proteggere l’industria delle fucine del regno, che al momento produceva un totale di 16.900 cantaia di ferro malleabile all’anno, pari a circa 1500 tonnellate, lavorando soprattutto il minerale cavato dall’Elba. In tal modo il ferro nuovo e vecchio proveniente dalla Russia, gravato dal balzello doganale, si vendeva in Napoli a D. 14 il cantaio, quello svedese a D. 12,50 e quello inglese a D. 10. Una enormità, considerato che quasi la metà era assorbita dalla dogana (D. 5,5 a cantaio per i ferri russi e svedesi, D. 4,50 per quelli inglesi). Le scosse nel sistema produttivo furono enormi, tanto da ridurre allo stato comatoso le industrie e il settore economico trainante, che era quello agricolo e favorendo il contrabbando sulle spiagge, il che faceva scrivere a Mauro Luigi Rotondo, vent’anni prima della fine del Regno: «Savio consiglio adunque sarebbe il rinunziare ad un lavoro ingrato, di risparmiare ai proprietari delle ferriere angoscie di una lunga agonia, e fare in maniera che pria di finire cerchino pei loro capitali e pei loro operai un impiego meno assurdo e più proficuo». Per dare un’idea del volume delle importazioni nei domini di qua del Faro da ogni provenienza, nell’anno 1836 ammontarono a circa 45.000 tonnellate di ferri nuovi e vecchi e circa 400 tonnellate di ferri e acciai lavorati che corrispondevano in totale a 45.400 tonnellate, pari a circa 510.000 cantaia. Mauro Luigi Rotondo, citando la relazione di Lodovico Bianchini letta nell’Istituto d’Incoraggiamento alle Scienze Naturali di Napoli, elenca lo stato e le produzioni più significative delle ferriere del Regno di qua del Faro.6 Nel regno si contavano quindi, in definitiva, 17 ferriere (le più significative) che producevano complessivamente, di media, 16.900 cantaja di ferro dolce all’anno, pari a 1505 tonnellate. Le miniere di Stilo costituivano la principale risorsa mineraria del regno e l’unico impianto nel quale veniva fuso il minerale indigeno era quello di Mongiana nelle Serre catanzaresi, costruito nel 1834 e amministrato per conto del governo da personale militare. In tutte le altre era impiegato il minerale d’importazione prevalentemente dall’Elba, che contava le miniere più ricche d’Italia, alle quali attingevano peraltro, in varia misura, tutte le altre ferriere italiane. In quello stabilimento si arrivò a produrre 3000 cantaja all’anno di ferro malleabile detto anche duttile, e 6000 cantaja di ferraccia detto anche ferro crudo o ghisa (in totale circa 800 tonnellate) che, trasportata a Napoli, veniva impiegata negli arsenali di artiglieria e di marina per la fabbricazione i affusti, argani, ruote dentate e simili. Nell’opinione di Mauro Luigi Rotodo, «Le ferrugginose montagne di Stilo e di Mongiana in Calabria àn dato luogo a tanti e sì bei disegni, che àn sempre deluso le benefiche mire del governo. Essi somigliavano la fata morgana che nei lidi non molto dilungi da quelle montagne fa pomposa mostra d’incantevoli vedute e di strane fantasime, e dopo brevi istanti di magico brio infonde la tristezza, foriera di vicina elettrica tempesta. L’illusione di quei disegni si nascondea nel vizio di far vedere in quelle terre ferrigne ed in quelle fonderie una fonte di dovizie e di prosperità. Appo noi però quelle povere miniere non possono mai germinare la ricchezza.» Mauro Luigi Rotondo nel futuro di quegli stabilimenti non vedeva altro che l’istituzione di una scuola di fonderia e l’impiego del ferro prodotto agli usi dell’artiglieria e di lavori pubblici, a prescindere da ogni risultato economico. E non necessitava essere profeti per esprimere un tale giudizio, bastava inquadrare la situazione delle ferriere calabresi a partire dallo stato dei luoghi e dalle condizioni di estrazione del minerale e la previsione era bell’è fatta. Gli avvenimenti successivi gli diedero pienamente ragione. L’unità d’Italia trovò le Calabrie in condizioni economiche disastrose e con infrastrutture pressoché inesistenti. La rete stradale, in particolare, misurava complessivamente 420 chilometri ed era costituita essenzialmente dall’antica Consolare, malagevolmente o affatto carrozzabile per lunghi tratti in caso di pioggia, che attraverso Mormanno e Castrovillari giungeva a Cosenza e poi, diramandosi a Soveria Mannelli per Nicastro, raggiungeva Villa San Giovanni (ma non arrivava a Reggio). Dei 412 Comuni in cui era divisa all’epoca la Calabria, ben 371 non avevano traccia di strada e gli spostamenti di uomini e animali potevano avvenire unicamente per sentieri e mulattiere. La situazione stradale delle zone di estrazione, trasporto e prima lavorazione del minerale di ferro, comprendente le miniere di Monte Stella e gli opifici di Ferdinandea e Mongiana era assolutamente disastrosa. Si dovette arrivare al 1837, anno dell’epidemia colerica che investì le Serre e si propagò sino a Palmi, perché ci si accorgesse dell’inesistenza di idonee strade di collegamento. Fu proprio nel maggio del 1837 che il Segretario di Stato per la Guerra e la Marina domandò al Ministero degli Interni la costruzione di una strada che da Mongiana e Stilo conducesse alla marina di Pizzo con diramazione a Serra, ma vedremo come andò a finire. (All. A e B) La prima delle due strade era un percorso in terra che partendo in prossimità del ponte sull’Angitola a breve distanza da Pizzo raggiungeva la costa jonica presso Soverato passando per Chiaravalle, coprendo un percorso di 60 chilometri tra impervi luoghi montuosi. Essa fu costruita in epoca borbonica ma, attraversando per la gran parte terreni soggetti a frane e scoscendimenti, senza opere d’arte né manutenzione, divenne ben presto impraticabile. Negli Annali Civili del 1853, Bernardo Quaranta riferisce che quella strada, «scavalcando l’appennino, ha il doppio oggetto di unire i due mari il Tirreno ed il Jonio, e menare agli edifici di Mongiana e Ferdinandea» era ancora in costruzione.7 Dal 1° Gennaio del medesimo anno 1853 il villaggio di Mongiana, che era parte di Fabrizia, fu costituito comune autonomo con decreto del 6 dicembre 1852 assumendo il nome di “Colonia Militare” e sottoposto alla direzione militare, avente come sindaco il direttore della ferriera e un proprio decurionato, composto