Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Capitan Marotta: un giallo napoletano nel secolo dei lumi

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La guerra di successione spagnola, fu uno dei conflitti più feroci della storia europea. Nel 1700 era morto il re di Spagna Carlo II della casa d'Asburgo che, nelle sue ultime volontà, aveva disposto che la corona fosse destinata a Filippo di Borbone nipote di re Luigi XIV di Francia, meglio conosciuto come il “re Sole”.

A contendersi il trono di Spagna c'erano inoltre l'Inghilterra, l'Olanda e naturalmente l'Arciducato austriaco che all'epoca faceva parte del Sacro Romano Impero Germanico mentre a Rovereto vigeva uno statuto di autonomia per conto della Serenissima Repubblica di Venezia. Leopoldo d'Asburgo pretendeva il Ducato di Milano ma non si sarebbe accontentato solo di questo per realizzare le sue mire espansionistiche in Italia.

A Leopoldo, infatti, morto nel 1705, gli successe il figlio Giuseppe che, alla fine della guerra, riuscì ad ottenere sia Milano che Napoli (1707-1734).

I francesi e i bavaresi avevano ordito un piano per attaccare il Trentino su due fronti: da una parte il duca Massimiliano di Baviera aveva invaso il Tirolo, d'altra parte francesi, al comando del maresciallo Nicolas de Catinat, erano entrati in Italia e si erano spinti fino a Rivoli Veronese. Ad attenderli c'era Eugenio di Savoia, comandante della coalizione austro-inglese, insieme a Guido Von Starhemberg che riuscirono a fermare l'avanzata del nemico.

 

Per una strana ironia della sorte in questa guerra combattevano fianco a fianco i Savoia con i Borbone: quegli stessi Savoia che più di un secolo dopo invaderanno il Regno delle Due Sicilie prima di proclamare l'Unità d'Italia.

La popolazione roveretana, allarmata dalla ferocia dei combattimenti, chiese una protezione speciale. Proprio qui il 5 agosto 1703 i trentini giurarono fedeltà alla Madonna e fecero voto di celebrare ogni anno la festa in suo onore. L'arciduca, volendo venire incontro alle loro preghiere, pensò a dei rinforzi per la difesa del territorio specialmente su Rovereto, Terragnolo, Nago, Mori e Isera.

La scelta ricadde su un capitano di ventura proveniente dalle regioni più calde della penisola italiana, il suo nome era Pietro Marotta, nato a Capua il 1658 da nobile famiglia, che nel 1702 era subentrato al marchese di Leffrano al comando della brigata mobile di Rovereto sotto il comando di Eugenio di Savoia ma con le bandiere dell'Austria. Gustavo Chiesa così lo descrive:

 

«un uomo di statura alta, assai corpulento, si capegli castanei ricciuti, barba di color castagno, vestito d'una gabbana di color pigna foderata di ormesino turchino con sotto una velata di saglia color grigio con calzoni d'uguai genere, cravatta al collo con pizzo calze di seta color ponsò (rosso fuoco) e sotto calzette di bambagia, scarpe di vitello nere con fibbie di ottone, con lavorio d'acciajo fatto in forma di piede, camicia di tela sottile e mutande parimenti di ugual tela». (Chiesa, vol. 1, pag. 52).

Dopo la morte di re Carlo di Spagna, il Marotta, chiese asilo al Principe del Tirolo “e nella qualità di suo suddito passò nei territori della monarchia, ove venne decorato di molte e larghe onorificenze” (Chiesa, vol. 4, p. 145).

A Rovereto vi erano due milizie: una “presidiaria” agli ordini del capitano Besatti che provvedeva alla difesa del Castello ed un'altra “mercenaria” che si occupava di brevi missioni militari (assalti agli avamposti, sabotaggi, etc.). Il Marotta non doveva essere certo uno sprovveduto, dato che era stato scelto dai vertici militari perché si fidavano di un uomo come lui. Inoltre gli atti del processo lo descrivono come amico di illustri personaggi napoletani tra cui il principe di Carafa e il marchese di Loffrano.

