Osservazioni sul relativismo culturale
Esistono universali specificamente umani che siano anche trans-culturali? Prima di dare una risposta occorre fornire qualche chiarimento. Vi sono infatti diversi modi per definire un “universale umano”. E’ possibile usare tale concetto per riferirci a generalizzazioni universali riguardanti tutti gli individui: per esempio, “tutti gli esseri umani in quanto tali provano sensazioni di dolore”. Possiamo inoltre identificare come universali certi aspetti comuni della situazione umana: ad esempio, “tutti gli esseri umani hanno bisogno di cibo e di acqua”. Oppure ancora potremmo identificare alcune capacità comuni come universali: per esempio, “tutti gli esseri umani possono imparare l’aritmetica”. Un’importante caratteristica di una capacità è che essa può collocarsi al livello di potenzialità piuttosto che a quello dell’attualità: affinché essa si “attualizzi”, occorre un’interazione appropriata con l’ambiente circostante. Consideriamo un esempio particolarmente chiaro: l’acquisizione e l’uso del linguaggio. I linguisti hanno ormai chiarito che le lingue umane dipendono dalla capacità cognitiva - relativa alla nostra specie - di imparare e usare il linguaggio. Pertanto la capacità di usare il linguaggio è effettivamente un “universale umano” nel terzo senso di cui sopra. Si dà tuttavia il caso che l’uso del linguaggio non sia un universale privo di eccezioni per diversi motivi. In primo luogo, vi sono degli individui che non possiedono la capacità di imparare il linguaggio. In secondo luogo, vi sono individui che possiedono tale capacità ma vivono in un ambiente nel quale essa non può essere sviluppata; è il caso di coloro che restano isolati durante gli anni dell’apprendimento del linguaggio. E infine esiste la possibiltà almeno teorica (ma mai verificata nella pratica) di società in cui venga sistematicamente proibita ad alcuni soggetti l’acquisizione del linguaggio, con il risultato di produrre un gruppo privo della competenza linguistica.
Si noti, tuttavia, che nessuna di queste eccezioni dimostra che la capacità linguistica non è un universale umano; esse mostrano, piuttosto, che gli universali sono capacità che richiedono certe condizioni ambientali per essere attivate e sviluppate. Ciò rende giustizia alle varie definizioni di “universale umano” prima menzionate, e ci fornisce pure una definizione di “capacità”. L’universale in senso stretto - “tutti gli esseri umani adulti normali usano il linguaggio” - è vera in modo approssimativo, e la sua verità deriva dal fatto che (1) tutti gli esseri umani possiedono la capacità di acquisire il linguaggio (universale riguardante le capacità) e (2) tutti gli esseri umani (con pochissime eccezioni) nascono in comunità che utilizzano il linguaggio (universale riguardante le situazioni). E’ la biologia a determinare delle classi di simili universali. Su un piano estremamente generale costituisce un universale trans-culturale il fatto che gli esseri umani hanno bisogno di cibo e di un qualche tipo di rifugio. Analogamente, esistono modelli trans-culturali di comportamento sessuale e riproduttivo che appaiono basati sulla storia evolutiva della specie. Anche gli elementi di base del sistema cognitivo umano sono determinati geneticamente. Il sistema percettivo, i modelli di riconoscimento, la memoria, la competenza linguistica, la capacità di usare strumenti, sembrano avere una forte componente neuro-fisiologica: si tratta di caratteristiche spiegabili facendo riferimento alla storia evolutiva del nostro organismo. Tutti gli esseri umani usano il linguaggio naturale e i linguisti - si pensi a Noam Chomsky - cercano di identificare degli “universali linguistici” comuni alle varie lingue nonostante la loro evidente diversità. Vi sono infine caratteristiche della “ragione pratica” che possono essere considerate universali trans-culturali. Tutti gli esseri umani sono dotati della capacità di compiere scelte deliberate in certe situazioni, di formulare credenze circa il mondo, di ipotizzare connessioni causali e di fare predizioni sul futuro. Anche la capacità di ragionare su fini e propositi, di valutare se una certa azione risulta compatibile con norme e valori cui l’agente aderisce, e il complesso