dal Consiglio di Amministrazione dello stabilimento. Sette anni ancora e sarebbe passato di là il ciclone Garibaldi, chiudendo in via definitiva il capitolo Borboni del Regno di Napoli. Quella strada fu completamente rifatta in epoca sabauda nel periodo dal 1860 al 1882, i tratti malagevoli rettificati e i ponti in legname, soggetti all’impeto delle piene, sostituiti con strutture in muratura di mattoni. Il transito che vi si esercitava assunse così in pochi anni fondamentale importanza ma solo per il trasporto del legname delle Serre verso gli scali marittimi di Soverato sullo Jonio e di Pizzo sul Tirreno. La seconda strada, in epoca borbonica rappresentata da una mulattiera, con pochi tratti carrozzabili, interessava più da vicino gli stabilimenti metallurgici, prendeva inizio dalla viabilità precedente, all’altezza del “Valico di Montecucco” e dopo un percorso di 66 chilometri, passando per Serra, terminava alla Marina di Stilo. Anche qua il percorso si snodava su impervi terreni montuosi. Il tratto da Pizzo a Mongiana fu percorso nell’autunno del 1852 dal Ferdinando II, in Calabria per una imponente esercitazione militare, che dovette rinunziare alla carrozza reale e accontentarsi di una carrozza leggera a due posti guidata da un postiglione ma, da Serra a Mongiana non esisteva carrozzabile e lungo la malagevole pista allestita per l’occasione la carrozza fu ripetutamente sollevata e trasportata a braccia. Il primo tratto di quella strada, lungo m. 23.091, si svolgeva nella Calabria Ulteriore II, dal valico di Monte Cucco, a quota 743,09 al Monte Pecoraro. La Nazionale fu costruita tra il 1872 e il 1874. Una diramazione di quella strada, lunga metri 3.270, fungeva da collegamento con l’abitato di Mongiana e gli altiforni, siti a quota 874,65 metri s.l.m. Il secondo tratto, da Monte Pecoraro alla Marina di Monasterace, che si svolgeva nella Calabria Ulteriore I, era lungo Km 43.510. Percorsi i primi 7 chilometri, iniziava la traversa per gli altiforni di Ferdinandea (a quota 1032,13) lunga m 4.390. Percorsi altri 11.700 metri si giungeva all’area metallifera di Pazzano (Monte Stella). Il tratto di strada che da Montecucco giungeva agli opifici di Mongiana fu costruito dal governo borbonico intorno al 1855, con la direzione di ufficiali di artiglieria. Si trattava di una traccia informe, senza opere d’arte, la quale, per carenza di manutenzione, divenne ben presto impraticabile. Il tratto successivo, dai Piani di Ninfo al Monte Pecoraro, segmento della via che collegava i forni di Mongiana alle miniere di Monte Stella conservava, nel medesimo periodo, la natura di strada mulattiera. I lavori per la costruzione della Nazionale, iniziati nel 1880, furono ultimati nel 1882, non senza difficoltà, a causa della instabilità delle pendici, sovente molto friabili, delle zone attraversate. Dal Monte Pecoraro alla valle del Campanaro sino alle miniere di Pazzano, poi, a causa dell’altitudine, la zona era soggetta a frequenti e alte nevicate per cui il trasporto del minerale di ferro agli altiforni rimaneva molto difficoltoso e talora impossibile per buona parte della stagione invernale. In definitiva gli opifici di Mongiana e di Ferdinandea in epoca borbonica erano privi di qualsiasi valida infrastruttura stradale, essendo serviti da semplici mulattiere. La ferriera di Mongiana era situata a valle del villaggio, alla quota media di circa 880 metri sul livello del mare e derivava l’acqua per i mantici dei fornelli e i martelli per la battitura del ferro fuso dal vicino torrente Alaro (o anche Alarius o Allaro), mediante un canale lungo circa 500 metri scavato nella terra. L’Alaro è un torrente ad elevato trasporto solido che prende origine a quota 1060, circa 5 km a monte dello stabilimento e nel quale confluisce, sino a quel punto, l’acqua piovana di un bacino idrografico di appena 10 chilometri quadrati, dall’orografia molto tormentata, solcato da numerosi impluvi naturali che nella stagione piovosa si trasformano in tanti rigagnoli. Il torrente conduceva acqua utile per la forza motrice solo nel periodo da ottobre a marzo, circa sei mesi, entrando in fase di magra già dal mese di aprile e in secca da giugno ad agosto per tornare alla magra di settembre.8 La massima quantità di pioggia registrata in un anno nel quarantennio 1921-1980 (i primi rilievi meteorologici da parte del Servizio Idrografico del Ministero dei Lavori Pubblici, ancora frammentari, erano iniziati nel 1916) è stata di mm 2380 (anno 1933) e la minima di mm 1513 (anno 1938). La media annuale è stata di mm 1906 in 110 giorni piovosi. Insomma, piove di più a Mongiana che a Berlino ma la distribuzione delle piogge è concentrata solo nel periodo dal tardo autunno a tutto l’inverno. Una nota di curiosità. La Carta Tecnica Regionale della Calabria (volo 2008), contrariamente alla storia cartografica locale e anche nazionale, con un colpo di mano, ha ribattezzato l’Alaro, dalle sorgenti a poco sotto l’abitato di Fabrizia, come “Fiumara della Ferriera”. La conclusione è che le ferriere non potevano mantenersi in attività per tutto l’anno impiegando solo l’energia cinetica dell’acqua derivata dal torrente Allaro (bastava un salto di 5-6 metri) per azionare gli apparecchi soffianti, costituiti dalle trombe idroeoliche, che soffiavano aria fredda e, quando nell’estate v’era deficienza d’acqua, da una macchina a stantuffo mossa a braccia d’uomo. (All. G) A ciò vanno aggiunte le sospensioni dovute alle abbondantissime nevicate invernali e alle frequenti interruzioni del canale di adduzione dell’acqua dovute alle frane causate dal carattere torrentizio dell’Allaro. Di fatto l’energia cinetica originata dal torrente durava appena sei mesi, generalmente da ottobre a marzo, il che consentiva di produrre negli ultimi anni di attività, nelle magone di Mongiana e Ferdinandea, in Calabria Ulteriore II (sino al 1862) circa 30 mila quintali di ferraccio alias ghisa o anche ferro crudo.9 Gli stabilimenti siderurgici di Mongiana e di Ferdinandea, posti sull’alta cresta dell’appennino calabrese, circondario di Monteleone, nella Calabria Ulteriore II, erano alimentati dalla miniera di ferro ocraceo di Pazzano sul Monte Stella (tenimento di