Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Sulla relatività delle cornici concettuali

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Donald DavidsonL’autore che ha avanzato le critiche più acute al relativismo concettuale è Donald Davidson nel celebre saggio Sull’idea stessa di schema concettuale, la cui versione originale risale al 1974.

Egli afferma che l’idea di schemi concettuali incommensurabili si confuta da sola: se gli schemi fossero davvero incommensurabili, non esisterebbe la possibilità della comunicazione tra essi. Tale impossibilità, tuttavia, non si è mai verificata nella pratica; perciò non può essere vero che le culture umane incorporino schemi concettuali incommensurabili.

Ecco l’argomentazione del filosofo americano: «Whorf, volendo dimostrare che la metafisica sottesa all’Hopi è talmente diversa dalla nostra che non si può, come egli dice, ‘confrontare’ l’inglese con l’Hopi, usa tuttavia l’inglese per rendere il contenuto di frasi-campione Hopi».

E ancora: «Kuhn ha brillantemente espresso come stavano le cose nelle fasi pre-rivoluzionarie della scienza, ma come lo ha fatto se non usando il nostro linguaggio post-rivoluzionario? Quine ci dà un sentore di quella che egli chiama la fase pre-individuativa dell’evoluzione del nostro schema concettuale, mentre Bergson ci indica dove collocarci per avere la vista di una montagna non distorta da una o dall’altra prospettiva particolare. La metafora dominante del relativismo concettuale, quella cioè dei punti di vista differenti, sembra tradire un paradosso a essa sotteso. Punti di vista differenti hanno senso, ma solo se vi è un comune sistema di coordinate nel quale inserirli; tuttavia, l’esistenza di un sistema comune smentisce la tesi di una drammatica inconfrontabilità tra i punti di vista. Mi sembra che quel che ci serve è di avere una qualche idea delle ragioni che pongono dei limiti ai contrasti concettuali».

Analogamente, nella filosofia della scienza è stato contestato l’argomento di Kuhn a favore dell’incommensurabilità dei paradigmi (che equivalgono agli schemi concettuali) scientifici.

Ciò che consente la comunicazione tra paradigmi in ambito scientifico è la possibilità di condividere il riferimento a oggetti fisici e proprietà reali.

La concezione newtoniana della “massa” tratta questa quantità come invariante, mentre la concezione relativistica della massa non lo è. Secondo Kuhn si tratta di una differenza concettuale così profonda da risultare insormontabile.

 

Per il realista scientifico, invece, è sufficiente che il fisico classico e quello relativistico si riferiscano entrambi alla stessa quantità fisica, e che condividano alcune tecniche sperimentali mediante cui sia possibile identificare e misurare tale quantità.

Il riferimento condiviso permette a ciascun scienziato di tradurre gli enunciati e le credenze dell’altro in enunciati e credenze esprimibili all’interno della propria teoria, e nello stesso tempo di identificare i particolari disaccordi di credenza circa le proprietà degli oggetti che differenziano le due teorie.

In questo modo diventa possibile accettare molte intuizioni kuhniane sulle caratteristiche del cambiamento concettuale nella scienza senza d’altra parte accettare le sue conclusioni sull’incommensurabilità.

Pertanto la comunicazione è in grado di valicare i confini dei paradigmi, e i metodi empirici possono diminuire la portata del disaccordo fra essi.

Questi argomenti contro il relativismo concettuale hanno indubbiamente molta forza, ma non costituiscono una confutazione definitiva della possibilità dell’incommensurabilità concettuale.

Essi dimostrano che le tesi filosofiche a favore dell’incommensurabilità sono più deboli di quanto comunemente si ritenga. Siamo però pur sempre a livello di a priori, e la questione empirica del relativismo concettuale è rimasta sullo sfondo.

Torniamo dunque alle argomentazioni come quella di Whorf, secondo le quali vi sono casi specifici di relativismo concettuale realmente esistenti.

Whorf e gli antropologi che hanno seguito la sua traccia sostengono di aver identificato comunità linguistiche la cui struttura concettuale di base differisce radicalmente dalla nostra.

Occorre tuttavia chiedersi se questa conclusione sia fondata in base all’evidenza empirica da essi addotta, e vi sono ragioni per dubitarne.

In primo luogo esiste il problema dell’interpretazione inter-culturale sollevato da Davidson. Se i concetti Hopi sono davvero incommensurabili rispetto a quelli occidentali, allora è difficile capire come antropologi e linguisti possano mai giungere ad afferrarne almeno alcuni.

La comunicazione richiede un insieme di base di concetti e credenze condivisi; e, se questi mancano, diventa ovviamente impossibile interpretare i significati attraverso i gruppi linguistici.

Si noti, inoltre, che Whorf e gli scienziati sociali della sua scuola sono pur riusciti a stabilire delle linee di comunicazione minimali con Hopi o Navajo, altrimenti non avrebbero potuto dirci alcunché a proposito della loro lingua e dello schema concettuale da essi utilizzato.

