Il generale D'Apice e l'autonomia trentina
Domenico D'Apice nacque a Napoli il 30 gennaio 1792 da Giovan Battista, ricco commerciante partenopeo. Nel 1799 a soli 7 anni accolse con gioia gli insorti della Repubblica Napoletana. Nel 1820 si arruolò nella guardia nazionale col grado di tenente di cavalleria per difendere il nuovo regime costituzionale. La guardia nazionale, istituzione moderna e indipendente, serviva a difendere il Parlamento contro ogni minaccia proveniente dall'esterno o anche dall'interno del Regno, finanche il governo stesso che disponeva dell'esercito e delle forze dell'ordine. La guardia nazionale fu poi sciolta il 19 marzo 1821 dopo l'occupazione delle truppe austriache. Fuggito all'estero, fu prima in Spagna al fianco dei costituzionali di Catalogna, poi passò in Francia dove fu arrestato dalla polizia. Dopo otto mesi sbarcò in Inghilterra dove entrò nella carboneria ed allo stesso tempo dava lezioni d'italiano per sopravvivere. La carboneria era una società segreta nata con lo scopo di far cadere la monarchia austriaca considerata il “carcere dei popoli”. Nel 1828 si trovava in Portogallo a fianco dei sostenitori di Maria II contro don Miguel, titolare della reggenza per poi essere richiamato in Spagna nell'intento di spodestare Ferdinando VII di Borbone. Nel 1831 fece ritorno in Italia dove iniziò a preparare la rivoluzione dei ducati contro lo Stato Pontificio ma, riconosciuto a arrestato a Stazzema, fu rispedito in Francia.
Tra il luglio e l'agosto 1831, insieme a Filippo Buonarroti e a Gaetano Ciccarelli, fondò l' “Unione dei veri italiani” con lo scopo di creare una fitta rete di attività politica repubblicana. Una circolare ne spiegava meglio le motivazioni: «Una eguaglianza perfetta di diritti fra i cittadini con adeguato ordinamento di beni e di opere e la sovranità inerente ed esercitata dal popolo, ecco le basi cardinali di una repubblica quale noi l'intendiamo. Ad ottenere sì alto e giusto scopo debbono i Veri Italiani rivolgersi alle masse, scuoterle, istruirle per i loro diritti, la durissima condizione in cui si trovano addimostrare loro, ed il miglioramento che loro apporterebbe la Repubblica, la quale esprimendo la volontà di tutti mostrerebbe per ciò stesso tutti i bisogni e vi provvederebbe: farebbe sparire la miseria, sia togliendo tanti aggravi, sia animando l'industria e ricompensando il vero merito». All'inizio del 1832 si arruolò in Belgio e poi in Spagna dove la lotta antimiguelista aveva ripreso piede e dove si meritò la medaglia al valor militare per aver riportato tre ferite nei combattimenti. Nella primavera del 1848, grazie all'amicizia di Giuseppe Mazzini, fu reclutato dal Governo provvisorio di Milano ed inviato in Trentino con una colonna di volontari nel tentativo di prevenire un'eventuale incursione austriaca, attraverso il passo del Tonale e dello Stelvio. In particolare si voleva prevenire l'eventuale attacco del generale austriaco Radetzky che attendeva la ripresa delle ostilità con il Piemonte. L'Austria-Ungheria non era più quel formidabile baluardo antinapoleonico e in tutto l'impero stavano emergendo nuovi aneliti di indipendenza. Fin dal 1831 in Trentino si era formata una classe di intellettuali di stampo liberare (Giovanni Prati, Giuseppe Zanella, Antonio Rosmini) e si accendevano i primi focolai di rivolta. Nel gennaio del 1840 ebbe luogo un incidente nel borgo di San Martino in Trento tra alcuni abitanti e il reggimento cacciatori imperiali. Nel 1843 le autorità furono sorprese da un falso allarme su un presunto colpo di Stato da parte di sedicenti carbonari e ancora nel giugno 1846 il capitano circolare denunciava la propaganda rivoluzionaria italiana che serpeggiava in città. Nel 1847 sui muri delle abitazioni apparvero le prime scritte inneggianti al papa liberale contro il monarca asburgico. Tuttavia una circolare della Curia di Trento intimava al clero di tenersi lontano dal movimento per l'autonomia il che fu rispettato da quasi tutti i sacerdoti ad