Una sera in città sarebbe dovuto arrivare un contingente da Trento con centinaia di soldati e cavalli al seguito e le autorità requisirono una parte delle stalle dell'abitazione del Marotta. Per tutta risposta il nostro capitano aggredì quegli uomini e versò il contenuto delle mangiatoie per le strade. Marotta aveva più di un motivo per essere adirato: era spesso bersagliato da burle e ingiurie dal capo della polizia (o cavaliere della curia), inoltre, da qualche mese non riceveva più lo stipendio (circa 300 fiorini), molto probabilmente per via della guerra che distoglieva molti fondi verso la truppa regolare e i vettovagliamenti.

 

Per paura che la situazione potesse degenerare, i provveditori di Rovereto decisero di pagare in anticipo circa 100 fiorini, come parte dello stipendio che poi avrebbero saldato in seguito. Ma il Marotta non ne volle sapere e minacciava che, se non gli fosse stato liquidato lo stipendio per intero, avrebbe svaligiato i dazi di Sacco che all'epoca costituivano la parte più ricca della città. E in effetti per tutta la sera e per i giorni seguenti fu avvistato aggirarsi inquieto per la città con i suoi mercenari più che altro per attirare l'attenzione piuttosto che per commettere dei reati veri e propri. I suoi uomini, armati di archibugi e vestiti con pesanti tabarri dovettero procurare più di uno spavento agli abitanti del quartiere tanto che alcuni di loro andarono a lamentarsi dal Podestà.

Il Podestà, che aveva altri problemi a cui pensare, decise alla fine di incriminare Pietro Marotta per motivi di ordine pubblico. Tuttavia per le sue competenze non avrebbe potuto processarlo con il rito civile bensì con quello militare. Cercò quindi uno stratagemma per arrestarlo ma le cose non andarono per il verso giusto.

Il 7 luglio 1703, per tramite del suo medico personale Antonio Nesci, il Marotta fu avvisato delle intenzioni del Podestà che voleva catturarlo con il pretesto dello stipendio. Don Pietro si accorse subito dell'inganno. Già il fatto che l'accoglienza non fosse stata delle migliori lo aveva fatto insospettire ma poi quando ha visto che davanti al portone del Pretorio c'erano il capo della polizia G.B. Zugni con due sconosciuti, allora aveva capito che c'era qualcosa che non andava per il verso giusto. Nonostante ciò ha varcato la soglia del palazzo ed ha estratto la sciabola per difendersi dagli attacchi dei nemici che da più parti si gettavano su di lui. Dei sei uomini che facevano parte della sua scorta solo due si salvarono: uno, Antonio Grassani, si finse morto mentre l'altro, Mattia Sardi, fuggì per le campagne essendo poi riconosciuto e arrestato qualche ora dopo.

La causa di don Pietro fu portata avanti dalla vedova che fece appello alla corte imperiale di Vienna dove fu ricevuta dal duca Leopoldo che, commosso per la vicenda, decise di nominare una commissione d'inchiesta. Il 23 maggio 1705 furono condannati il cavaliere e i due sgherri presenti al momento dei fatti e autori materiali dell'omicidio (G.B. Zugni, suo fratello Domenico, Baldassarre Balter) ma i mandanti, tra cui il podestà e il capitano del castello, rimasero impuniti. Il podestà era il modenese Carlo Antonio Medici coadiuvato dai provveditori Giovanni Antonio Chiusole, Giuseppe Sbardellati, Melchiorre Partini e Nicolò Rosmini.