Pazzano, circondario di Gerace, nella Calabria Ulteriore I) e producevano essenzialmente ghisa grigia. (All. C) Il ferro che si fabbricava a Mongiana serviva per proiettili mentre gli scarsi rottami ed i bocchelli venivano lavorati in ferri sodi che servivano agli arsenali di Torre Annunziata o - ridotto in lame da fucile - all’armeria di Mongiana. Il minerale, presente nelle viscere della montagna in filoni (quello svedese era disposto in grandi masse dove lavoravano trentamila minatori) veniva cavato mediante lo scavo di profonde e strette gallerie armate con legname, con mezzi rudimentali: picconi, mazze, scalpelli, pale e all’occorrenza causando piccole esplosioni con la polvere nera. Il trasporto fuori dalle gallerie avveniva con carriole di legno a ruota metallica, spinte a braccia. La decouville, piccola ferrovia a scartamento ridotto con vagoncini ribaltabili, che troverà più in là ampia diffusione nella Calabria Citra per spopolare i boschi del Pollino, era sconosciuta. Il minerale estratto subiva sul posto la cernita a mano, consistente nel separare le parti più povere del minerale e la spezzettatura in parti minute con le mazze ordinarie, sempre a mano. Dopo di che, caricato sui muli in sacchi intessuti con fibre di ginestra, veniva trasportato all’opificio di Ferdinandea, distante 16 chilometri e a quello di Mongiana, distante 27 chilometri, percorrendo tortuose mulattiere attraverso le montagne. Giuseppe Antonio Pasquale, famoso botanico e cultore di materie agrarie dell’epoca nonché patriota e garibaldino (Anoia, R.C., 1820 – Napoli, 1893), descrive il modo di fabbricare la tela di ginestra c.d. “renarica” usata per il trasporto del minerale ferroso, fornendo anche un dettagliato conto economico. Una tela di 10 palmi x 15 canne (circa mq 105) forniva un introito di 6 ducati (Lire 25,50) a fronte di un costo di produzione di ducati 4,71, pari a Lire 20,04, escludendo la manifattura per la cucitura manuale dei circa 26 sacchi che se ne ottenevano.10 Un’attività ben povera, da disperati, interamente a carico delle donne, che provvedevano alla raccolta dei fili di ginestra durante le calure estive, spostandosi da un paese all’altro, inerpicandosi per dirupi e scarpate (la pianta, tipica della flora mediterranea, è selvatica) e ne curavano la trasformazione sino ad ottenere il prodotto finito. Una modesta parte del metallo estratto era lavorata sul posto mentre la maggior quantità veniva trasportata, sempre a dorso di mulo e nei sacchi, sino a Pizzo, attraverso 65 chilometri di strade mulattiere dagli opifici di Ferdinandea e 54 chilometri da Mongiana e quivi imbarcato per Napoli. Anche il lavoro dei mulattieri era da disperati, conducevano i propri animali stracarichi col bello e col cattivo tempo, attraverso mulattiere fangose, talvolta innevate o anche arse dalla calura estiva. «Passato Stilo e volte le spalle a Pazzano, dopo forse un’ora di cammino ci s’accorge d’essere entrati nella regione montana riservata ai boschi … Giunti sulla cresta del monte (M. Pecoraro), ove la strada comincia a pianeggiare, si entra nel dominio del faggio e dell’abete bianco ed il viaggiatore vede stendersi e spiccare fra boscaglie rade e pendici brulle, la bella faggeta di Stilo e di Assi…»11 I boschi in dotazione degli stabilimenti metallurgici di Mongiana e Ferdinandea, estesi intorno ai 5000 ettari, fornivano in prevalenza legname di faggio, abete bianco e quercia. Dopo il Congresso di Vienna del 1815 si ebbe la copiosa restituzione, alle corporazioni religiose, dei beni stabili incamerati da Murat nel decennio precedente ma si fece eccezione per i boschi in dotazione delle ferriere di Mongiana e Ferdinandea, pattuendo di pagare al Fondo Culti, a titolo di canone enfiteutico, la somma annua di L. 25.000, versata anche dal Regno d’Italia certamente sino al 1886, quindi, ben dopo la chiusura degli stabilimenti. Dai boschi si ricavava il legno, trasformato in carbone vegetale, che serviva per alimentare i fornelli degli stabilimenti siderurgici di Mongiana e Ferdinandea. I lavori nel bosco cominciavano di solito a metà ottobre e terminavano in aprile, con una sospensione di circa due mesi abbondanti a causa della neve. Il lavoro avveniva in due fasi: nella prima gli accettaioli, i cui strumenti di lavoro si riducevano essenzialmente a due mannaie pesanti, ben affilate, con le quali provvedevano all’abbattimento degli alberi, sramatura e sbozzamento dei tronchi. Nella seconda fase, i c.d. boschieri provvedevano alla costruzione delle piste per l’esbosco e al trasporto a strascico dei tronchi nel luogo di raccolta mediante l’impiego di bovi. Seguiva l’opera dei carbonai i quali, ridotta la legna in piccoli pezzi e formata la carbonaia, vi appiccavano il fuoco dal disopra, con metodo c.d. tedesco. Dopo che a Mongiana furono sospesi i lavori, gli armaioli e gli artigiani dello stabilimento migrarono a Terni mentre nel paese rimasero i lavoratori dei boschi (segatori, accettaioli, carbonai, mulattieri, bovari), disoccupati, che si industriarono, con le relative famiglie, uomini e donne, a svolgere attività di rapina a spese della boscaglia demaniale. Le miniere ferrifere calabresi esistenti presso Stilo, Pazzano, Bivongi, Pietra (frazione di Campoli), ecc. furono sfruttate sin dai tempi medievali e il Demanio dello Stato ne traeva grandi utili affittandole ai cosiddetti arrendatori i quali trattavano il minerale nelle ferriere usando i grandi boschi di faggi, abeti e querce che all’epoca rivestivano i monti di Arena, Serra e Stilo. La presenza del minerale di ferro dette luogo, nei secoli anteriori al XIX, a numerosi, piccoli stabilimenti siderurgici, già scomparsi in epoca borbonica, tra cui quelli di Arcà, Assi, Campoli, Forno, Spadola, Trentatarì, etc. Solo più di recente, nella prima metà del secolo XIX, sorsero gli stabilimenti di Mongiana e Ferdinandea, sotto controllo dello Stato, dove si produceva principalmente ghisa grigia.12 Stabilimenti siderurgici e miniere cessarono di lavorare nel 1862 e vennero ceduti all’industria privata. Evitando di frugare nel passato feudale dell’estrazione e trattamento del minerale di ferro nel Regno di Napoli, inizierò col tracciarne brevemente le