Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Zi’ Mario Limentani, il testimone di Mauthausen

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Lo chiamano ancora oggi «il Veneziano», anche se ha vissuto ininterrottamente a Roma dai primi anni Trenta, a parte la drammatica parentesi dei due anni di deportazione.

Mario Limentani, detto Zi’ Mario, morto nel 2014 a 91 anni di età è stato uno dei pochi sopravvissuti di quei circa 1.700 ebrei della comunità più popolosa d’Italia che, durante i nove mesi di occupazione tedesca della capitale, tra il settembre del 1943 e il giugno del 1944, vennero estirpati a forza dalle loro case e tradotti nell’inferno dei Lager del Reich.

La sua storia, per tanti aspetti unica ed esemplare, è stata per la prima volta raccontata in modo organico e completo nel libro del 2013 intitolato La scala della morte. Mario Limentani da Venezia a Roma, via Mauthausen (Marlin editore), di Grazia Di Veroli, che con delicatezza e rispetto della sfera privata dell’interlocutore, ha sapientemente collezionato i suoi ricordi con le interviste rilasciate dallo stesso Limentani negli ultimi venti anni, a partire da quelle al Cdec e alla Shoah Foundation di Spielberg.

Nel libro-intervista, uscito significativamente nel 70° anniversario della deportazione da Roma del 4 gennaio 1944, scorrono le immagini dell’infanzia di Limentani, originario di Venezia ma trasferitosi nella capitale giovanissimo - par di sentirlo, nella sua classica parlata in romanesco verace impastata di inflessioni venete - fino all’impatto scioccante con le leggi razziste del 1938.

 

E poi la guerra, la fame, i bombardamenti, la caduta del fascismo, l’occupazione tedesca, la raccolta dell’oro e la tragica alba del 16 ottobre del 1943, con la retata degli ebrei in tutta Roma, durante la quale i Limentani si nascosero in uno scantinato e si sottrassero alla cattura da parte delle SS di Herbert Kappler.

Purtroppo il ventenne Mario Limentani, come centinaia di altri ebrei romani, finì comunque tra le grinfie dei nazisti, qualche settimana dopo, a fine dicembre del 1943, nei pressi della Stazione Termini, forse a causa di una delazione della celebre spia ebrea Celeste Di Porto, detta la Pantera Nera. E ad arrestarlo e a consegnarlo ai tedeschi furono alcuni fascisti, a testimonianza di quanto pesò il collaborazionismo italiano nella vicenda della Shoah.

Incarcerato a Regina Coeli, il 4 gennaio del 1944 Mario venne condotto al binario n. 1 della Stazione Tiburtina e caricato su un vagone piombato in partenza per il Reich, assieme a circa 300 deportati.

I suoi compagni di viaggio erano in maggioranza politici, dai nipoti di Badoglio, Pietro e Luigi Valenzano, al gruppo dei comunisti, tra i quali spicca la figura di Filippo D’Agostino, uno dei fondatori del partito comunista d’Italia.

Ma vi erano anche una decina di ebrei. All’arrivo a Mauthausen, a Limentani, che pure venne registrato come ebreo, venne cucita sulla tuta a righe «una stella fatta con due triangoli: uno rosso con IT nero perché ero italiano e m’avevano portato con i politici e uno giallo perché ero ebreo». Quasi ad attestare il destino in parte comune che toccava a chi si era opposto al nazifascismo e a chi era perseguitato per il solo fatto di essere ebreo.

La particolarità dell’esperienza di Limentani (come quella degli altri del suo gruppo) trae origine proprio da qui. Egli infatti, a differenza della maggior parte degli ebrei italiani, non venne deportato ad Auschwitz, ma a Mauthausen, uno dei Lager simbolo della deportazione politica, più avanti trasferito nel sottocampo di Melk, poi di nuovo a Mauthausen e infine nell’altro sottocampo di Ebensee.

Nell’immaginario collettivo, quando si pensa alla Shoah, soprattutto per quanto riguarda gli ebrei italiani, il pensiero va subito al Lager di Auschwitz, dove furono deportati oltre 6mila di loro (su un totale di poco più di 6.800).

Forse anche per questo motivo le vicende dei circa 800 ebrei che furono deportati in altri Lager, hanno avuto – ingiustamente – un’attenzione minore da parte della storiografia e dell’opinione pubblica.

Il racconto dei due anni nei Lager nazisti è commovente, ma – come è nello stile asciutto e privo di retorica di Limentani – non indulge mai al pietismo e non insiste sui dettagli più crudi, mantenendo sempre un certo pudore e lasciando confinato ciò che è indicibile nella sfera dell’inesprimibile.

Tra le pagine più toccanti delle memorie di Limentani, raccolte e verificate dalla Di Veroli, ci sono quelle sulla famosa «scala della morte» di Mauthausen, dalla quale prende il titolo questo libro: i 186 gradini, ripidi e scivolosi, che portavano alla cava e che i deportati erano costretti a salire e scendere più volte al giorno, con un pesante carico di massi di granito.

Molti di loro morirono su quella scala, privi di forze, rotolando sui gradini oppure facendo un tragico volo nel burrone sul quale la scala si protendeva. Limentani fu uno dei pochi ebrei romani a sopravvivere alla soluzione finale e a tornare a casa. E nel dopoguerra, divenne una delle colonne portanti dell’Aned capitolino e uno dei principali testimoni italiani della deportazione razziale e politica.

 

Mario Avagliano

 

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