Il commissario di guerra, per conto dell'Eccelso Reggimento di Innsbruck, assoldava i soldati di ventura e garantiva loro il salario. Tuttavia in quei giorni il commissario era assente essendo sostituito da Giovanni Corrado Schmerling. Santo Besatti era il capitano del castello. Tuttora sulla strada che conduce dal fiume Leno al municipio di Rovereto c'è una targa che ricorda la barbara e vigliacca uccisione del capitano Marotta e tre uomini della sua scorta: Giovanni Antonietti, Costantino Spicciarelli, Alessandro Rizzi. Risultò coinvolto anche un cameriere veronese le cui generalità sono ignote. La sua casa è ancora visibile, tra via delle Grazie e via alle Campagnole, nei pressi del Convento dei Cappuccini. La targa recita:

 

«Sulla gradinata del già veneto pretorio, qui demolita l'anno MDCCCXCI, stava questa croce in memoria di Pietro Marotta da Capua, capitano cesareo trucidato sul luogo con quattro sui militi il dì VII luglio MDCCIII».

 

Gli atti del processo rivelano molti altri particolari inquietanti. Innanzitutto il Marotta non ebbe alcun anticipo in denaro se non una cambiale che avrebbe dovuto ritirare da terzi molto probabilmente da usurai (5 luglio 1703). Inoltre non risulta alcun ordine di arresto per il malcapitato se non «finto e simulato arresto giudiziale». (Sentenza contro il Dr. Chiusole, 23 maggio 1705).

Marotta aveva denunciato il fatto ai vertici militari di Vienna nella persona del generale austriaco Gutenstein che gli aveva chiesto di attendere la fine della guerra (6 luglio 1703). Nella sentenza finale compaiono tutte le false accuse nei confronti del Marotta tese a far apparire il napoletano come un brigante.

Negli accordi tra il Marotta e la comunità di Rovereto risulta il mancato versamento dei soldi degli stipendi apparentemente per la penuria di risorse ma in realtà per ben altri motivi! Risulta poi un nutrito elenco di risorse in natura per il sostentamento della sua famiglia (coperte, candele, legna da ardere, sale, etc.) che era stato pagato dal municipio di Rovereto.

Quindi non c'era nessun motivo che potesse far pensare ad un risentimento verso i Provveditori della città. Non si capisce però del perché l'ordine di arresto sia giunto dal Podestà per motivi di ordine pubblico e non dal tribunale militare. Alcuni testimoni affermano di aver visto il podestà, il cav. Panzoldi confabulare con Nicolò Rosmini otto giorni prima del delitto (Esame di Giorgio Montagna, 1° ottobre 1704).

Desta meraviglia l'ambiguità del capo della polizia che si era presentato dal giudice con varie giustificazioni e lo stesso cronista Gustavo Chiesa lo fa notare (7 luglio 1703). Tra poliziotti, soldati e pretoriani si parla di almeno una trentina di uomini armati al momento del delitto, forse un po' troppi per un colloquio di lavoro! Dopo il delitto inoltre furono arrestati nove persone di origini napoletane del tutto innocenti!

L'esame autoptico (“viso reperto”) rivelò ben 46 ferite da arma da fuoco su tutto il corpo del Marotta quindi è improbabile che sia stato ucciso da un'unica persona o da un sicario ma è più verosimile che il decesso sia avvenuto in seguito ad una sparatoria tra un gruppo di soldati di numero maggiore rispetto alla sua scorta.

È probabile quindi che al tranello ordito dal capo della polizia si fossero aggiunti anche i militari del presidio del palazzo del Pretorio.

Furono inoltre esaminate le mura e il portone d'ingresso che presentavano diverse tracce di arma da fuoco il che dimostra che l'aggressione era iniziata nel cortile mentre l'omicidio vero e proprio si era consumato nella tromba delle scale che conducono alla sala di rappresentanza dove si sarebbe dovuto tenere il colloquio con il Podestà.

È ancora probabile che il Marotta si fosse rifugiato su per le scale non appena avesse sentito i primi schioppi e, a metà percorso, si sia ritrovato al centro di un agguato in stile mafioso. Se non ci fosse stata la sparatoria, avrebbe potuto benissimo salire tutte le scale e finire la corsa nella cancelleria (o salone dell'aquila che si trova sopra le scale del palazzo).

