Naturalismo e filosofia
Il linguaggio e gli schemi concettuali giocano certamente un ruolo importante nello svolgimento dell'impresa scientifica, ma tale ruolo non è esclusivo come credono i filosofi della scienza orientati linguisticamente. Ciò altro non è che una conseguenza della presunzione antropocentrica così comune nel pensiero moderno e, in questo senso, la tradizione analitica è semplicemente uno degli eredi, fra i tanti, di detta presunzione. Noi siamo soltanto un piccolo episodio nella storia della realtà, e niente ci autorizza a ritenere che la realtà stessa ha un significato solo quando giungiamo a conoscerla: gli scienziati non hanno bisogno del Jurassic Park di Michael Crichton per sapere che la storia umana fa parte di quella - ben più lunga - dell'universo. Naturalmente si può sempre replicare dicendo: «Perché mai dovrebbe interessarci un mondo senza genere umano?» Trovo questa posizione del tutto fuorviante e intrinsecamente anti-scientifica. E’ necessario mutare la nostra visione del mondo e cercare di pensare in modo oggettivo poiché, dopo tutto, questo è quanto la scienza si sforza costantemente di fare. E la filosofia della scienza è obbligata a prendere in considerazione tale punto di vista se vuole comprendere che cosa gli scienziati effettivamente fanno. Per questo motivo, invece di parlare di una filosofia della scienza "realista" o "anti-realista", credo sia opportuno costruire un'epistemologia naturalistica.
Un'altra possibile obiezione potrebbe essere la seguente: «Dopo tutto, non si è parlato a sufficienza delle sofisticate analisi compiute da molti filosofi analitici contemporanei». Si tratta, tuttavia, di una scelta intenzionale, e che deriva da una convinzione ben radicata la quale d’altro canto è condivisa - pur con certe differenze - da parecchi autori post-empiristi. Se si usano con troppa frequenza gli strumenti del filosofo del linguaggio, si finisce prima o poi prigionieri di una rete concettuale la quale, magari, non è neppur troppo visibile. Credo che quella rete vada invece strappata, abbandonando così ogni approccio puramente linguistico alla filosofia della scienza. Senza un tale strappo, non riusciremo mai a raggiungere una visione quanto più possibile oggettiva della realtà. E' indubbiamente un'operazione difficile, soprattutto per coloro che - come chi scrive - nel solco della tradizione analitica hanno imparato a condurre il lavoro filosofico. E' pure interessante notare che il parallelismo tra la filosofia linguistica contemporanea e l'idealismo è molto più stretto di quanto si creda, e tutto ciò a dispetto dell’empirismo ufficialmente adottato da gran parte dei padri nobili dell’analisi. L'idealista infatti afferma: (a) noi non siamo in grado di uscire dal pensiero: se ammettiamo che esiste una realtà esterna trascendente il pensiero, allora, nello stesso atto di pensarla, questa stessa realtà esterna non è più trascendente. Ne segue che non possiamo mai eliminare l'identità cognitiva tra pensiero da un lato, e realtà dall'altro. Ma i filosofi analitici, ivi inclusi gli epistemologi orientati linguisticamente, parafrasano (a) nel modo seguente: (b) noi non siamo in grado di uscire dal linguaggio: se ammettiamo che esiste una realtà esterna trascendente il linguaggio, allora, nello stesso atto di parlarne, questa presunta realtà esterna non è più trascendente. Ne segue che non possiamo mai superare l'identità cognitiva tra linguaggio da un lato, e realtà dall'altro. Ovviamente si deve rammentare ancora che il linguaggio è nella tradizione analitica qualcosa di molto più importante del linguaggio ordinario che usiamo quotidianamente per comunicare con i nostri simili e per riferirci alla realtà. Il linguaggio diventa, più o meno, la struttura logica del mondo, vale a dire un fattore estremamente potente e a priori che - per adottare un'analogia introdotta da Wilfrid Sellars - include tanto le categorie semantiche manifeste (linguistiche) che quelle nascoste (mentali). In questo senso, il linguaggio è soltanto una variante - benché dotata di alcuni caratteri originali - del pensiero dell'idealismo tradizionale. L’operazione-chiave per giungere a una filosofia naturalistica della scienza consiste dunque nel cercare di liberarci, per quanto difficile sia, della nostra soggettività, la quale ci suggerisce erroneamente che la realtà esiste nella misura in cui la conosciamo o ha con noi qualche tipo di legame. Possiamo infatti chiudere gli occhi e immaginare una situazione in cui non vi sono esseri umani e il mondo, ciò nonostante, esiste. L’immagine è sorprendentemente chiara, ammesso che si sia abbastanza onesti da non rifiutarla in modo pregiudiziale. Ma il fatto è che non abbiamo nemmeno bisogno di esperimenti di questo tipo i quali, essendo mentali, prestano il fianco a parecchie e ovvie obiezioni. La scienza ci fornisce infatti molti esempi di mondi che esistono pur senza la presenza di forme di vita in qualche modo simili a quella umana. Proprio per questa ragione giudico importanti gli esempi che si riferiscono alla paleontologia. Essa descrive un passato senza l'uomo, mentre astronomia e cosmologia hanno interessanti cose da dirci tanto a proposito di un passato quanto circa un futuro senza genere umano. E’ comunque importante rilevare che, tentando l'esperimento contrario ed immaginando gli uomini senza il mondo circostante, la cosa non funziona. Posso immaginare un mondo senza genere umano, ma non degli uomini sospesi nel vuoto. Non sono il linguaggio e gli schemi concettuali ad avere il primato ontologico, bensì una realtà che è da essi indipendente. E ciò significa che, quando il filosofo della scienza legge che gli scienziati non si stancano di interrogare la natura circa la sua struttura ultima, egli dovrebbe prendere sul serio una simile descrizione dell'attività scientifica, giacché non si vede come gli epistemologi possano permettersi di ignorare l'atteggiamento di fondo degli scienziati di professione. |
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