Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il ritorno del marxismo-leninismo in Cina

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Il XX congresso del Partito comunista cinese non ha solo determinato la fine della gestione collettiva e l’attribuzione dei pieni poteri a un leader unico, il nuovo imperatore Xi Jinping.

Ha pure stabilito a chiare lettere che il marxsmo-leninismo ritorna al centro della scena non più teoricamente, bensì come dottrina ufficiale che va studiata dalle nuove generazioni e imposta a tutti i recalcitrati.

È un cambiamento di grande portata che, del resto, Xi aveva già annunciato. Tutto questo segna la fine dell’ambigua formula “socialismo di mercato”, lanciata da Deng Xiaoping nell’ormai lontano 1978.

Formula che ha consentito l’impetuoso sviluppo economico del colosso asiatico, facendolo diventare in tempi tutto sommato brevi la seconda potenza mondiale.

Intendiamoci, al socialismo e al ruolo dominante (e unico) del Partito Deng non aveva mai rinunciato. Quando gli studenti osarono contestare i pilastri del sistema, il segretario nominalmente riformista ordinò subito all’esercito di intervenire, e la strage di piazza Tienanmen ne fu il risultato più evidente.

È un dato di fatto, tuttavia, che Deng lasciò ampi margini di autonomia al settore economico consentendo, ad esempio, che i cittadini più intraprendenti accumulassero ricchezze spesso enormi.

Ecco quindi l’avvento di tanti tycoons simili a quelli americani ed europei, Salvo per il fatto che dovevano avere in tasca la tessera del Partito e ad esso dovevano, in ultima istanza, obbedire.

Xi Jinping ha deciso che quest’epoca deve finire, e che è giunto il momento di rivalutare il pensiero del fondatore della Repubblica Popolare, Mao Zedong. Non a caso il nuovo leader ha promosso il culto della propria personalità adottando spesso lo stesso abbigliamento del “Grande Timoniere”.

Unica differenza significativa è che Xi ha rivalutato il confucianesimo bandito da Mao. Ma semplicemente perché il pensiero di Confucio, che esalta la collettività a spese dell’individuo, insegnando a rispettare sempre e comunque l’autorità costituita, non è affatto incompatibile con il marxismo.

Se vogliamo usare categorie classiche, possiamo anche dire che Xi ha realizzato una svolta “a sinistra” tornando alla Cina molto amata in Italia e in Europa decenni orsono da formazioni extra-parlamentari come “Servire il popolo” e “Stella Rossa”.

In realtà Xi era stato contestato dall’ex leader della sinistra interna del Partito, Bo Xilai, che lo accusava per l’appunto di aver tradito l’eredità di Mao. Bo Xilai fu defenestrato senza troppi complimenti e condannato all’ergastolo. Di lui non si hanno più notizie.

Xi ha deciso di attuare la summenzionata svolta perché vuole cambiare volto al Paese.

Non ammette l’accumulo di grandi ricchezze e sta progressivamente emarginando i tycoons figli delle riforme di Deng. Ritiene che il marxismo-leninismo, soprattutto nella sua versione maoista, sia tuttora la dottrina piò adatta alla Cina. Quindi procede a tutta forza verso il classico statalismo comunista, diminuendo l’importanza dell’iniziativa privata e frenando la presenza di aziende straniere nella Repubblica Popolare.

Mentre il termine “economia” era quello più usato da Deng nei suoi discorsi, Xi lo utilizza con molta parsimonia dando la preferenza a problemi di natura ideologica. Durante il suo discorso al XX congresso, ha citato molto spesso il marxismo e la lotta di classe che, a suo avviso, resta una questione centrale non solo in Cina, ma nell’intero mondo contemporaneo.

Si noti inoltre che, a congresso terminato, ha condotto i membri del rinnovato Politburo (tutti suoi fedelissimi) a Yan’an, vale a dire la città nello Shaanxi che fu la tappa finale della Lunga Marcia, nonché capitale maoista durante la guerra civile con i nazionalisti di Chiang Kai-shek. Gesto fortemente simbolico, che la dice lunga sui futuri progetti dell’attuale leader.

Xi ha infatti intenzione, non appena ne avrà l’opportunità, di regolare finalmente i conti con gli eredi di Chiang fuggiti a Taiwan. Non ha alcuna intenzione di rinunciare a riunificare l’isola alla “madre patria”. Si tratta solo di una questione di tempo, sfruttabile grazie alla “ambiguità strategica” sposata dagli Usa e dai loro alleati occidentali per mantenere lo status quo nello Stretto di Formosa.

Durante il congresso Xi ha detto che “il socialismo cinese è il nuovo marxismo del Ventunesimo secolo”. Può darsi che la svolta chiarisca, una volta per tutte, che la Repubblica Popolare è una nazione comunista a ogni effetto, per nulla intenzionata ad avvicinarsi alle democrazie liberali dell’Occidente.

Parecchie questioni, però, incombono. Che fine farà la globalizzazione, che la Cina ha utilizzato a suo vantaggio? La redistribuzione del reddito che Xi sta promuovendo riuscirà davvero a sanare gli squilibri tra città e campagne, oppure si tradurrà in un impoverimento generale del Paese?

Nel frattempo il nuovo imperatore non cessa di alimentare il fuoco del nazionalismo e della vendetta per i soprusi che la Cina subì ad opera delle ex potenze coloniali (a Hong Kong l’ha già fatto). Ma si noti un altro fatto importante. Con la suddetta svolta la Repubblica Popolare si propone quale modello da seguire e imitare per tutte le nazioni emergenti e/o in via di sviluppo, contando sull’ostilità all’Occidente che è venuto in piena luce dopo l’invasione russa dell’Ucraina.

 

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