vicende a partire dal periodo francese (1805-1815). Prima dell’occupazione militare gran parte del ferro veniva importato dall’Inghilterra ma, per le contingenti vicende belliche, non potendo introdurre ferro dalla parte del mare, si pensò di dare impulso alla produzione nazionale. Nelle more degli esiti di uno studio da parte di una commissione stabilita con decreto del 12 settembre 1810, sul trasferimento delle ferriere di Mongiana alla Certosa di S. Stefano del Bosco o in S. Domenico Soriano, vi fu costruito un forno a riverbero, per cui si giunse in quegli anni a produrre sino a 14.000 cantaja di ottima ferraccia (detta guese in francese da cui, comunemente, ghisa), parte consumata nelle guerre del Regno, e parte mandata in Francia per gli eserciti di Napoleone. Con il concorso delle ferriere dei due Principati e della Terra di Lavoro fu prodotto il ferro necessario ai consumi del Regno ma il prezzo del ferro malleabile schizzò a ducati 22 e grana 50 il cantajo.13 Dopo la Restaurazione il prezzo del ferro ribassò enormemente per le immense quantità immesse dagli stranieri talché, non potendo sostenere la concorrenza, le nostre ferriere in parte chiusero (Amalfi, Maddaloni, Alvito, S. Agata dé Goti, etc.) mentre altre diminuirono fortemente la produzione. Da qui la politica protezionistica già accennata e i fatti che ne seguirono. La ferriera di Ferdinandea, la più vicina alla miniera e di antica costruzione, comprendeva, ancora nel 1860, un solo forno a forma parallelepipeda quadrangolare a massiccio granitico con rivestimento interno di pietra steatite quarzosa, alimentato con due boccolari e soffiato con trombe idroeoliche. Il carbone di legna che serviva di alimentazione, proveniva dai boschi demaniali dei luoghi. A Mongiana nel 1860 c’erano tre fornelli, uno di antica costruzione denominato Santa Barbara (All. F 6a) analogo a quello di Ferdinandea e due nuovi denominati Cavour e Garibaldi (All. F 6b), costruiti sul modello di Thomas e Laurent diffusi in Francia, soprattutto nel bacino della Mosella. Si presentavano a torre rotonda, pressoché cilindrica, sostenuti in basso da colonne.14 (All. D) Le dimensioni dei quattro altiforni erano le seguenti:15
Il fornello S. Antonio, in Ferdinandea, risultava inattivo da oltre vent’anni. Il forno catalano era composto da tre elementi fondamentali: il basso fuoco, sorta di crogiuolo delle misure di cm 55 x 47 x 43 di profondità, la tromba idroeolica che soffiava aria fredda attraverso la materia in fusione (All. G) il martello a coda per la battitura al maglio della massa fusa. Il tino in muratura era consolidato con cerchi in ferro, con camicia fatta di steatite fino alla sacca e più in alto da mattoni refrattari inglesi. Gli apparecchi soffianti erano costituiti dalle trombe idroeoliche per l’inverno che soffiavano aria fredda e da una macchina a stantuffo quando nell’estate v’era deficienza d’acqua. I nuovi forni potevano produrre tonn. 4,5 di ghisa bigia in 24 ore ma il consumo di carbone era grandissimo e pari a 1,50 tonnellate per ciascuna tonnellata di ghisa prodotta. Il commento di Vittore Zoppetti, forse il massimo conoscitore della siderurgia italiana, su quegli impianti è impietoso: «La posizione poco industriale delle officine, la mancanza di vie di comunicazione, la lontananza dai centri di consumo ed inconvenienti d'altro ordine, hanno pressoché reso inattivi detti forni, e tali stabilimenti devono presto cedersi all'industria privata, più attiva e più economica.»16 Sbagliava Zoppetti ma solo nell’ultima parte: l’affidamento degli impianti all’impresa privata decretò il definitivo tracollo dell’attività. Il metodo usato per l’estrazione del metallo nel 1860 era quello antichissimo del forno catalano (diffuso principalmente nei Pirenei), che consentiva di trattare direttamente il minerale per ottenere il ferro ma il prodotto non era mai costante, variando da operazione ad operazione. L’obbiettivo era quello di favorire la carburazione del ferro e di prevenirne in seguito la completa decarburazione mediante l’impiego di rilevanti quantità di carbone compatto di legname facendo scolare le scorie fuse verso il fondo del focolare, luogo di accumulo. Il procedimento, in estrema sintesi, è appresso descritto. Si introducono anzitutto nel crogiuolo dei carboni accesi fino al di sopra dell'orificio dell'ugello e il minerale di ferro frantumato dopo di che si mette in azione la macchina soffiante, dando il vento dapprima dolcemente e poi con maggior vigore. In questa prima fase dell'operazione si effettua la torrefazione del minerale e comincia il processo di riduzione; nel frattempo un operaio approfitta del fuoco assai intenso per ricuocere il massello ottenuto dall'operazione precedente, già tagliato in quattro pezzi, detti tagliuoli, per disporli al lavoro del maglio. Man mano che la combustione del carbone procede se ne aggiunge del nuovo, a cui si mescola inoltre del minerale minuto. Dopo 5 ore dall’inizio dell’operazione tutto il minerale è disceso nel crogiuolo, e si è convertito in una crosta di ferro spugnoso alla superficie del bagno; l'operaio introduce allora nel crogiuolo una spranga di ferro, e ne rimescola la massa per agglomerare e riunire insieme i pezzi di ferro. Questa operazione fornisce la palla che, estratta dal focolare, viene portata sotto il maglio e trasformata in un massello. Questo viene allora diviso in due parti uguali, che si lavorano ancora al maglio e poi, a loro volta, si dividono in due (tagliuoli). I tagliuoli vengono poi bolliti, come abbiam detto, sul principio di una successiva operazione. Ogni operazione dura circa 6 ore, compreso il tempo necessario per preparare il minerale. Il peso del massello che si ricava è ordinariamente di 140 a 150 chilogrammi, impiegando, per ogni operazione, 470 Kg. di minerale all'incirca (resa di circa il 30%) e 500 Kg. di carbone di legna. Per produrre 500 Kg di carbone con le cosiddette carbonaie, necessitavano circa due quintali e mezzo di legna (resa del legno in carbone 20-22%) che, negli ultimi anni d’esercizio, veniva a costare 2,88 lire al quintale e a metà degli Anni ’40 da grana 60 a grana 40 la soma, secondo la distanza dai luoghi di produzione.