eccezione di pochi tra cui don Giuseppe Grazioli, cappellano di Ivano-Francigena, arrestato il 14 agosto 1848. Le rivoluzioni scoppiate a Parigi (24 febbraio 1848) e a Vienna (13 marzo 1848) furono il pretesto per innalzare le barricate a Trento dove nel marzo 1848 fu assaltato l'Ufficio dell'ispettore del Dazio. I deputati trentini alla Dieta tirolese (Giuseppe Festi, Giovanni Depretis, Francesco Marsilli e Antonio Gazzoletti) chiesero l'autonomia dall'Austria mentre a Rovereto si formò una guardia civica. L'Austria proclamò lo stato di assedio e istituì corti marziali ovunque con lo scopo di stanare e condannare i delatori. Dalla Lombardia giunsero in Trentino numerosi volontari (corpi franchi) con lo scopo di dare man forte alla rivoluzione il che però incontrò non pochi ostacoli. Il generale D'Apice, entrato clandestinamente in Trentino, vi trovò diffidenze e rivalità, quindi, diede inizio ad un'intensa opera di riorganizzazione delle opere difensive. Non riuscì invece ad instaurare un rapporto collaborativo con i soldati piemontesi fedeli al re Carlo Alberto di Savoia e ciò probabilmente gli provocò delle antipatie e, nonostante gli iniziali successi contro gli austriaci, la conclusione anticipata del suo mandato. Sul finire di marzo il Magistrato di Trento, che nel frattempo aveva assunto il potere, fece formale richiesta di separazione dal Tirolo austriaco. Per tutta risposta il 7 aprile 1848 il colonnello de Zobel, su ordine del maresciallo von Welden, piombò su Trento con 18 compagnie di cacciatori imperiali e ristabilì l'ordine. Ciò non impedì ai ribelli di riorganizzarsi e di rispondere ad un nuovo appello di reclutamento: «L'ora dell'Indipendenza Italiana è sonata! La Lombardia e la Venezia hanno già scosso ed infranto l'odiato giogo straniero. La spennacchiata Aquila austriaca rivolge l'incerto volo a Verona. Snidiamola da quest'ultimo asilo! All'armi, Trentini, Roveretani! All'armi, valorosi abitanti nelle valli e nei monti di questa estrema parte d'Italia a cui la stupida tirannia dell'Austria credeva poter far dimenticare la propria origine, incorporandola mostruosamente col Tirolo. All'armi, correte verso Verona in soccorso ai minacciati fratelli. Date il crollo all'ultimo puntello della sfasciata Monarchia; decidete le sorti nostre; e usando misericordia con chi depone le armi, cacciate i fugenti stranieri oltre il Brennero, naturale confine della Penisola Italiana! Viva la Gran Madre Italia! Viva la Religione! Viva la libertà italiana! Viva! Viva!» Tra il 9 e il 10 aprile le prime colonne dei corpi franchi si mossero da Verona e si imbarcarono a Bardolino sul lago di Garda da cui sarebbero dovuti risalire in Trentino per dare man forte ai ribelli. Tutti questi reparti, di fatto irregolari, erano stati improvvisati alla meglio sull'onda dell'entusiasmo popolare ma senza un'effettiva preparazione militare. La colonna di corpi franchi comandata da Longhena e Arcioni riuscì a sconfiggere il colonnello de Zobel e ad avanzare sino a Tione risalendo la Valle del Chiese. L'11 aprile si formò un governo provvisorio a Bolbeno sotto la presidenza di Giacomo Marchetti fondatore della “Legione trentina”, una milizia volontaria per la liberazione del territorio dagli austriaci e la prima cellula del movimento patriottico trentino. Il 14 aprile un presidio di appena 500 soldati tedeschi, arroccati nel Castel Toblino, riuscì a resistere e a respingere l'assedio di tremila corpi franchi. Negli stessi giorni tramontava anche il governo provvisorio istituito da Giuseppe Taddei a Malè a 50 km da Trento. I prigionieri catturati a Castel Toblino il 16 aprile furono fucilati insieme ad altri 7 a Varsone di Riva e ad altri 18 a Sclemo, frazione di Stenico, nelle valli Giudicarie alle falde delle Dolomiti. Il 20 aprile l'Arcioni ricevette l'ordine di ritirarsi dal Trentino e ripiegare su Brescia. Nelle file italiane serpeggiava il malcontento sulla gestione delle operazioni ma il generale D'Apice, che poteva contare su 500 uomini con due