Empatia ed intelligenza emotiva, un interessante confronto
Il termine empatia deriva dal greco antico εμπάθεια (empátheia), a sua volta composto da en-, “dentro”, e pathos, “sofferenza o sentimento”; era usato durante gli spettacoli teatrali per indicare il rapporto emozionale di partecipazione che legava l'autore-cantore al suo pubblico. È stato Robert Vischer, studioso di arti figurative e problematiche estetiche alla fine dell'Ottocento, ad introdurre il concetto di empatia all’interno di un contesto legato alla riflessione estetica, ove con empatia s'intende “la capacità della fantasia umana di cogliere il valore simbolico della natura”. L’empatia, quindi, essendo percezione di un qualcosa e non comprensione, prende da subito le distanze da qualsiasi attività intellettuale, rifacendosi invece al campo emozionale. L’empatia è successivamente stata oggetto di numerose indagini da parte di filosofi e studiosi sulle dinamiche psicologiche, e psicanalitiche fino ad oggi. Nell'uso comune, “empatia” è l'attitudine a offrire la propria attenzione per un'altra persona, mettendo da parte le preoccupazioni e i pensieri personali. La qualità della relazione si basa sull'ascolto non valutativo e si concentra sulla comprensione dei sentimenti e bisogni fondamentali dell'altro. Secondo l’economista e saggista statunitense Jeremy Rifkin si tratta di una caratteristica alla quale è naturalmente predisposto l’uomo moderno. Lo studioso ha sviluppato il concetto nel suo saggio del 2010 intitolato La civiltà dell’empatia.
Nel mondo moderno l’importanza dell’empatia è sottolineata in tutti i rapporti familiari, scolastici e professionali. In medicina è considerata un elemento fondamentale della relazione di cura. Viene talvolta contrapposta alla simpatia: quest'ultima sarebbe un autentico sentimento doloroso, di sofferenza (da syn- “insieme” e pathos “sofferenza o sentimento”) insieme al paziente e rappresenterebbe quindi un ostacolo ad un giudizio clinico efficace. Al contrario l'empatia permetterebbe al curante di comprendere i sentimenti e le sofferenze del paziente, incorporandoli nella costruzione del rapporto di cura, ma senza esserne sopraffatto. Questa distinzione, che trova supporto in un’interpretazione filosofica dell’empatia intesa come non immedesimazione con l’altro, non è tuttavia accettata da tutti. La capacità di essere empatici è molto variabile: posseduta al massimo grado da coloro che dedicano completamente la loro vita agli altri, è del tutto assente nei criminali seriali, in quelli che hanno disturbi della vita sessale come i pedofili, negli psicotici gravi e ancora negli esecutori di torture e omicidi in obbedienza a ordini gerarchici. È problematica nei soggetti autistici; può inoltre variare nel tempo nello stesso individuo. La gestione dell’empatia non è facile; le notizie provenienti dalle guerre la mettono a dura prova. In situazioni estreme può essere necessario ricorrere al “distacco emotivo” per salvaguardare la salute mentale come evidenziato da Manisha Gangly, giornalista investigativa, corrispondente del Guardian, nell’intervista pubblicata sul settimanale Donna nell’ottobre 2023: «Stavo lavorando sull’inchiesta sulla Libia quando notai che vedere migliaia di foto di corpi smembrati decapitati o profanati stava avendo un impatto sulla mia salute mentale… ho(anche) intervistato trenta dei migliori investigatori al mondo: tutti avevano avuto problemi psicologici… Mi hanno raccontato i loro incubi notturni e le difficoltà a parlarne con gli amici e confidarsi. Questi sono tutti sintomi del disturbo da stress post traumatico: la cosa buona è elaborarlo insieme a qualcuno, aiuta molto, bisogna imparare a d essere gentile con noi stessi. Molti giornalisti non ne sono capaci perché si ritrovano a combattere col senso di colpa dovuto al fatto di esser sopravvissuti a differenza dei protagonisti delle storie che raccontano». I libri di Primo Levi hanno documentato quest’ultima situazione psicologica in modo magistrale. L’intelligenza emotiva può offrire delle risposte alle difficoltà poste dalla gestione dell’empatia. Il termine fu usato per la prima volta dagli psicologi Peter Salovey e John D. Mayer, nel 1990 nell’ articolo Intelligenza emotiva sulla rivista Imagination, Cognition and Personality. Fu definita come: «La capacità di controllare i sentimenti ed emozioni proprie e altrui, distinguere tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni». Il significato della intelligenza emotiva è stato sviluppato successivamente e reso popolare dal giornalista scientifico e psicologo Daniel Goleman. Il suo libro, Emotional intelligence, pubblicato nel 1995, è stato tradotto in italiano nel 1997, editore Rizzoli col titolo Intelligenza emotiva e nel sottotitolo Che cos'è e perché può renderci felici. Un enorme divario separa l’intelligenza emotiva da quella artificiale nella popolarità in rete: 4 milioni di item su Google per la prima, 35 milioni per la seconda. Il dato suggerisce come l’interesse della società odierna per la tecnologia sia di gran lunga superiore a quello per le emozioni e i sentimenti ed è in contrasto con il diffuso “analfabetismo emotivo”. Quest’ultimo consiste nell’incapacità di riconoscere e gestire le proprie e le altrui emozioni e la mancanza di consapevolezza dei motivi per i quali si provano determinate emozioni. Gli “analfabeti emotivi” hanno difficoltà a provare empatia, manifestano distacco e freddezza emotiva. Programmi di “alfabetizzazione emozionale “, si sono dimostrati utili per affrontare questi problemi, in particolare nelle fasce giovanili. Anche nel nostro Paese, con la legge 2782/2022, è stata avviata una sperimentazione relativa alla valorizzazione delle emozioni nei programmi didattici scolastici, su base volontaria, della durata di 3 anni, per i ragazzi nei cicli di studio tra i 6 e i 16 anni. L’attenzione ai problemi psicologici e sulla importanza del loro impatto sulla società proviene soprattutto dal mondo anglosassone, mentre la concezione marxista mette le “sovrastrutture”, diritto, filosofia, politica, etica, religione, arte in secondo piano rispetto alla struttura economica della società la quale condiziona i comportamenti psicologici. Quando Marx si rese conto che le idee socialiste del suo tempo non avrebbero modificato qualitativamente il sistema borghese, cominciò a sostenere che la “sovrastruttura” dipende totalmente dalla “struttura”, facendo tendenzialmente coincidere “l'essere sociale con l'essere economico”. Oggi si tende a considerare l’essere sociale in maniera “olistica”, in cui tutti gli elementi che lo compongono vanno considerati “paritetici”, in grado di condizionarsi a vicenda, sicché nessun elemento può costringere a fare una determinata “scelta”, anche se un condizionamento può essere più forte di un altro. Senza in alcun modo dimenticare l’importanza dei fattori economici anche le sovrastrutture e la risoluzione dei problemi connessi, compresi i comportamenti psicologici, sono pertanto indispensabili per una crescita armonica dell’umanità del futuro. |
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