Un ettaro bosco con piante mature poteva fornire dai 218 ai 557 metri cubi di legname che, lasciato asciugare all’aria per ridurne l’umidità, poteva essere sufficiente per una ventina di operazioni di fusione, fornendo circa 29 quintali di massello.17 In definitiva, per ogni 29 quintali di massello prodotto, veniva divorato un intero ettaro di boschi di faggio, abete bianco, rovere e leccio mentre in Inghilterra, povera di boschi, era impiegato il coke. All’alto costo della trasformazione del legno in carbone vegetale bisognava aggiungere il pagamento del canone annuo di L. 25.000 al Fondo Culti per l’uso dei boschi a titolo di enfiteusi a dominio utile perpetuo. La produzione annua di ferraccio era esigua e variava dai 4.000 ai 10.000 cantaja all’anno mentre il governo pagava per spese di produzione dai 60.000 ai 100.000 ducati all’anno. È di tutta evidenza che lo stabilimento, la cui gestione era economicamente disastrosa, serviva solo per mantenervi alcuni ufficiali di artiglieria e il personale militare e difatti, i costi di produzione del ferro acre e del ferro duttile, secondo i calcoli di Filippo Cappelli, erano esorbitanti.18 Al conteggio bisognava aggiungere poi i costi di trasporto del minerale dalle miniere agli altiforni e del trasporto sino al porto di Pizzo, carico sulle navi, trasporto via mare, scarico sulla banchina di arrivo e trasporto sul luogo di trasformazione (per lo più alle officine di Pietrarsa e a Napoli), più gli stipendi al personale direttivo e amministrativo, le quote di reintegrazione e manutenzione degli impianti, delle macchine, attrezzi, dei canali di adduzione dell’acqua dal torrente Allaro e quant’altro . L. Bianchini nel 1834 ebbe a scrivere, in riferimento allo stabilimento di Mongiana, definita «la principale nostra ferriera», che «Di fatti talvolta la spesa di un cantajo di ferro malleabile ivi è stata in ducati 11 e grana 25, tale altra in ducati 10 e grana 14. Ora essendosi il ferro venduto a ducati 9 ed anche a minor prezzo, è chiaro che vi si fa perdita.» Il prezzo della ghisa sul posto era di 17,50 lire al quintale a Mongiana e di 14 a Ferdinandea contro i 10-14 delle ferriere del Nord (Follonica, Val di Scalve, Val Camonica, etc. Lo stato delle cose durerà sino alla chiusura dell’attività e difatti nelle relazioni dei Commissari Speciali – Comitato dell’esposizione internazionale del 1862 è scritto che “Ora queste ferriere sono sospese, non avendo mai dato buoni risultati”. Come si può ben constatare, il giudizio negativo sull’attività delle ferriere calabresi non è mai mutato dal 1834, anno di costruzione dello stabilimento di Mongiana (Bianchini, epoca borbonica) al 1862 (Monarchia Sabauda).19 I metodi diretti di estrazione del ferro, tra cui quello catalano, hanno avuto una importanza storica indiscutibile sin dai primordi della civiltà umana (età del ferro) ma già a metà del secolo XIX in Europa era quasi interamente scomparso, trovando la sua ragion d’essere solo in condizioni eccezionali e sopravvivendo unicamente in alcune officine dei dipartimenti dei Pirenei e dell’Ariége in Francia.20 Il metodo era scomparso finanche dalla letteratura scientifica, nella quale se ne ritrovano ben poche tracce. Mentre le ferriere borboniche languivano e particolarmente quelle di Mongiana e Ferdinandea, site in area geografica impervia e tecnologicamente arretrate, in Inghilterra il sig. Bessmer nel maggio del 1859 esponeva davanti all’Associazione degli Ingegneri Civili di Londra i risultati conseguiti con un rivoluzionario sistema di affinazione del ferraccio, già adottato in molte officine inglesi, francesi, svedesi e nelle famose Krup prussiane. Se ne auspicava anche l’introduzione in quelle italiane ma – nello specifico - nessun progresso era registrato in quelle napoletane.21 L’unico centro siderurgico efficiente del regno nell’ultimo scorcio degli Anni ‘50 dell’800 rimaneva quello di Pietrarsa, dove veniva forgiato il ferro per gli usi più disparati e dove, nel giro di pochi mesi, era stato costruito un impianto per l’affinamento della ghisa sul modello inglese dei fornelli a riverbero (pudding fornace) con una capacità produttiva di 18 quintali di ferro giornalieri ma lavorava però quasi esclusivamente il ferraccio (ghisa) di provenienza estera.22 Quivi, sin dal 1852, veniva tentata la fabbricazione dei “raili” (binari) per le ferrovie impiegando la ghisa proveniente da Mongiana ma i costi erano esorbitanti. Un impulso notevole fu dato però alla ricerca del minerale e alla sua trasformazione nel distretto di Sora dov’era in corso la costruzione di una ferriera con relativo altoforno dell’altezza di 13 metri e con diametro al ventre di metri 2,80.23 Nel 1857 Mongiana era dotata di due fornelli e su proposta del gen. Francesco d’Agostino, constatata l’enorme dipendenza dall’estero della materia prima (ghisa o ferraccio), che all’epoca veniva lavorata nello stabilimento di Pietrarsa col metodo inglese detto padellaggio, propose di portare da due a cinque gli altiforni di Mongiana e di fare ricerche minerarie nel distretto di Sora, dov’era ancora in costruzione un impianto siderurgico con le relative infrastrutture.24 Al momento dell’unità d’Italia i centri di produzione del minerale di ferro si concentravano essenzialmente nelle valli lombarde, nella Valle d’Aosta e in Toscana (isola d’Elba). Dei tre la Toscana rimaneva il centro più importante. Il minerale era di eccellente qualità, privo di zolfo e di fosforo, adatto alla produzione della ghisa da getto e da affinazione per ferri ed acciai. La migliore qualità del minerale italiano (ossidulo di ferro Fe3O4 o magnetite) era estratta da Capo Calamita nell’isola d’Elba e anche da Traversella e Cogne, che alimentavano le ferriere della Valle d’Aosta, producenti le migliori