pezzi di artiglieria, decise di resistere fino alla morte. All'alba del 16 giugno circa 700 kaiserjager tedeschi tentarono una manovra di aggiramento del passo dello Stelvio. Il generale d'Apice scelse un gruppo dei suoi migliori tiratori che posizionò sui punti più impervi per poi lanciare il resto della colonna alla baionetta. La vittoria fu totale fino ad inseguire il nemico nella caserma Franzeshone che fu data alle fiamme. Il 27 giugno il maresciallo Von Welden preparò una spedizione punitiva con 1500 Landesschutzen, un reparto scelto di truppe da montagna, che pure fu sconfitto e respinto in val Trafoi. A questo punto però il generale d'Apice compie dei gesti inconsueti. Dapprima chiede le dimissioni di Maurizio Quadrio, il commissario fedelissimo di Mazzini, inviato dal governo di Milano e poi c'è da aggiungere la mai sopita polemica con l'Arcioni che era stato suo sottufficiale in Spagna. Nonostante le divergenze li accomunava tuttavia il disprezzo per la dinastia dei Savoia ritenuta la principale responsabile della sconfitta militare. Il generale d'Apice era convinto di poter gestire da solo le operazioni militari e già sognava di proclamare il Trentino libero quando il 27 luglio giunse la notizia della vittoria austriaca a Custoza e la ritirata di Carlo Alberto di Savoia. Il 6 agosto cadeva Milano, il 22 agosto era la volta di Venezia. Fu convocato un consiglio di guerra per decidere le sorti degli insorti e la maggior parte decise di abbandonare lo Stelvio. Ma il generale d'Apice non si diede per vinto e, con alcuni fedelissimi, si inerpicò sulle montagne della Valchiavenna dove fondò una repubblica partigiana di cui si proclamò presidente. Il 29 ottobre 1848 alla testa di tre colonne rientrò in Lombardia in attesa che l'insurrezione scoppiasse nel comasco ma dovette desistere dopo pochi giorni. In seguito si rifugiò in Svizzera e da qui fu richiamato in Toscana dove gli fu affidato il Ministero della Guerra. Gli furono assegnati 5 mila uomini con l'ordine di dirigersi a Lucca da cui sarebbero dovuti passare i reazionari di Cesare De Laugier ma dopo una serie di diserzioni si rifiutò di obbedire agli ordini lasciando Massa e Carrara al loro destino asburgico. Dinanzi a coloro che lo accusavano di codardia, il generale si giustificò con l'impossibilità di potersi dotare di un adeguato equipaggiamento e la disparità di forze in campo sebbene ci fu più di uno che pensò ad un tradimento. Molto probabilmente voleva evitare un bagno di sangue tra la folla accorsa a sostegno del Granduca. Il 14 marzo 1849 fu ascoltato dalla corte marziale convocata dal governo provvisorio di Firenze ed in seguito scagionato da tutte le accuse. Il 30 marzo tuttavia fu destituito al Ministero della Guerra. Per tutta risposta si rifiutò di sedere nell'Assemblea Costituente Toscana dopo essere stato legittimamente eletto. Dopo un breve soggiorno a Lucca, il generale D'Apice si imbarcò il 5 maggio 1849 per la Corsica. Al resto dell'esercito italiano non andò meglio: il 30 maggio 1848 Carlo Alberto fece irruzione nella pianura padana vincendo a Goito, a Valeggio e a Pastrengo anche grazie al sacrificio di molti irredentisti trentini ma non riuscì a vincere a Novara dove gli austriaci si erano riorganizzati. Per tali motivi il 23 marzo 1849 Carlo Alberto abdicò in favore di Vittorio Emanuele II. La speranza di una vittoria intanto veniva alimentata dalle buone notizie che trapelavano dopo le battaglie di Brescia, Venezia e Roma che si sollevò al papa e proclamò una repubblica sotto il triumvirato di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. Il 19 maggio 1849 le truppe borboniche, che erano accorse in difesa del papa, furono sconfitte a Velletri da Giuseppe Garibaldi che però dovette assistere impotente alla caduta della repubblica romana nel giro di un mese. La guerra di Crimea (1853-1856) fu l'evento-chiave per comprendere la fine del Regno delle Due Sicilie e gli sviluppi dell'Unità d'Italia. Il governo piemontese vi partecipò pur senza