sistema di passioni ed emozioni che generano l’azione in varie circostanze sociali, rientrano in questo novero. Queste caratteristiche, tuttavia, debbono essere intese come risorse che sono sì disponibili per tutti gli esseri umani in quanto tali, ma che vengono d’altra parte attualizzate e usate in modi differenti nelle diverse culture. Un’altra analogia di tipo linguistico può essere fruttuosa. Tutti gli esseri umani possiedono la capacità (e la base neuro-fisiologica che la determina) di imparare un linguaggio. Ma quale linguaggio acquisiscono dipende interamente dalla comunità linguistica in cui nascono. Ed è per questo motivo che il linguaggio umano manifesta sia elementi di universalità che di specificità culturale. La diversità a livello di fonologia, semantica e sintassi non contraddice affatto la presenza di una comune e universale capacità umana di apprendere e di usare l’una o l’altra lingua particolare. Quanto ho detto finora suggerisce che vi sono importanti capacità, sia teorico-cognitive sia pratiche, che sottendono l’intero comportamento e sono pertanto universali. Ma vi sono anche schemi che siano parimenti universali e trans-culturali? Esistono in particolare caratteristiche degli schemi concettuali invarianti rispetto alle culture? Nonostante le tesi forti del relativismo concettuale, è difficile evitare una risposta almeno parzialmente positiva. L’esperienza umana in generale non può fare a meno dei concetti necessari per dividere la realtà circostante in oggetti separati, dell’attribuzione di proprietà agli oggetti stessi, della loro collocazione nel tempo e nello spazio, e di un quadro concettuale che ci consenta di distinguere le cause dagli effetti. A ciò possiamo aggiungere i concetti necessari per analizzare gli elementi comuni dell’esperienza - colore, temperatura, sapore, odore, tri-dimensionalità dell’esperienza visiva. Tale posizione non afferma che tutti i concetti sono comuni, poiché è sufficiente lo studio delle culture diverse dalla nostra per confutarla. Essa esclude, tuttavia, la validità della tesi di Sapir-Whorf espressa nella sua forma più radicale: che cioè si dia diversità anche ai livelli più elementari dell’ontologia, mettendo in dubbio che tutti gli esseri umani dividano il mondo in oggetti. La conclusione è in fondo simile se passiamo agli schemi relativi alle credenze: esiste un insieme fondamentale di criteri appartenenti al ragionamento empirico e causale che appaiono presenti in ogni cultura. Menzioniamo ad esempio la capacità di imparare che pesci e uccelli migrano stagionalmente e si possono quindi trovare in certe stagioni ma non in altre; l’abilità di apprendere le proprietà dei vari semi da usare nell’agricoltura; la capacità di notare i movimenti regolari delle stelle e dei pianeti (la storia dell’astronomia, infatti, inizia in culture diversissime dalla nostra come quella caldea e babilonese); la scoperta delle proprietà medicinali di piante ed erbe. In ogni caso, siamo in presenza di capacità che dipendono dall’osservazione dell’ambiente circostante e su di essa si basano per giungere alla formulazione di ipotesi e generalizzazioni. Ancora una volta, pertanto, le affermazioni più radicali della relatività culturale appaiono infondate. Si può allora rilevare che l’antropologia ci trasmette un importante messaggio relativo alla variabilità sociale, culturale e normativa, ma non si tratta dello stesso messaggio lanciato dal relativismo radicale. La conclusione corretta sembra essere la seguente: esistono tanto uniformità quanto diversità tra le culture umane a livello di concetti, credenze e norme. La diversità è, in fondo, il segnale della creatività umana quando si tratta di sviluppare strumenti culturali che siano in sintonia con le necessità materiali. L’uniformità, d’altro canto, riflette sia le costanti biologiche nella vita umana sia le caratteristiche comuni della nostra situazione esistenziale. E un ultimo elemento dev’essere notato. Il fatto che gli esseri umani siano capaci di pensiero riflessivo dando vita alla filosofia, alle teorie scientifiche e alle credenze religiose, rende possibile l’emergere di nuovi universali in futuro. Per quanto infine riguarda il problema delle leggi, si può senz’altro