qualità di ferro in commercio. Località ferrifere di minore importanza erano gli ammassi di limonite (perossido o sesquiossido di ferro idrato con formula 2Fe2O3+3H20) di Pazzano nella Calabria Ultra I che alimentavano le ferriere di Mongiana - Ferdinandea e, in Sardegna, quelli di S. Leone. Si trattava di minerali contenenti discrete quantità di ferro e modeste impurità composte da zolfo, fosforo e altre materie eterogenee. Nel catalogo descrittivo relativo alla esposizione internazionale del 1862 pubblicato a cura del R. Comitato Italiano si lamentava la mancanza di ricchi depositi di combustibili fossili nel Regno, che limitava lo sviluppo della metallurgia italiana, legata alla quantità di carbone vegetale disponibile, nonostante l’abbondanza di ottimi minerali e di acque adatte a fornire la forza motrice.25 Ecco perché buona parte del minerale estratto e anche della ghisa prodotta erano venduti per essere lavorati all’estero. I dati prospettati rivelano che delle 38.000 tonnellate di ghisa prodotte all’anno, 3-4000 erano vendute all’estero, 3-4000 erano lavorate con getti di prima e seconda fusione e, col rimanente 30.000-32.000, si fabbricavano 25.000 tonnellate di ferro e 500 di acciaio. Circa la metà delle 48.000 tonnellate di minerale di ferro estratto dall’Elba, poi, prendeva la via dell’esportazione, l’altra metà alimentava gli altiforni italiani e piccola parte giungeva finanche nelle ferriere calabresi. Dieci anni dopo, nel 1872, la produzione di minerale di ferro in Italia proveniva da 70 miniere ed era valutata in 167.000 tonnellate di cui solo 53.000 (meno di 1/3) si fondevano nel Paese, il rimanente prendeva la via dell’esportazione, soprattutto verso la Francia e l’Inghilterra. I centri di produzione della ghisa in genere corrispondevano a quelli di estrazione del minerale (All. E) Nel medesimo anno 1872 In Lombardia c’erano 21 altiforni attivi, 3 in Piemonte e 5 in Toscana a Follonica, in tutto 29 altiforni attivi, dove vennero prodotte, nel solo anno 1872, 27.000 tonnellate di ghisa di cui 13.000 in Lombardia, 2.000 in Piemonte e 11.000 e in Toscana. Quelli di Mongiana e di Ferdinandea in Calabria, come già detto, erano stati dismessi sin dal 1862. Le ferriere calabresi fecero addirittura capolino nel 1863 dalle colonne dell’Indipendente, quotidiano stampato a Napoli e diretto da Alessandro Dumas.26 In una lettera al giornale, il tenente colonnello di artiglieria in ritiro Alessandro Massimino, facente funzioni di direttore dello stabilimento di Mongiana, lamentava che i passati governi si erano appoggiati interamente sul protezionismo, credendo di potersi emancipare dall’industria straniera. Di conseguenza era stata stabilita una fonderia di cannoni a Castel Nuovo, l’opificio di Pietrarsa e ampliata la fabbrica d’armi di Torre Annunziata, stabilendone una pure a Mongiana, tutte in mano dei militari ed escluse da ogni logica di sana gestione economica. In definitiva A. Massimino, nel promettere all’Indipendente un seguito al suo scritto sulle condizioni attuali della Mongiana, che non fu mai pubblicato sulla rivista, auspicava il rilancio dell’industria ferriera italiana e rispolverato, per Mongiana, l’antico progetto per l’istituzione di una scuola «onde formar buoni operai». Al momento il governo elargiva lo stipendio e i salari, oltre che al Massimino e ai 30 militari ivi stanziati (nei primi mesi del ’60 erano circa 150) alle seguenti figure:
Per il solo anno 1864 fu approvata dal governo, per e sole operazioni di manutenzione dello stabilimento di Mongiana, la somma di lire 200.000.27 Negli Anni ’80 del XIX secolo il metodo catalano di estrazione del metallo era stato abbandonato quasi dappertutto a causa degli altissimi costi di produzione ma rimaneva diffuso nelle aree più depresse del globo: in India, in Africa e in zone dei Pirenei e dell’Atiége francese. In tutta Europa erano entrati in uso metodi più celeri ed economici di estrazione del ferro, i c.d. metodi indiretti, che comprendevano due fasi: l’estrazione della ghisa o ferraccio negli altiforni e poi la sua affinazione mediante vari procedimenti dei quali il più noto è il processo Bessmer, che richiedeva l’impiego di ridottissime quantità di combustibile. L’ingrata posizione degli stabilimenti, la mancanza di vie di comunicazione, la lontananza dai centri di consumo, l’abnorme consumo di carbone di legna e inconvenienti di altro ordine avevano reso pressoché inattivi i forni calabresi, per cui, cessato di lavorare nel 1862, ne fu stabilita la vendita all’industria privata. L’attività fu ceduta alla Società Generale del Credito Mobiliare e Banca Nazionale e poi al deputato Achille Fazzari, un avventuriero che da analfabeta e nullafacente divenne uno degli uomini più ricchi d’Italia, esempio non raro di intraprendenza rampante e voltagabbana che tanto piace agli italiani, la cui figura fu brevemente delineata dai “Fogli dispersi del libro nero”, che illustra «le gesta intemerate di quegli uomini, che, in 16 anni di sgoverno, hanno ridotto l’Italia alla miseria, l’hanno coperta di vergogna e di onta e, come Cristo sul Golgota, l’hanno abbeverata di aceto e fiele… uomini malaugurati, sulla cui fronte il paese col ferro rovente ha impresso il marchio della vergogna».28 Per rendersi conto dell’ambiguità del personaggio, bisognerebbe leggere gli atti e i rendiconti parlamentari del tempo che lo videro tante volte al centro di oscure manovre finanziarie. Questi fece finta di riattivare la Mongiana aprendo nel territorio di Pazzano e di Stilo nuove gallerie i cui imbocchi si trovavano nella stretta gola che separa il Monte Stella dal Monte Consolino che sovrasta il paese di Stilo, ma fu la fine di tutto e gli impianti, abbandonati, andarono in rovina.29 La prova definitiva della