Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Dante e la poetica del Paradiso

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La conoscenza della Divina Commedia oggigiorno si concentra, o limita, abitualmente nella prima cantica.

Anche gli episodi più popolari del poema sono tratti dall'Inferno, come Paolo e Francesca, oppure il conte Ugolino. Persino nella critica letteraria l'Inferno è mediamente più studiato ed apprezzato delle altre due cantiche.

Il grande Francesco De Sanctis nel suo capolavoro sulla storia della letteratura italiana elogiò specialmente l'Inferno, mentre formulò un giudizio più critico sul Paradiso.

Il De Sanctis, eccelso studioso ma fortemente condizionato dalla mentalità romantica, nella sua disanima del Paradiso dantesco è caduto in un giudizio soggettivo e drastico: «l'inferno è più poetico del paradiso.»

Il gusto per il demoniaco, il lugubre, il macabro, il tragico è una delle caratteristiche salienti della sensibilità romantica, secondo quanto ha provato un bellissimo saggio di Mario Praz, La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica.

Il De Sanctis riteneva anche la Scolastica medievale fosse inferiore intrinsecamente alla filosofia moderna, tanto che imputa a Dante d’aver inserito trattazioni teologiche nella sua Commedia: «anche la mano di Dante trema, che fra tante bellezze ci è non poca scoria.

 

Non di rado vedi non il poeta, ma il dottore che esce dall'università di Parigi, pieno il capo di tesi e di sillogismi.

Molte quistioni sono troppo speciali, altre sono infarcite di barbarie scolastica: definizioni, distinzioni, citazioni, argomentazioni».

Risalta qui la differenza fra il gusto poetico del De Sanctis, che è poi sostanzialmente quello moderno, ed il medievale. Correttamente, proprio il De Sanctis annota: «A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia, e se ne vanta, e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca. - Tornate indietro - egli dice - che il mio libro e per soli quei pochi che possono gustare il pan degli angioli; - e sono i filosofi e i dottori suoi pari. Perciò il Paradiso e poco letto e poco gustato.

Stanca soprattutto la sua monotonia, che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e discente». In questo, il grande letterato ottocentesco coglie nel segno, senza però avvedersi della soggettività della sua estetica e di come essa sia inadatta a cogliere l’essenza di quella dantesca.

Per quale motivo sarebbero poesia gli episodi di Paolo e Francesca, di Pier delle Vigne, del conte Ugolino, e non la dottrina della salvezza, della fede, della speranza della terza cantica?

La sensibilità ed il gusto del XIX secolo, come pure del XXI, sono portati ad apprezzare i primi ed a trascurare i secondi, ma per un uomo del Medioevo ambedue sarebbero stati degni d’interesse, forse addirittura con preminenza di quelli oggigiorno tanto negletti.

Un italiano del secolo XIV era abitualmente un homo religiosus, anche fortemente religioso, per cui dibattere delle virtù teologali, o della salvezza, o della visio Dei, poteva essere tutt’altro che tedioso.

Imputare al Poeta d’aver praticato i canoni stilistici dell’epoca in cui visse è un anacronismo, che minaccia di precludere la comprensione della Commedia stessa.

Come ogni altra opera letteraria, anche il poema dantesco va storicizzato e contestualizzato per essere capito, il che non può avvenire se arbitrariamente, sulla base di gusti estetici personali risalenti ad un periodo storico posteriore ed assai diverso per mentalità, si esprimono giudizi di valore.

La predilezione moderna per la prima cantica avrebbe presumibilmente stupito Dante e comunque disconosce l'impianto, organico e rigoroso, della Commedia stessa, che è un vero sistema filosofico e dottrinario in versi, armoniosamente strutturato come (paragone abusato, ma felice) una cattedrale medievale, od una sinfonia.

Il Paradiso è in realtà il compimento del poema, con l'esperienza mistica con cui si chiude e che è l'ultima tappa di un cammino di ascesi e salvezza che si snoda, in modo prefissato razionalmente, per le tre parti del poema.

Anzi, il Paradiso è, alla fine, la cantica più importante delle tre, come fa comprendere con chiarezza il Poeta stesso nell'incipit del suo canto I.