Così gli antropologi che sostengono il relativismo culturale debbono affrontare un dilemma.

Possono conservare il relativismo e abbandonare al contempo la speranza di interpretare le affermazioni dell’altra cultura, oppure possono restringere la reale portata del relativismo in modo da salvaguardare la possibilità stessa dell’interpretazione inter-culturale.

L’approccio più naturale all’interpretazione inter-culturale implica l’idea che l’etnografo identifichi gli oggetti ordinari e le loro proprietà, e quindi inizi a costruire un manuale di traduzione che includa i concetti astratti.

Ma, se ipotizziamo che la cultura estranea concepisca perfino gli oggetti ordinari in modi radicalmente diversi dal nostro, viene a mancare il punto di partenza indispensabile per avviare il processo di interpretazione.

Ed è importante rammentare che un caso simile non si è verificato: nessuna cultura non occidentale è risultata del tutto impermeabile ai nostri criteri interpretativi.

In secondo luogo, si pone il problema correlato della valutazione empirica delle ipotesi circa l’incommensurabilità.

Un conto è apprendere che una cultura estranea ha un concetto di un genere di cosa che noi non possediamo, per esempio gli unicorni.

Un altro è supporre che le più fondamentali categorie metafisiche siano differenti nelle due culture, e abbiamo appena constatato che è assai difficile fornire del supporto empirico a una simile supposizione.

In effetti è possibile rovesciare l’argomento di Quine a favore dell’indeterminatezza della traduzione: ogni evidenza a favore dell’incommensurabilità può essere interpretata come se sostenesse uno schema di traduzione alternativo nel quale le due lingue condividono gli stessi concetti a proposito degli oggetti ordinari.

Esiste, infine, un’interpretazione alternativa delle lingue Hopi e Navajo in grado da un lato di evitare il relativismo concettuale, e dall’altro di preservare le intuizioni più feconde di Whorf. Per adottarla occorre distinguere tra concetti che definiscono gli oggetti comuni, e credenze di livello superiore circa le proprietà di tali oggetti.

Da questa prospettiva, dobbiamo supporre che le due culture condividano un mondo comune di oggetti ordinari quali alberi, animali, colline, case e persone.

Ciascuna cultura, pertanto, possiede un insieme fondamentale di concetti mediante i quali i parlanti individuano cose; per esempio, i concetti di spazio, tempo, relazione causale, oggetto e proprietà. In aggiunta, ognuna possiede un insieme fondamentale di credenze sugli oggetti ordinari che risultano condivise e trans-culturali; ad esempio, “gli oggetti sono pesanti” o “i cavalli hanno quattro zampe”.

Tuttavia ciascuna cultura può avere un insieme distinto di credenze generali circa il mondo circostante che sono del tutto estranee alle altre; per esempio, le nostre credenze che “l’universo sia in espansione” o “la materia sia trasformabile in energia”, e le loro credenze che “le cose di livello superiore controllano quelle di livello inferiore” o “gli alberi hanno spiriti”.

Queste ultime credenze - sia le nostre che le loro - si possono definire “metafisiche”, nel senso di riflettere assunzioni e presupposizioni particolarmente profonde che ogni cultura adotta circa il mondo; non è difficile capire che esse appaiono infondate agli individui che vivono in una cultura diversa.

Ma, una volta che queste assunzioni sono state identificate, il relativismo concettuale è rimpiazzato dal riconoscimento di profondi - e purtuttavia comprensibili - disaccordi circa la maniera in cui il mondo (che è lo stesso) appare strutturato.

Si può quindi concludere che né gli argomenti aprioristici né quelli empirici forniscono fondazioni sicure al relativismo concettuale.

Vi sono al contrario buone ragioni per ritenere che tutte le culture umane condividano un insieme di concetti e di credenze di base che definiscono la struttura del mondo ordinario, in grado di determinare quali tipi di oggetti troviamo nella nostra esperienza e quali proprietà osservabili essi possiedono.

È proprio questo insieme di concetti e credenze a garantire la possibilità dell’interpretazione attraverso i confini delle culture, e si può pure ipotizzare che essi corrispondano alle caratteristiche reali - nel senso di “osservabili” - degli oggetti del senso comune. L’esistenza di un mondo condiviso dotato di proprietà osservabili fornisce la base di concetti e credenze che possiamo trovare ovunque.

Ed è chiaro che essi sono circondati da una rete di concetti e credenze che, invece, non sono affatto trans-culturali.

I concetti più comuni e condivisi garantiscono il processo comunicativo e interpretativo; i concetti e le assunzioni divergenti - i quali si collocano a un livello più astratto - producono la diversità delle visioni del mondo (o schemi concettuali) presenti nelle varie culture.

 

 

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