Ma è più probabile che sia stato impedito da altri nemici, forse le stesse guardie che presidiavano il castello comandate dal capitano Besatti. Com'è possibile che le guardie, normalmente di stanza al castello, si trovassero al Pretorio? I testimoni del processo affermano che i soldati e lo stesso capitano Besatti erano stati informati delle intenzioni del Podestà e che erano stati all'uopo trasferiti al Pretorio. Gli atti però affermano che i soldati si trovavano nelle stalle al momento della sparatoria e che sono accorsi solo quando hanno sentito gli spari.

A questo punto subentra un certo Giovanni Grasser tenente di polizia che un testimone afferma di aver visto al palazzo del Pretorio insieme ad altri soldati “nascosti” nella cancelleria (17 luglio 1703). Un depistaggio? La deposizione del capo della polizia G.B. Zugni è piuttosto curiosa. Afferma di non essere entrato nel palazzo del Pretorio ma di esserne rimasto fuori come a discolparsi di qualcosa.

Fa poi nomi e cognomi di persona armate nella cancelleria che avrebbero sparato e ucciso il Marotta: Andrea Antonini, l'alfiere Angelo Sbardellati, Francesco Fava, il dottor Partini, Giorgio e Iseppo Montagna, Baldessare Blater e Gasparo Antonio Frizzi.

C'era persino un prete, tale don Marco Antonio Dalben e altri personaggi che sono citati confusamente tra cui Antonio Carpentari e un certo Mascotti. Afferma inoltre di aver ricevuto l'ordine di arresto da parte del Podestà ma di essersi rifiutato per mancanza di mezzi e uomini (interrogatorio di G.B Zugni, 16 agosto 1704).

Uno dei sopravvissuti al massacro, Mattia Sardi, riferì che il Marotta era stato invitato a salire le scale da solo e a lasciare le armi mentre i soldati della sua scorta rimanevano immobili in attesa di ordini (interrogatorio a Mattia Sardi, 12 luglio 1703).

Il Marotta sarebbe stato ucciso quindi nella cancelleria e poi il suo corpo buttato per le scale per simulare una battaglia. Il testimone stesso afferma di essersi gettato da una finestra della cancelleria in una delle rogge che costeggiano il palazzo e di essere fuggito nella campagna dove però sarebbe stato riconosciuto e arrestato qualche ora dopo. Gasparo Montagna, il barbiere del castello (detto anche il “barberone”), afferma di aver ricevuto l'invito da Gaspero Antonio Frizzi, citato dal capo della polizia come uno degli esecutori, e di essersi incontrato la mattina del delitto in casa sua con altri cospiratori che poi si sarebbero recati armati al palazzo del Pretorio, direttamente nella cancelleria, passando dal giardino (interrogatorio di Gasparo Montagna, 16 agosto 1704). Se questa testimonianza è vera, allora renderebbe ragione dei veri colpevoli ma non dei mandanti.

Molti cittadini poi affermano di aver visto, dopo l'omicidio, un via vai dalla casa del Marotta forse alla ricerca di un tesoro o dei gioielli che il capitano aveva guadagnato nelle sue imprese e nei suoi viaggi. La sentenza allude al sospetto da parte degli assassini che la vittima fosse una spia al soldo dei francesi (Sentenza contro il Dr. Chiusole, 23 maggio 1705).

Vi erano anche dei poliziotti che requisirono le armi per paura di una vendetta (Esame di Tomio Hortis, 24 settembre 1704). Ciò dimostra che Pietro Marotta è stato ucciso mentre era disarmato. Non è da escludere che quelle persone fossero gli stessi assassini intervenuti per procacciarsi delle false prove per inquinare il caso o forse per corrompere la moglie e i figli. Dei beni sottratti c'è un elenco dettagliato dove risulta tra l'altro un cavallo, una sciabola d'argento e un anello d'oro (Protesta di Fra Tomaso dalla Calce, 27 settembre 1704) quindi ben poca cosa rispetto al “tesoro” tanto agognato.