inutilità degli stabilimenti siderurgici calabresi si ebbe con l’avvento del fascismo e l’autarchia. Nel Ventennio l’Italia scarseggiava di ogni materia prima, al punto che per ogni dove veniva raggranellato ogni rottame metallico da riciclare per l’industria nazionale, ma del monte Stella e di Mongiana non se ne parlò neppure, tanto era il disastro economico che sarebbe prevedibilmente seguito, memori dei fallimenti passati, alla riattivazione di miniere e stabilimenti. Per il minerale era preferibile rivolgersi all’Elba o anche alle miniere lombarde e piemontesi. Da tante parti si favoleggia sulla produzione in Mongiana di armi leggere da guerra, ma bisogna sfatare anche questa leggenda. Le armi pesanti, in epoca borbonica, erano prodotte esclusivamente a Napoli. Si trattava prevalentemente di cannoni di posizione, di marina e di campagna, proiettili d’artiglieria, affusti, carreggi e piastroni per corazzare le batterie e i fianchi delle navi da guerra. Qua accennerò solo alle armi portatili: fucili, pistoloni, revolver e armi bianche. Nell’immediato periodo postunitario i fucili in dotazione dell’esercito italiano venivano acquistati in gran parte dalla Francia, dall’Inghilterra e dalle fabbriche prussiane. Le uniche fabbriche governative di canne in Italia erano due: quella di Valdocco a Torino, e quella di Torre Annunziata, presso Napoli. A Valdocco si fabbricavano annualmente 12 mila canne rigate e finite, con l’ottimo ferro della Val D’Aosta e della Lombardia e dove venivano montate anche le canne di provenienza estera. In totale uscivano dalla fabbrica 30 mila fucili finiti all’anno. L’acciaio impiegato per gli accessori (lumellini, acciarini, molle a scatto, etc.) era però delle migliori qualità inglesi e prussiane. Torre Annunziata forniva solamente da due a tremila canne, impiegando il metallo proveniente da Mongiana ma la sua qualità fu trovata sensibilmente inferiore a quella dei ferri di Lombardia e d’Aosta per cui si cominciò ad impiegare pure il metallo proveniente dalle ferriere di quelle regioni. Essendo in fase di ampliamento, si prevedeva di produrre 10 mila canne e 30 mila fucili allestiti. A Mongiana esisteva pure una piccola fabbrica governativa che usava il ferro locale, capace di produrre 2500 canne all’anno coi relativi accessori, trascurando le armi bianche. Numerose erano poi, in Italia, le officine private che fabbricavano canne da fucile coi relativi accessori, capaci di produrre 90 mila fucili a prezzi competitivi. Tutto questo testimonia l’arretratezza dell’industria bellica italiana e in particolare l’inadeguatezza delle fucine calabresi. A Mongiana, in particolare, si producevano ancora gli anacronistici fucili ad avancarica (immagini su Wikipedia), quando nelle nazioni più avanzate avevano fatto da tempo il loro ingresso i fucili ad ago tra cui i Chassepot francesi, che spazzarono via a Mentana (3 novembre 1867), in una delle pagine più tristi e catastrofiche del Risorgimento Italiano, l’armata garibaldina. Il mondo conosceva ampiamente le nuove armi portatili, di cui si fece largo uso nella guerra di secessione americana (1861-1865) e in quella franco-prussiana (1870/71) che, su suolo francese, erano in dotazione anche dei volontari garibaldini dell’esercito dei Vosgi. La carabina a ripetizione Spencer 1860 fu la protagonista assoluta della Guerra Civile Americana e poi Chassepots, Winchester, Fucili ad ago prussiani, Carabina a 16 colpi Henry, Remington, e quant’altro. E le mitragliatrici, tante e di varie fatture che, sputando 300 colpi al minuto, falciarono le ultime, romantiche cariche di cavalleria della storia. E a Mongiana? Ma via! Come poteva sopravvivere una fabbrica d’armi la cui attività, iniziata a metà del Sec. XIX, consisteva nella produzione di antiquati pistoloni e obsoleti fucili a percussione (oltre ad armi bianche) che nessuno voleva? Il fucile a percussione prodotto a Mongiana pochissimo differiva da quello più antico a pietra, si scomponeva e ricomponeva esattamente come quello e conservava la medesima nomenclatura dei componenti. «Nella piastrina soltanto manca il bacinetto, l'acciarino e la vite, la molla dell'acciarino e la vite; ed il cane diversamente conformato non tiene la pietra, ed invece è di un sol pezzo, ed in punta è incavato onde battere sul caminetto che si trova situato sulla culatta. Nel congegno interno poi della piastrina, si osserva soltanto un terzo intacco alla noce».30 Senz’altro il più illustre militare borbonico di stanza in Mongiana fu Mariano D’Ayala (1808-1877), dopo che nell’aprile del ’44 cadde in disgrazia per aver pubblicato nella strenna dell’Iride un malinconico articolo sulla morte di Gioacchino Murat. La cecità di Re Ferdinando II e il trasloco dalla Nunziatella a Mongiana ordinato da Re finì col maturare una svolta decisiva nella vita del giovane ufficiale, al punto che nel medesimo anno fu arrestato, insieme a Carlo Poerio, per l’insurrezione di Cosenza del 15 marzo, una seconda volta in Reggio, sempre con Poerio, per l’insurrezione del 3 settembre 1847 e una terza volta, sempre con lo stesso amico, perché creduto l’autore della Protesta del Popolo delle Due Sicilie, il cui autore era invece Luigi Settembrini. Ma quelli erano altri tempi, tempi di fulgidi, intrepidi cavalieri dalla lucente armatura, che con la lancia in resta, sprezzanti della vita, combattevano indomiti il drago sputafuoco per un supremo ideale di giustizia. La conclusione di tutto il discorso non può che essere unica, irrevocabile, ed è quella di Osea 4:14 rivolta al popolo ebraico, ma estensibile a tutti: «Il popolo che non ha discernimento corre alla rovina» e noi italiani che tanto amiamo i ventenni, quella rovina l’abbiamo spesso invocata, talora ottenuta, altra volta sfiorato la catastrofe.
