Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Le tasse tra passato e presente

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Civis Romanus sum, Sono cittadino romano, era la frase pronunciata con orgoglio nell’impero romano per far valere i privilegi concessi dalla cittadinanza di Roma.

Paolo di Tarso, cittadino romano, dopo la conversione, chiese di essere portato a Roma in catene per essere processato secondo la legislazione romana.

John F. Kennedy nel famoso discorso del 1963 a Berlino, in occasione del blocco sovietico della città, affermò: «Duemila anni fa l'orgoglio più grande era poter dire Civis Romanus sum. Oggi, nel mondo libero, l'orgoglio più grande è dire Ich bin ein Berliner (io sono un berlinese)».

Con questi illustri precedenti non serve sottolineare ulteriormente il significato e l’importanza della cittadinanza, tuttavia è necessario ricordarne la definizione: «Condizione giuridica e sociale di chi appartiene a uno Stato e dalla quale deriva non solo il riconoscimento di diritti civili, sociali, economici e politici, e i doveri». Tra i doveri è compreso anche il pagamento delle tasse.

Pagare le tasse ha fatto parte delle società umane fino dall’antichità; lo adempivano secondo il Codice Hammurabi i cittadini egiziani con una sorta di dichiarazione dei redditi nella quale doveva essere indicata la rendita di tutti i beni e di tutte le attività commerciali.

Il popolo versava al Faraone la quinta proventum, un tributo applicato alle terre fertili nella misura della quinta parte (20%) di tutti i guadagni.

Nell’antica Grecia le autorità, accanto alle imposte ordinarie avevano introdotto anche quelle straordinarie per le necessità derivanti dalle guerre. Le entrate ordinarie erano date dalle tasse sulle terre produttive, dalle rendite derivanti dai beni degli schiavi e degli stranieri, dai tributi degli alleati e dalle prestazioni ricavate da beni pubblici come foreste e miniere.

Le imposte straordinarie erano costituite dai prestiti e dalle tasse sulla proprietà applicate in caso di guerra e di crisi finanziarie.

Nell’impero romano i tributi (munera) erano impiegati per costruire edifici pubblici, infrastrutture (mura, templi, strade e fognature) ed erano ispirati al principio che una parte dell'attività e del reddito del cittadino era dovuta alle istituzioni pubbliche.

È noto che quando i romani conquistavano un popolo, lasciavano liberi i cittadini nelle loro istituzioni, ma non transigevano sui tributi. Con l’espansione dell’Impero fu introdotto il dazio, una tassa in entrata e in uscita dalle città sulle merci trasportate.

Chi non ricorda l’esilarante scena nel film Non ci resta che piangere, quando Benigni e Troisi erano al confine e il doganiere gridava: «Chi siete? Quanti siete? Cosa portate? Un fiorino!» tutte le volte che passavano e ripassavano il confine.

Comunque ancora oggi i dazi sono un fattore importante che regola lo scambio delle merci tra le nazioni. Nei Paesi moderni le tasse sono indispensabili per finanziare servizi pubblici come giustizia, scuola, trasporti e sanità.

Non pagare le tasse, la cosiddetta evasione fiscale, ha radici antiche: per sfuggire al fisco e ai suoi esattori, i romani degli ultimi tempi dell’impero si rifugiavano addirittura presso i barbari. Alcuni storici sostengono che una delle principali cause della caduta dell’Impero sia stata la schiacciante pressione fiscale.

Anche i metodi per contrastarla hanno origine antica: Solone nel VI secolo a.C. aveva disciplinato la figura dei sicofanti, cittadini che di propria iniziativa denunciavano alle autorità chiunque avesse violato la legge e, di conseguenza, avesse danneggiato gli interessi di tutta la comunità. Questa figura assunse poi una valenza negativa in quanto le accuse mosse dai sicofanti erano spesso infondate e costruite ad hoc per motivi politici.

Augusto, sulle orme di Solone, elaborò leggi per regolamentare la figura professionale di colui che denunciava l’evasione fiscale.

Questo professionista promuoveva anche l’attività processuale per tutelare l’interesse del fisco. Anche a Roma la situazione degenerò perché questi personaggi persero di vista la loro missione, maturando vere e proprie vendette personali. Con l’editto di Costantino del 312 d.C. la loro figura fu eliminata dal sistema processuale. Oggi queste funzioni sono assunte da istituzioni governative; in Italia è l’Agenzia delle Entrate che procede agli accertamenti con metodi legali.

Le pene per le evasioni fiscali sono anch’esse molto variabili nei vari Stati e nelle varie epoche.

Nell’antico Egitto, in caso di falsa dichiarazione, non era previsto alcun modello integrativo o l’istituto del ravvedimento operoso, e nei casi più gravi si applicava anche la pena di morte.

Negli Stati Uniti fece clamore nel 1930 la condanna di Al Capone a undici anni di carcere per evasione fiscale e violazione della legge sul proibizionismo; era sempre stato assolto nei processi per associazione mafiosa e omicidi multipli.

In Italia le condanne per evasione sono piuttosto rare; molto più frequenti i condoni suscitando l’ira dei tanti, e sono la stragrande maggioranza, che pagano regolarmente le tasse e che spesso prendono a prestito la battuta di Totò «E io pago» nel film del 1950 47 morto che parla. Totò, il barone Peletti, tirchio fino all’osso, rinfacciava ogni minima cosa al figlio e alla servitù, convinto che tutto il peso – e soprattutto il costo – del mondo gravassero sulle sue spalle.

Equiparare le tasse a «Mettere (o non mettere) le mani nelle tasche degli italiani» è una espressione che evoca la manovra del furto, un ritornello di vari capi politici che andrebbe evitato.

L’evasione nel nostro Paese è elevata anche se le cifre riportate sono molto diverse. Secondo i dati del 2011 elaborati da Tax Justice Network e riportati sul sito Investor Place, l'Italia si classifica terza nel mondo per mancato gettito come conseguenza dell'evasione fiscale, dopo Stati Uniti e Brasile.

L’economia sommersa è stata valutata in 238 miliardi di dollari con una percentuale rispetto al PIL del 27%. La commissione del Ministero dell’Economia e delle Finanze   ha quantificato nel 2016 l’evasione fiscale e contributiva in 107,5 miliardi di euro pari al 4.9 del PIL.

Uno dei metodi per evadere le tasse è quello di spostare la propria residenza nei Paesi cosiddetti “paradisi fiscali”; che offrono particolari agevolazioni.

Nel 2004, secondo la black list stilata in Italia, sono 54 sparsi per il mondo.

Uno di questi è il Principato di Monaco portato all’attenzione dei mass-media per le recenti dichiarazioni di un grande campione sportivo che ha fatto questa scelta. Sono 8.023 gli italiani residenti a Montecarlo attualmente monitorati dalla Agenzia delle Entrate per accertare che la residenza sia effettiva.

Sono comunque tasse che non entrano nel bilancio del nostro Paese ed è difficile, o forse impossibile, per i cittadini italiani che pagano le tasse in Italia, condividerne le motivazioni.

 

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