Qualche mese prima del suo omicidio Pietro Marotta aveva avuto un diverbio col suo padrone di casa, tale Giorgio Rosmini. I due si erano accordati per la gestione delle stalle: il Rosmini avrebbe rifornito il fieno mentre il Marotta lo avrebbe ripagato con il letame dei cavalli da utilizzare poi come concime. Accadde però che il Marotta, al fine di procacciarsi il denaro in virtù del mancato stipendio, aveva deciso di vendere il letame a terzi.

Il Rosmini per tutta risposta denunciò il fatto al podestà che decise di requisire il grano rimasto come forma di risarcimento per il torto subito. Il Marotta pure denunciò il fatto al commissario di guerra colonello Martini (Altro esame di Antonio Nesci, 16 ottobre 1704). Tomio Hortis, stalliere del palazzo del Pretorio, afferma di aver visto il Podestà nel Pretorio il giorno del delitto andare su e giù per le scale che collegano la cancelleria con le cucine (Esame di Tomio Hortis, 24 settembre 1704).

Alcuni testimoni riferiscono di aver visto un gruppo di uomini armati inseguire uno dei superstiti del massacro, il medico Antonio Nesci, fuggito in un convento e poi fermato. Un altro sopravvissuto era stato ritrovato nella bottega di un orefice.

Uno degli inseguitori, riconosciuto come Ferdinando Savioli, che avrebbe tentato di ucciderlo, risultò poi latitante (26 settembre 1704).  In realtà i napoletani arrestati furono molti di più di coloro che erano scampati al massacro: Gerardo Panza, Antonio de Steffani, Nicola Viani, Francesco de Ruggieri, Mattia Sardi, Antonio Lofrano, Antonio Grassacci, Rocco Cirelli (Esame di Antonio Nesci, 17 settembre 1704).

Ciò significa che dopo il delitto si è verificata una “caccia all'uomo” iniziata presumibilmente dagli stessi autori del delitto, e poi via via estesa alla ciurmaglia che riuscivano ad acciuffare per le strade. Molti di questi villani affermano di aver sentito le campane suonare e di non essersi accorti di cosa stava avvenendo.

Come se non bastasse, tra tutti quei soldati però c'era anche la “compagnia di arma bianca” al comando del tenente Raser.

Uno dei testimoni-chiave del processo, un militare di tale compagnia, afferma di essere stato chiamato dal podestà e da uno dei provveditori Melchiorre Partini il giorno del delitto per dare man forte all'arresto dei napoletani sospettati di tramare una congiura in città (Esame di Gasparo Cumerle, 19 agosto 1704). Altri ordini di arresto furono eseguiti verso Giulio Pizzini, Giannantonio Chiusole, Giuseppe Sbardellati, Niccolò Rosmini, Gasparo Antonio Frizzi, G.B.Panzoldi, il capitano Bofassi, Melchiorre Partini accusati di aver ordito il disegno delittuoso nei confronti di Pietro Marotta. La mente criminale a capo di tutto risulta essere, secondo la sentenza, il Chiusole il quale aveva convocato appositamente il consiglio municipale per denunciare le false intimidazioni dei napoletani.

Aveva ordinato di disarmarli non appena fossero giunti sul posto e di appostare dei tiratori scelti nella sala dell'Aquila non appena il Marotta si fosse fatto trovare a distanza di tiro. Aveva persino organizzato la “caccia all'uomo” per simulare una sedizione in città nonché il modo per incolpare del fatto il capo della polizia (Sentenza contro il Dr.Chiusole, 23 maggio 1705).

Il Chiusole però non fu mai condannato perché latitante e la sentenza fu emessa in contumacia.