Note
1. Il Progresso delle Scienze, Lettere ed Arti, Nuova serie, Anno VII , vol. XX, pp.282 – 286, Napoli, Tip. Flautina, 1838. 2. Mauro Luigi Rotondo, Memorie e riflessioni economiche, Napoli, Tip. Del Gallo, 1838. 3. Senatore Carlo De Cesare in «Atti Parlamentari del Senato», tornata del 10 luglio 1876 – Discussione del progetto di legge sulla Istituzione di depositi franchi nelle principali piazze marittime del Regno. 4. M. L. Rotondo, L’egoismo e l’amore. Pensieri economico-politici, Napoli, 1838. 5. Decreto 30 novembre 1824 N. 1347col quale approvansi le nuove tariffe doganali, in Collezione delle leggi e dé decreti Reali del Regno delle Due Sicilie, anno 1824, II semestre, pp. 333 - 462, Napoli, 1824. 6. Pubblicata in «Il Progresso delle Scienze, delle lettere e delle Arti», vol. IX, Napoli, 1834. 7. Fascicolo XIC, marzo-aprile 1853, p. 82. 8. D. Caloiero, R. Niccoli, C. Reali, Le precipitazioni in Calabria 1921-1980, CNR, Cosenza, 1990. 9. La Chimica, rivista mensile, anno XVI, n. 9, settembre 1940. 10. G. A. Pasquale, Relazione sullo stato fisico-economico-agrario della Prima Calabria Ulteriore, Napoli, 1863, pagg. 201 a 204. 11. Agostino Lunardi, da Monasterace a Serra San Bruno, considerazioni economico-forestali – Firenze, 1886. 12. La Miniera Italiana, Anno II, N. 731 luglio 1918, Roma. 13. L. Bianchini, Sullo stato delle ferriere del Regno di Napoli, in «Il progresso delle Scienze …» vol. IX, Napoli, 1834. 14. Cfr. la Relazione sulle Strade Nazionali, Provinciali sovvenute dalla Stato e comunali obbligatorie a cura del Ministero dei Lavori Pubblici, Roma, Tipografia dell’Unione Cooperative Editrice, 1898. 15. La Chimica, rivista mensile, settembre 1940. 16. V. Zoppetti, ingegnere nel R. Corpo delle Miniere, Indice dei disegni di forni, macchine ed apparecchi per la siderurgia, Milano, Tip. e Lit. degli Ingegneri, 1874. 17. V. Niccoli, Economia Rurale, UTET, Torino, 1927, p. 286. 18. F. Cappelli, Esplotazione delle miniere delle Calabrie, Napoli, 5 dicembre 1860, 19. F. Mariotti, Storia del lanificio toscano antico e moderno, vol. I, Torino, Enrico Dalmazzo, 1864. 20. Il Costruttore, trattato pratico delle costruzioni civili, industriali e pubbliche, vol. III, Vallardi, Milano, 1886-1889. 21. Real Comitato per l’esposizione di Londra del 1862, processo Bessmer e sua applicazione ai ferracci italiani – Torino, Tip. Dalmazzo, 1863. 22. Produzione dell’acciaio mediante l’eliminazione dalla ghisa bianca dall’eccesso di carbonio mediante il rimescolamento continuo nel forno con pali di ferro, dall’inglese to puddle = rimescolare e successiva battitura al maglio per l’eliminazione delle scorie. 23. V. De Ritis, Il Real Opificio di Pietrarsa, in Annali civili del Regno delle due Sicilie, vol. XLIX, fasc. settembre-dicembre 1853, Stabilimento tipografico del Real Ministero dell’Interno, Napoli, 1853. 24. Salvatore Giancotti, Cenno su le miniere di ferro e lo stabilimento siderurgico nel distretto di Sora, in Annali Civili del Regno delle Due Sicilie, vol. LIX, fasc. Gennaio-Aprile, 1857, Stabilimento tipografico del Real Ministero dell’Interno, Napoli, 1857. 25. Esposizione Internazionale del 1862, Regno d’Italia. Catalogo descrittivo pubblicato a cura del R. Comitato Italiano su mineralogia e metallurgia, Torino, Tip. Dalmazzo, 1862. 26. A Massimino, L’industria metallurgica di Mongiana in Calabria 2a, L’Indipendente, Anno III, numero 225 dell’11 Ottobre 1863. 27. Annuario del Ministero delle Finanze del Regno d’Italia per l’anno 1864, Torino, Stamperia Reale, 1864. 28. I fogli dispersi del libro nero, Napoli, 1876, scaricabile da Google libri. 29. La Miniera Italiana, Anno II, n. 7, Roma, 31 luglio 1918. 30. A. Ulloa, Manuale per soldati e sotto-uffiziali, Napoli, Reale Tipografia Militare, 1850.
Allegati
A - Carta delle Provincie meridionali 1870 (riproduzione in fotozincografia del 1877).
B - Viabilità all'unità d'Italia (da: Ministero dei LL.PP. - Opere pubbliche in Calabria, prima relazione sull’applicazione delle leggi speciali dal 30 giugno 1906 al 30 giugno 1913 – Bergamo, 1913).
C - Veduta dei Monti Consolino e Stella, 1918 (La Miniera Italiana, n. 7 – 1918).
D. Altiforni di Mongiana, Disegno del 1864 (dalla relazione dell’ing. Felice Giordano sull’industria del ferro in Italia, redatta per la Commissione della Marina, Torino, 1864).
E - V. Zoppelli, 1874. Miniere di ferro e altiforni in Italia (da: Disegni di forni, macchine ed impianti per la siderurgia, Milano, 1874, Tav. I).
F - V. Zoppelli, 1874. Impianti di Ferdinandea e di Mongiana (da: Disegni di forni, macchine ed impianti per la siderurgia, Milano, 1874, Tav. CXXXI).
G - Schema di funzionamento del forno catalano (da: Il Costruttore, Vol. III, Vallardi, Milano, 1886-1889).
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