Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

In Cina i classici occidentali sono letti con attenzione

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In Occidente, e in particolare negli Usa e nel Regno Unito, la “cancel culture” sta producendo effetti devastanti.

Sono sotto tiro opere letterarie e filosofiche un tempo considerate classiche, punti fermi per secoli dei curricula scolastici e universitari. Il loro insegnamento era giudicato indispensabile poiché trasmetteva i valori, ritenuti eterni, della stessa civiltà occidentale.

Ora la situazione è totalmente cambiata. “Cancel culture”, “wokismo” e “politically correct” hanno preso il sopravvento nel mondo anglosassone, e ciò ha condotto a una rilettura radicale della storia e degli autori – i “classici”, per l’appunto – che ne hanno scandito le tappe.

Tutto viene letto con gli occhiali del mondo contemporaneo, senza la necessaria mediazione tra presente e passato. La schiavitù, che nella Grecia classica e nell’epoca romana era un fenomeno normale, non viene condannata nei testi di Platone e di Aristotele. Di qui la tendenza, per ora parziale, a chiedere la loro espulsione dai curricula, giustificata dal timore che essi influenzino in modo negativo la formazione delle nuove generazioni.

Per quanto sorprendente (a dir poco), la tendenza sta prendendo sempre più piede, scarsamente o per nulla contrastata dalle autorità politiche, scolastiche e universitarie. Di qui anche la progettata sostituzione dei suddetti classici con lo studio della storia e della letteratura dei popoli oggetto della colonizzazione europea, alla ricerca di una purezza e di un’innocenza più teoriche che reali.

 

È interessante, allora, rilevare quanto sta avvenendo nella Repubblica Popolare Cinese. Anche la Cina, ai tempi di Mao Zedong, ha conosciuto un periodo di “cancel culture”. Avvenne durante la “Rivoluzione culturale” degli anni ’60, promossa dallo stesso Mao e affidata al braccio armato delle “Guardie Rosse”. Anche in quel caso i classici costituivano l’obiettivo principale.

Fu proibita la loro lettura, a cominciare da Confucio, il filosofo che ha fornito per secoli l’intelaiatura teorico-politica della società cinese. A Confucio venne attribuita la responsabilità dell’arretratezza del Paese e, quindi, della sua scarsa influenza nello scenario mondiale. Leggere i suoi testi divenne un reato grave, spesso punibile con la pena capitale. Il movimento ebbe termine solo con la morte del presidente e, da allora, lo spirito confuciano ha ripreso vigore, al punto che ora si parla di un mix di marxismo e confucianesimo dominante nella Cina comunista.

Ciò che più importa notare è che gli studiosi cinesi, memori della loro esperienza, stanno ora procedendo a un’attenta lettura dei classici della cultura occidentale, partendo dall’assunto, ovviamente non dimostrato, della sua inferiorità rispetto alla loro. Sottolineano che in Cina l’antichità viene rispettata e non piegata alle mode della società contemporanea. Da questo punto di vista Confucio è utilissimo perché giudica il singolo individuo sottoposto alle esigenze del gruppo, e sottolinea, inoltre, il necessario rispetto della gerarchia, con una particolare attenzione per gli anziani in quanto dotati di maggiore esperienza.

Non è quindi sorprendente che nella Repubblica Popolare venga visto con favore Platone, fautore di una società rigidamente gerarchizzata e rispettosa del ruolo che ognuno deve svolgere. Secondo tale punto di vista, l’Occidente è debole proprio perché non ha adottato il modello platonico, preferendo altre forme di organizzazione politica e sociale. In particolare quella che oggi si definisce “democrazia liberale”. L’esatto contrario, insomma, di quanto sosteneva Karl Popper, per il quale Platone è l’antesignano del pensiero totalitario.

La questione presenta, ovviamente, notevoli elementi d’interesse. Capita spesso, in questi ultimi anni, di leggere articoli e saggi di prestigiosi intellettuali occidentali, che in precedenza si definivano liberali, in cui si sostiene che l’Occidente non può vantare alcuna superiorità rispetto ad altre forme di organizzazione politica e sociale. Dovrebbe anzi riconoscere che la democrazia liberale non funziona, ed essere pronto ad accogliere esperienze diverse.

Dunque la talpa della “cancel culture” ha scavato fino in fondo, lavorando bene. E ciò dimostra, una volta di più, che Marx aveva torto a sottovalutare i fattori culturali ritenendoli subordinati a quelli economici. Ancora non è chiaro dove ci porterà la trionfante “cancel culture” che si diffonde da Washington e Londra al resto del mondo. Ma, di sicuro, è una direzione opposta a quella auspicata da Popper, Berlin e da tutti i teorici del liberalismo.

 

 

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