Ecco come sono andati realmente i fatti nella ricostruzione della commissione.

Il 7 luglio, di buon mattino, Federico Tartarotti si è recato al palazzo del Pretorio per portare delle armi, due pistole e un pistone presumibilmente in aggiunta a quelle che già c'erano in dotazione al palazzo. Insieme a lui c'erano anche G.B.Mascotti, Pietro Malinverno e G.B.Trentini il cancelliere del tribunale. Quando Pietro Marotta giunse nel palazzo, gli fu chiesto di lasciare le armi e salire le scale giunto a metà delle quali è stato colpito dai primi cinque proiettili sparati da Gasparo Antonio Frizzi.

In seguito sono sopraggiunti altri assalitori che hanno esploso numerosi altri colpi di arma da fuoco sia dalla sala dell'Aquila sia dal portico che hanno causato la morte di tre dei cinque agenti della scorta del Marotta oltre al suo cameriere. Dopo il delitto gli assassini hanno dato ordine di suonare le campane per fingere una rivolta e poi, con alcuni villani racimolati per strada, si sono dati alla fuga e al saccheggio nella casa di Marotta (Decreto inquisizionale contro il Tartarotti, 20 maggio 1705). Anche il Tartarotti, ironia della sorte, non fu mai condannato perché il 24 dicembre 1704 era riuscito a fuggire dal carcere:

 

«Per le ragioni suddette e per altre annessevi il predetto Dr. Giannantonio Chiusole si rese e si ha resto consultore, fautore, ausiliatore, principale partecipe, conscio e peccaminoso nell'offizio di provveditore, degli suddetti omicidi, cospirazione, tumulto, campana a martello, eccesso, prigioni e invasione e falsità, e come più diffusamente appare dal processo, commettendo tutte a cadauna delle predette cose scientemente, dolosamente, premeditatamente ed appensatamente contro Dio e la Giustizia in vilipendio e danno e contro l'interesse del Serenissimo Principe del Tirolo e contro la forma dello Stato quieto e pacifico, ed a mal esempio di altri, incorrendo nelle pene dalle leggi imperiali, comuni e dagli Statuti di Rovereto imposte». (Sentenza contro il Dr. Chiusole, 23 maggio 1705).

 

La storia non finisce qui. Il consiglio municipale di Rovereto si riunì il 27 aprile 1705 per chiedere ufficialmente la grazia per gli altri imputati del processo che ancora erano rinchiusi in carcere. La richiesta fu inoltrata al principe Eugenio di Savoia che accettò l'incarico di mediare presso la Corte di Vienna a patto che gli fosse versato un anticipo in denaro.

Nel giro di pochi giorni furono liberati gli imputati e contemporaneamente fu versato un assegno di 100 mila fiorini formalmente intestato alla Cassa di guerra ma sostanzialmente intascato dal principe infame. Lo dimostra una lettera, pubblicata in appendice agli atti del processo, in cui il principe giunse al punto di minacciare i trentini, con “confische dei beni ed anco a quelle pene corporali”, se non avessero ottemperato alle sue condizioni (vol. 4, p. 155).

Inoltre il principe aveva delegato dello sporco affare uno degli stessi imputati che erano stati liberati, Giulio Pizzini, a nome del quale furono rintracciate delle ricevute fiscali di materiale bellico per un ammontare totale di 54 mila fiorini il che dimostra che effettivamente una parte del pagamento è servito a coprire le spese militari ma gli altri 46 mila fiorini dove sono finiti?

Conclusioni.

In guerra, specialmente quelle che si trascinavano per decenni, c'era continuamente bisogno di truppe fresche per mantenere l'equilibrio delle forze in campo; alcune fonti registrano più di un milione di morti nella guerra civile spagnola (Albareda J., La guerra de sucesion de Espana, Barcellona, Celtica, 2010, p. 17).

Perciò erano frequenti gli avvicendamenti degli ufficiali, il congedo dei soldati e la loro sostituzione con truppe mercenarie.

