Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Sui rapporti tra solidarietà e liberalismo

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La base del liberalismo risiede nella difesa dell’individuo, della sua incolumità e delle sue opportunità di vita. I gruppi, le organizzazioni, le istituzioni non sono fini a se stanti, bensì mezzi finalizzati allo sviluppo individuale.

Parimenti il singolo, con le sue motivazioni e i suoi interessi, è la forza trainante dello sviluppo della società. Quest’ultima, dunque, deve in primo luogo creare spazi per l’operare degli individui liberando le loro energie. È in questo quadro che si collocano nozioni come quelle di Stato di diritto e di economia di mercato.

L’individualismo del liberale, tuttavia, acquista il suo senso solo nell’ambito dell’ipotesi che nessun essere umano sia a conoscenza di tutte le risposte, o almeno che non esista certezza che la risposta data di volta in volta sia giusta e rimanga tale in seguito.

Ma è lecito dire che solo l’individuo pensa, solo l’individuo ragiona, solo l’individuo agisce?

In questo senso, il soggetto diventa una sorta di “a priori” dalle cui scelte tutto il resto può essere dedotto.

Secondo tale quadro interpretativo il soggetto è un assoluto al quale in ultima analisi vanno ricondotte le dimensioni del senso, della razionalità e dell’agire.

Il risultato è una grande astrattezza: l’individuo isolato e assolutizzato non è qualcosa di esistente nella realtà, bensì una mera creazione della mente.

La risposta a tale obiezione si basa su una particolare definizione di “libertà”, intesa come “assenza di coercizione da parte di altri individui”; e si tratta per l’appunto di un concetto meramente negativo, nello stesso senso in cui la pace viene definita come assenza di guerra.

 

Tale definizione negativa non ci fornisce alcuna assicurazione circa particolari opportunità, ma lascia a noi la responsabilità di decidere quale uso fare delle circostanze in cui ci troviamo.

Notiamo, tuttavia, che mentre è giustificato affermare che il futuro non può essere totalmente pianificato, è però lecito sostenere che esso può e deve essere “progettato”.

Sin dagli inizi della storia dell’umanità, gli individui progettano il futuro nel senso di darsi degli obiettivi da perseguire a più o meno breve scadenza. Rientrano nella progettualità individuale la scelta del percorso di studi, la scelta di creare o meno una famiglia e quella di svolgere determinate attività lavorative.

Rientrano nella progettualità sociale - o allargata - la scelta di fissare rapporti di un certo tipo con gruppi sociali diversi, nonché quella di privilegiare alcuni comportamenti collettivi e non altri.

Non solo: anche la politica è, in un’accezione addirittura essenziale, progetto. Qualora venga intesa quale servizio, la politica non può prescindere dall’elaborazione di progetti circa il domani.

Ipotizzare un individuo isolato dalle cui scelte, in meccanica congiunzione con le scelte degli altri individui, si possa dedurre l’intera struttura della vita sociale è mera utopia.

Ed è un’utopia che è la speculare controparte dell’idea secondo cui l’intera struttura della vita sociale può essere dedotta dalla “classe” intesa come entità a se stante. Si tratta comunque di ipostatizzazioni che nulla hanno a che fare con la vita concreta.

Sin dalla nostra nascita noi non siamo mai individui isolati, bensì individui che agiscono in un contesto sociale. Facciamo insomma parte di un gruppo che si è dato delle regole, e queste regole determinano il senso stesso delle nostre azioni. Ma non si tratta solo di questo. Il nostro gruppo, a sua volta, fa parte di un gruppo più vasto, e quest’ultimo è parte di un gruppo più vasto ancora. Risulta assai difficile determinare che cosa sia un individuo prescindendo dall’intera rete di relazioni sociali che fissano i criteri in base ai quali si svolge la sua vita.

Occorre inoltre aggiungere ancora qualcosa per completare il quadro. L’insieme delle relazioni sociali di cui abbiamo appena parlato dà vita al mondo sociale, e tale mondo ha conquistato una sua dimensione autonoma che è difficile contestare.

