L’Europa e il caso Islanda

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Dopo un periodo di silenzio, si torna oggi a parlare con una certa insistenza della crisi economica gravissima che colpì l’Islanda nel 2008, portando in pratica il piccolo Paese scandinavo al default.

Si trattava di un’anticipazione delle tempeste finanziarie che negli anni seguenti avrebbero poi colpito con enorme virulenza l’intero mondo occidentale, facendo entrare soprattutto l’Unione Europea in un vicolo cieco di cui non si vede ancora l’uscita.

Chi – come il sottoscritto – ha avuto la fortuna di visitare molte volte l’Islanda per ragioni legate ai rapporti interuniversitari, sa bene che la bellezza dei luoghi è mozzafiato, nonostante il clima inclemente e il freddo che predomina anche in estate.

Situata più o meno a metà strada tra Europa e America, l’isola è unica da molti punti di vista.

Con una superficie pari a un terzo di quella italiana, gli abitanti sono solo 320.000, concentrati nella capitale Reykjavik e lungo le coste. L’interno è formato da ghiacciai e vulcani. Mi accadde, tra l’altro, di essere là nel 2010, quando si verificò l’eruzione di un vulcano dal nome impossibile – Eyjafjallajökull – le cui ceneri bloccarono la navigazione aerea per un lungo periodo, impedendomi quasi di rientrare in Italia.

Altra caratteristica saliente è che gli abitanti discendono in modo diretto dai Vichinghi norvegesi che occuparono il Paese a partire dall’850 D.C.

 

La loro mappatura genetica ha mostrato per l’appunto tale discendenza lineare, con un piccolo nucleo di abitanti di stirpe celtica, eredi degli schiavi che i Vichinghi andavano a razziare sulle coste della non lontana Irlanda.

E la lingua è pressoché identica all’antico vichingo, al punto che gli islandesi possono leggere in originale e senza problemi le celebri saghe nordiche (assai meglio di quanto noi possiamo fare con il latino).

Ma, per tornare ai temi economici, cosa accadde dunque in Islanda a partire dal 2008?

Rammento innanzitutto che non stiamo parlando di uno dei vituperati Paesi latini, bensì di una nazione scandinava comparabile – fatte salve le dimensioni – a Svezia, Norvegia e Danimarca.

In testa per molti anni nelle classifiche mondiali per ricchezza pro capite e qualità della vita, e con un ottimo sistema di welfare. Nel 2003 tutte le banche vennero privatizzate e si dedicarono pressoché interamente all’attrazione di capitali stranieri.

Furono aperti conti online con costi di gestione minimi e alti tassi di interesse.

I capitali stranieri affluirono copiosi, e moltissimi inglesi e olandesi vi depositarono i risparmi. Ovvia la crescita degli investimenti cui si accompagnava, però, un aumento massiccio del debito estero delle banche locali. Basti pensare che nel 2007 tale debito era pari al 900% dell’intero PIL nazionale.

La valuta locale, króna, fu svalutata dell’85% rispetto all’euro, e l’entità del debito estero di decuplicò. Di qui il default nonostante un aiuto parziale del FMI.

Con la crisi mondiale del 2008 le banche fallirono e furono nazionalizzate. A questo punto lo stesso FMI e l’Unione Europea chiesero al Governo di farsi carico del debito insoluto “spalmandolo”, per così dire, sulla popolazione.

Tuttavia l’idea venne subito rifiutata in base al principio che i cittadini non erano affatto responsabili delle operazioni speculative delle banche.

A dispetto delle pressioni britanniche e olandesi e di varie minacce di ritorsione, nel 2010 si tenne un referendum stravinto (93%) da coloro che rifiutavano di imporre il pagamento del debito agli islandesi. Uno dei maggiori banchieri coinvolti fu arrestato e gli altri abbandonarono in fretta il Paese.

È stata poi elaborata una nuova Costituzione e l’Islanda ha superato, sia pure lentamente, la crisi seguita al default. L’interesse nazionale è insomma stato anteposto ai debiti causati da comportamenti puramente speculativi non imputabili ai comuni cittadini.

Il punto è che su social network, stampa e blog si va diffondendo l’idea che i Paesi in crisi della UE dovrebbero adottare la stessa strategia, il che non risulta possibile. Tralasciando le minuscole dimensioni del sistema economico islandese rispetto a quelli italiano, portoghese e spagnolo (o anche greco), occorre tener conto che nell’Unione l’Islanda ha lo status di “membro associato”.

Non ha firmato alcuni trattati e, soprattutto, ha mantenuto la moneta nazionale. Elemento, quest’ultimo, che ha permesso una massiccia svalutazione della valuta, traumatica all’inizio ma poi rivelatasi efficace.

A noi queste mosse non sono permesse poiché siamo parte integrante di una struttura sovranazionale che, pur debole politicamente, è assai rigida sul piano regolamentare e su quello economico-finanziario.

Per procedere in quel modo dovremmo uscire dall’eurozona, operazione rischiosissima anche se nessuno ha finora spiegato con grande chiarezza quali e quanti sarebbero i rischi reali.

Gli islandesi si vantano, giustamente, di aver fondato nel 930 il primo Parlamento della storia, l’Althing.

Oggi è una semplice radura situata a Pingvellir, a 45 km da Reykjavik. Fa una certa impressione visitarla poiché sembra quasi di sentir risuonare di nuovo le voci dei Vichinghi mentre discutono sotto la guida dei loro capi.

Le vicende economiche di cui ho parlato hanno rinvigorito il loro spirito nazionale invece di deprimerlo.

Assai diversa, purtroppo, la situazione nostra e di altri Paesi membri della UE.

Qui non si tratta solo di speculazione. In gioco è un enorme debito pubblico che i mercati non sembrano più disposti a finanziare in assenza di misure draconiane, per ora attuate solo in parte.

Certo, il Governo islandese non è stato commissariato, a differenza di altri. Ma dubito che i discendenti dei Vichinghi avrebbero potuto evitarlo trovandosi nei panni di italiani, spagnoli e greci.

 

 

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