Pietro Marotta non entra sulla scena di sua spontanea volontà ma viene chiamato dalle autorità militari per via dei suoi meriti acquisiti sul campo. Si presenta quindi come una persona fidata che non avrebbe mai avuto motivo di intralciare le autorità né di creare scandalo alla popolazione locale.

Si presenta inoltre come una persona devota e rispettosa delle tradizioni religiose tanto che le note di copertina degli atti riportano l'appellativo “Don Piero Marotta” il che era considerato un titolo d'onore.

La cosa più strana è che non risulta un vero e proprio movente da parte degli assassini se non forse un gigantesco equivoco generato dalla follia e dalle calunnie di pochi stolti.

Ma gli atti del processo non avrebbero mai potuto illustrare una vicenda nata esclusivamente dalla fantasia di qualche visionario. Si tratta invece di documenti dettagliati che descrivono per filo e per segno i fatti e i personaggi che sono stati inquisiti dal tribunale. Si descrivono qui di seguito le fonti consultate.

Il materiale processuale è composto da cinque manoscritti rilegati non numerati dove in copertina appare la scritta “Copia de processi Marotta”.

La calligrafia ricalca il periodo di riferimento (fine '700) con parole scritte in parte in italiano e in parte in latino. Oltre a ciò vi è un’edizione a stampa formata da quattro libricini di circa 400 pagine ciascuno stampati in italiano presumibilmente risultante dalla traduzione degli atti originali. L'edizione a stampa fu realizzata da Gustavo Chiesa in due anni: i primi due volumi (dal 4 luglio 1703 al 5 ottobre 1704) nel 1894 e gli altri due (dal 5 ottobre 1704 al 6 gennaio 1706) nel 1895.

Le cronache iniziano da mercoledì 4 luglio 1703 quindi ben prima della morte di Pietro Marotta mentre il processo vero e proprio inizia nell'agosto 1704 e termina il 10 dicembre dello stesso anno. Ciò dimostra che le autorità già stavano indagando su di lui presumibilmente a causa dell'incidente delle stalle avvenuto qualche giorno prima della sua morte.

Risulta una lacuna dal 17 al 26 agosto quando il processo fu sospeso e fu nominato un nuovo presidente di commissione al posto di Alvise Betta dal Toldo che aveva istruito la causa.

Nelle ultime battute del processo gli imputati, tra cui Partini e i fratelli Sbardellati, per tramite dei loro avvocati e altri baroni che li sostenevano, accusarono il commissario di parzialità e presentarono istanza di legittimo impedimento.

Dovevano essere così influenti tale da convincere il Governo d'Innsbruck ad acconsentire alle loro richieste? O forse si tratta dell'ennesimo inganno per sfuggire alle loro responsabilità? Ci sono molti altri dettagli e particolari processuali che sono stati omessi e la cui descrizione richiederebbe fiumi d'inchiostro. Si tratta dunque di una vicenda assai curiosa dai tratti ancora poco chiari che, per le stesse parole di un cronista «non ha il secondo per gravità nella storia di Rovereto».

Un vero giallo che l'autore ha cercato di poter chiarire sulla base di fonti autentiche e materiale di archivio. Si ringrazia la Biblioteca Civica di Rovereto per aver custodito gli atti del processo e per averli offerti in consultazione al pubblico.

 

Bibliografia

All'ombra del Rovere. Medaglioni di vita roveretana, Cassa Rurale di Rovereto, Rovereto, 1984, pp. 305-313.

G. Chiesa, Don Pietro Marotta e l'eccidio dei napoletani nel 1703, 4 voll., Grigoletti, Rovereto, 1894-1895.

M. Chiesa, L'eccidio di Pietro Marotta. Un episodio di storia roveretana, Montanara, 1949, pp. 71-72.

R. Zotti, Storia sulla Valle Lagarina, Forni, Bologna, 1969.

 

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