ottenere in cambio alcun reale vantaggio economico ma con la speranza che un Regno isolato diplomaticamente potesse essere una facile preda delle potenze europee. Ottenne infatti la giusta visibilità per siglare gli Accordi di Plombiers (1858) dove Napoleone III sostenne la candidatura di Luciano Murat, nipote di Gioacchino, a re di Napoli. Domenico d'Apice vi scorse un'occasione per tenere lontani gli odiati Savoia e per ipotizzare un'Italia confederata salvaguardando l'autonomia dei diversi paesi che la componevano. Il murattismo tuttavia non fu ben accolto da tutti i patrioti e il D'Apice si ritrovò ad essere isolato; sospettato di tradimento e abbandonato da tutti, morì a Napoli il 12 gennaio 1864. Di lui Giuseppe Mazzini scrisse: «Io ebbi, gran tempo addietro, una lettera d'Apice. Non risposi ed ebbi torto: ma ti confesso che m'imbrogliava il rispondergli. Lungi dall'accennarmi un desiderio almeno di dare spiegazione intorno alla sua condotta degli ultimi giorni in Toscana, ei faceva una specie di rimprovero a me per averlo cacciato negli affari. S'io lo spronai a cacciarvisi, era per ben altro. Era perch'io credeva avere in lui un energico ostinato rappresentante dell'idea repubblicana; e non perch'ei cedesse sans coup ferir, alla reazione meschinissima toscana, non perch'ei ponesse impedimento ai Lombardi che volevano penetrare sul territorio, non perch'ei pubblicasse un atto di quasi adesione al governo restaurato, mentre altri, come Medici, non potendo altro, veniva almeno colle sue genti a Roma. Io credo ch'egli abbia mancato di testa e d'energia, non di core; ma altri – anzi tutti a un dipresso – credono il contrario; e il suo nome è perduto con dolore dei soli due veri amici suoi, Quadrio e io. Chi lo vede, dovrebbe dirgliene francamente, e per bene suo. S'ei non può scrivere e pubblicare come spiegazione della sua condotta che gli riconcilii gli animi, ei non potrà entrare a parte del prossimo moto». (A Nicola Fabrizi, Bastia 29 marzo 1850, Epistolario di Giuseppe Mazzini. In “Scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini”, vol. XLII, Galeati, Imola, 1925, pp. 192-195). Se da una parte era finita l'avventura di Domenico D'Apice, d'altra parte era appena iniziata la campagna per l'autonomia trentina. In tutti i centri della regione si costituirono dei “Comitati patri” che avrebbero dovuto preparare la secessione dal Tirolo austriaco. Il 29 gennaio 1849 a Trento nacque ufficialmente la “Società patriottica” con lo scopo di promuovere “la separazione amministrativa e parlamentare dal Tirolo tedesco” (Statuto, art. 1). Al Parlamento di Kremsier (Kromeriz) in Moravia sembrava già fossero maturi i tempi per la costituzione di una Dieta trentina che però fu respinta dalla Commissione imperiale (1849). A Milano nel 1850 furono pubblicati i primi numeri del “Crepuscolo”, rivista patriottica, che raccoglieva le firme di illustri intellettuali trentini tra cui Carlo Dordi, Tommaso Gar e Antonio Gazzoletti. Il biennio 1848-49 può essere considerato a tutti gli effetti l'inizio dell'irredentismo trentino laddove una minoranza etnica, inglobata in una realtà nazionale (Austria) percepita come straniera, desiderava il congiungimento ad un'altra (Italia) con la quale confinava. Tuttavia, di fronte alle richieste di secessione e di autonomia, il governo austriaco oppose sempre un secco rifiuto e non mancò di approvare delle leggi restrittive sulla stampa locale. Ciò che seguì furono anni di fervente attesa per le sorti dell'Italia unita fino alla battaglia di Bezzecca, una vittoria che tuttavia fu tradita dai successivi accordi tra Italia e Austria che sancì la separazione del Trentino dal Veneto (21 luglio 1866) il che fu vista dai trentini come un trauma sia dal punto di vista culturale che politico. La marcia dell'annessione del Trentino all'Italia fu ripresa, circa mezzo secolo dopo, da un altro napoletano, Armando Diaz, l'eroe della Grande Guerra.
Luigi Badolati
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