I canti del Paradiso sono fra i meno letti ed apprezzati nel mondo contemporaneo, perché i più lontani dal gusto dei moderni. Se si considera unicamente l'estetica poetica in senso stretto, a prescindere dalle componenti simboliche, allegoriche, dottrinali, spirituali, il Paradiso contiene comunque alcuni fra i canti più belli del poema, con immagini originali e di meravigliosa bellezza come l’ascensione al cielo, la triplice corona, la croce luminosa, l’aquila volteggiante, la scala di luce, la candida rosa.

Tuttavia, il robusto realismo, il pathos e tragicità dell'Inferno sono sicuramente meglio comprensibili ed apprezzabili ad un uomo dei secoli XIX-XXI che non le disquisizioni filosofiche e la raffinata mistica dei canti paradisiaci.

Un primo ostacolo alla fruizione del Paradiso è posto da uno stile aulico ricco di vocaboli rari, neologismi e termini tecnici della teologia e della filosofia.

Dante infatti è conscio della problematicità di scrivere di una realtà trascendente l’universo fisico e sensibile, come avvisa più volte dal canto I del Paradiso («Nel ciel che più della sua luce prende/ fu’ io e vidi cose che ridire/ né sa né può chi di là su discende», I, vv. 4-6) sino al XXXIII ed ultimo («Oh quanto è corto il dire e come fioco/al mio concetto!

E questo, a quel ch’i’ vidi, /è tanto, che non basta a dicer “poco”», canto XXXIII, vv. 121-123). Il Poeta perciò si confrontò con l’impresa di esprimere l’inesprimibile per definizione.

Il Paradiso dantesco è quindi imperniato attorno a luminosità e musicalità ed al riferimento, frequente, alla trascendenza della visione. Da qui il conio di moltissimi neologismi, come imparadisa, inciela, insusi, insempra, oltrarti, teodia, trasumanar etc. Dante stesso era consapevole della difficoltà di comprensione, ammonendo il lettore impreparato (canto II, vv. 1-18) ed invitandolo a desistere.

La causa fondamentale però è che mentre nella società di Dante la spiritualità era una dimensione abbastanza comune, almeno fra ecclesiastici ed intellettuali, in quella contemporanea è divenuta aliena all’uomo medio.

La nozione di poesia del mondo contemporaneo la confina di norma all’emozione ed al sentimento, mentre per la civiltà medievale e molte altre ancora essa poteva comprendere anche la disquisizione intellettuale e la mistica o spiritualità.

Va ricordato che una distinzione basilare nella riflessione filosofica medievale distingueva fra tre facoltà umane, la voluntas-adfectus (la sfera emotiva ed istintiva), la mens-ratio (ciò che oggigiorno si direbbe ragione umana) e l’intellectus-spiritus, separato e superiore agli altri due precedenti.

Gradualmente ed inesorabilmente, in Europa si è andato perduto il concetto medesimo di spiritus, insieme alla pratica stessa della “mistica” quale separata dalla filosofia e dalla teologia. Su questo oblio sono illuminanti i molti studi di Marco Vannini, studioso della spiritualità neoplatonica del Medioevo, specialmente di “Meister” Eckhart, il quale ha ripetutamente sottolineato lo svanire nei secoli della mistica intellettuale, al punto che anche fra gli storici ha finito con l’essere inintelligibile.

Il Paradiso dantesco è la descrizione di un viaggio ultraterreno, dunque di una esperienza spirituale.

In un’epoca in cui la nozione stessa di intellectus sive spiritus è divenuta estranea ai più, è inevitabile che anche la cantica finale del poema di Dante finisca col diventare incomprensibile alla maggioranza dei lettori, dunque ad essere trascurata.

Il misticismo neoplatonico del Paradiso dantesco, con la sua gerarchia nell'accezione etimologica del termine, la metafisica della luce, la nozione di visione trascendente la corporeità, l’amor quale terminus ac finis omnis passionis, l’anima come entelechia, la privazione dell’ego, la gnosi salvifica, la Unio mystica, sono incomprensibili a moltissimi lettori e persino studiosi della Commedia.

 

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