Istituzioni, forme di governo, regole, etc. sono certamente prodotti del genere umano, ma la loro forza è tale da produrre ciò che oggi si chiama reazione di “feed-back”, ragion per cui essi sono influenzati dalle azioni degli individui ma, a loro volta, le influenzano. Se non teniamo conto di questo fatto, diventa arduo dare un senso alle nostre azioni.

Siamo in presenza di una doppia dipendenza. Da un lato le istituzioni politico-sociali dipendono dagli individui, in quanto non potrebbero neppure essere immaginate in loro assenza (in altri termini, esse non si creano da sole: in un pianeta privo di esseri umani non ci sarebbero istituzioni sociali).

Dall’altro gli individui dipendono, anche se non in modo totale, dal contesto sociale in cui sono inseriti, e la nozione di “solidarietà” altro non denota che il riconoscimento di questo vincolo originario con gli altri membri della società.

Ho detto che tale dipendenza non è completa per un motivo molto semplice: l’individuo non dipende totalmente dal contesto sociale in quanto, da un certo punto di vista, egli è pure parte del mondo naturale. Tuttavia non può essere questo il nostro segno distintivo.

La differenza risiede nell’essere noi inseriti in un mondo sociale che è in gran parte autonomo da quello naturale.

Questo mondo sociale ci fornisce non solo le regole per l’azione o il linguaggio per comunicare, ma anche gli strumenti per metterci in contatto con il mondo naturale di cui noi stessi facciamo parte dal punto di vista meramente fisico.

Mentre è senz’altro possibile riconoscere che la realtà naturale intrattiene con il “mondo dei concetti” una relazione di tipo causale, è piuttosto evidente che tale relazione, assunta di per sé, non spiega nulla qualora si prescinda dal ruolo di mediazione svolto dal gruppo sociale nel rapporto mondo-individuo.

In altre parole, il mondo in quanto tale non è in grado di infondere direttamente nell’individuo la capacità di pensare utilizzando i concetti. Questa è l’essenziale funzione di mediazione svolta dal gruppo sociale attraverso il linguaggio, nonché la funzione di trascendimento del gruppo sociale stesso nei confronti dell’individuo.

Veniamo dunque al concetto di “solidarietà”. Oggi esso è piuttosto impopolare a causa dell’uso distorto che ne è stato fatto in un passato anche recente. In altre parole esiste il timore che la solidarietà si trasformi in assistenzialismo che costa molto senza nulla dare in cambio.

Tuttavia la solidarietà è il riconoscimento del vincolo originario che ognuno di noi intrattiene con gli altri membri del genere umano. Se rammentiamo che il nostro essere individui è inevitabilmente segnato dal nostro stare in rapporto con gli altri, allora comprenderemo che uno spostamento ragionevole di risorse può servire ad alleviare le tensioni sociali dando vita a una migliore qualità complessiva della vita.

Per incamminarsi su questa strada occorre rinunciare all’io atomizzato e solipsistico - e sostanzialmente fittizio - teorizzato da alcuni pensatori dei nostri giorni.

Occorre insomma rinunciare a questo “io” che si espande a dismisura, sino ad annullare tutto il resto. Bisogna negare l’equivalenza io-mondo, nel senso che l’io e il mondo sarebbero in pratica la stessa cosa. Se il mondo è una semplice proiezione dell’io, diventa pressoché impossibile trovare ragioni per stare assieme.

È opportuno rilevare, tuttavia, che la solidarietà non è un concetto attraente solo a livello teorico. Essa ha infatti delle ricadute sul piano pratico, e va pure vista sotto il profilo dell’utilità.

Se in nome della solidarietà si rinuncia a qualcosa per favorire gli altri, le tensioni sociali possono essere mantenute entro livelli tollerabili, contribuendo così a migliorare la qualità della vita sia di chi dà sia di chi riceve.

 

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