ammettere che a tutt’oggi si conosce un numero estremante limitato di “leggi socio-storiche”. Con tale espressione intendo denominare configurazioni, comuni a tutti i periodi, caratterizzanti ogni tipo di organizzazione sociale. La maggior parte delle leggi storiche sono di tipo statistico; da un lato esse riguardano insiemi vasti di individui, mentre dall’altro non si applicano ad ogni caso singolo, ma soltanto a date percentuali di casi. In secondo luogo è necessario ammettere che ogni tipo di organizzazione sociale evolve in base a sue proprie leggi; la vita sociale e lo sviluppo storico di una comunità che affronti la natura in quanto comunità altamente integrata non possono per esempio coincidere con quelli di un gruppo sociale dilaniato da conflitti fra classi antagonistiche. In altri termini, le leggi storiche non “incombono” sugli uomini dall’alto; sono piuttosto il modo in cui gli esseri umani avanzano nel tempo. Alcune leggi sociali restano tuttavia costanti nel corso della storia, ed è l’esistenza di tali “invarianti culturali” (o configurazioni costanti del comportamento sociale) ad autorizzare l’antropologo a parlare dell’uomo e lo storico a parlare della storia. Per quanto estremamente generali, tali invarianti risultano essenziali ai fini della costruzione di una scienza sociale. Una di tali invarianti consiste nel fatto che in ultima analisi e a lungo termine sono le condizioni materiali (biologiche ed economiche) a prevalere su altri fattori. Un altro enunciato di legge socio-storica è quello in base a cui modificazioni profonde nei modi di produzione, quali ad esempio il rinnovo o la riorganizzazione dell’apparato tecnico, portano nel lungo periodo al rinnovo della struttura sociale, o quanto meno fanno apparire tale riaggiustamento delle relazioni sociali desiderabile a una parte della società, di modo che essa sarà indotta a modificare l’organizzazione sociale prevalente. Un’altra legge storica universale è costituita dall’enunciato che la raccolta e la caccia precedono l’utilizzazione sistematica dei vegetali e l’addomesticamento degli animali, i quali a loro volta precedono il sorgere delle civiltà vere e proprie. Sembra dunque difficile contestare l’esistenza di leggi socio-storiche effettivamente universali. Da un lato esse risultano basate su tratti generali e costanti dell’umanità, e dall’altro ci consentono di raggruppare tutti gli esseri umani - al di là delle loro differenze - nella specie homo sapiens. Tale raggruppamento diventa invece arduo se si sposano le tesi dei teorici dell’incommensurabilità radicale. Vi sono indubbiamente anche leggi che, per quanto generali, risultano tipiche di questo o quel genere di organizzazione sociale o culturale. La loro esistenza è dovuta alla circostanza ben nota che ogni tipo di società reagisce in un suo modo caratteristico agli stimoli esterni o interni. Le leggi socio-storiche sono più complesse di quelle naturali. Risulta praticamente impossibile applicare alla storia schemi facili quali la legge del “progresso illimitato” formulata da Spencer, o l’inevitabile “ripetizione” degli avvenimenti storici sostenuta da Schopenhauer, o ancora la norma organicistica degli “sviluppi e decadenze ciclici” immaginata, tra gli altri, da Vico e da Spengler. Nelle scienze sociali l’ostacolo principale che si frappone alla formulazione di leggi è la bassa frequenza delle regolarità osservate, e tale fatto fu già notato da Platone, per il quale il disordine del mondo materiale è sufficiente a negare che di esso possa darsi “scienza”. Il filosofo delle scienze sociali non deve tuttavia affermare dogmaticamente che l’uomo non può scoprire e apprendere leggi socio-storiche. Esistono leggi di questo tipo sia universali che generali. Le prime, che sono in numero limitato, si applicano all’umanità nel suo insieme, mentre le seconde - più numerose - riguardano tipi definiti di organizzazione sociale. Vi sono dunque configurazioni generali del comportamento collettivo e dei cambiamenti di tale comportamento. La maggior parte di esse tuttavia, per il fatto d’essere peculiari di un dato tipo di struttura sociale, mutano a loro volta a seguito di trasformazioni sociali radicali. |
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