La Cina e l’ombra di Mao
Può capitare a chi si trova in Cina per motivi di lavoro, come il sottoscritto negli anni passati, di vedersi improvvisamente privato dell’accesso alla posta elettronica. E’ noto che il governo cinese controlla strettamente Google e gli altri motori di ricerca. Le notizie prima erano filtrate da Google Hong Kong in modo selettivo, ed è impossibile conoscere in anticipo quando sta per verificarsi una delle periodiche interruzioni. Inutile protestare con il personale dell’albergo, che ovviamente nulla può fare in tali circostanze. Si ottiene soltanto il tipico sorriso orientale e un’espressione sconsolata ma non si sa sino a che punto sincera: dopo tutto loro ci sono abituati. Identica la situazione con i social network. Facebook è proibito, e di Twitter esiste una versione cinese che non è legata alla nostra. Occorre quindi essere preparati a lunghe pause nelle comunicazioni, con la casella e-mail stracolma di messaggi inevasi quando si torna in patria. Una questione abbastanza banale. Chi va spesso nel grande Paese asiatico è al corrente di tali “rischi”, ma ciò non elimina mai del tutto l’inquietante sensazione di essere controllati.
E’ un dato di fatto che la Cina – o, meglio, la Repubblica Popolare Cinese – sta cambiando rapidamente, ma è arduo capire in quale direzione vada il mutamento. Rispetto a prima, di recente compaiono a ripetizione nelle strade pannelli luminosi in cui viene esaltata l’eredità di Mao Zedong, tuttora considerato il “padre della patria”. Altri pannelli illustrano le imprese di eroi del partito ai tempi di Mao e uno – più anonimo – è particolarmente significativo. Riproduce su sfondo luminescente la fotografia del soldato cinese tipo dell’epoca maoista. Colbacco con la stella rossa, sguardo fiero e kalashnikov a tracolla. Frequente, inoltre, la presenza di civili con un grande bracciale rosso e i simboli del partito agli incroci delle strade principali o davanti ai grandi alberghi. Questo lascerebbe pensare a un’inversione di tendenza, a una sorta di neo-maoismo che sta prendendo piede. Esistono tuttavia segnali opposti. Ed è stato osservato giustamente che se Mao fosse ancora vivo, oggi non regnerebbe su Pechino, ma languirebbe in qualche ignoto carcere alla periferia dell’Impero. Nonostante il flusso continuo di visitatori che rendono omaggio al suo corpo imbalsamato nel grande mausoleo di piazza Tienanmen, destino oggi condiviso solo dal fondatore della dinastia nord-coreana Kim Il-sung. Assai diversa la sorte di Lenin, come tutti sanno. Ai nostri giorni le code che si formavano davanti al mausoleo nella Piazza Rossa non ci sono più, e gli orari di visita sono ridottissimi. Altro segnale contrario alla rinascita del neo-maoismo è la giubilazione di Bo Xilai, che della riscoperta del pensiero del Grande Timoniere si era fatto portavoce ufficiale. Ufficialmente la sua eliminazione è dovuta agli scandali che hanno coinvolto lui e consorte, ma resta la sensazione che lo scontro sia stato soprattutto di carattere politico. Non a caso un anziano ha rischiato recentemente il linciaggio per aver insultato pubblicamente. I cinesi venerano la loro icona defunta, ma il loro successo economico si fonda sulla sua negazione. E proprio all’economia occorre rifarsi se si vuole tentare di capire cosa stia accadendo in quella che è ormai diventata la seconda potenza mondiale. Lo scorso 12 ottobre è comparsa sul Wall Street Journal un’importante intervista di Zhang Weiying, celebre economista cinese, intitolata “China’s Anti-Keynesian Insurgent”. Intervista, come dicevo dianzi, importante, ma pure sorprendente da molti punti di vista. Zhang, infatti, sostiene che il rallentamento economico che anche la Cina sta sperimentando dev’essere combattuto rinunciando a politiche di tipo keynesiano, mutando approccio e abbandonando le immissioni di liquidità. Il crollo delle esportazioni, ovviamente dovuta alla crisi contemporanea dei principali importatori di prodotti cinesi - in primis USA e UE – non si combatte secondo Zhang rifacendosi a Keynes, bensì recuperando nel senso più pregnante del termine la lezione di Friedrich von Hayek, Ludwig von Mises e della celebre Scuola economica austriaca. Osservazioni simili, in Occidente, susciterebbero al massimo qualche polemica accesa contro il “liberismo selvaggio” di cui gli Austriaci sono – a detta di molti – i principali esponenti. Ma tali frasi, se pronunciate in Cina, e per di più da un cattedratico di spicco di una delle maggiori Università di Pechino, lasciano senza dubbio un segno ben maggiore. Se all’economia non è permesso di autoregolarsi da sola – sostiene Zhang – alla crisi minore della Cina ne seguirà una ben più grande. Si noti che l’intervistato disse cose simili al World Economic Forum tenutosi in Cina nel 2011, quando definì la Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le riforme del governo “un gruppo di persone intelligenti che fanno qualcosa di veramente stupido”. Ovvie le reazioni negative da parte di alcuni ambienti ufficiali. Meno scontata, invece, l’attenzione dimostrata da molti esponenti governativi cinesi, disposti ad accogliere la tesi di Zhang secondo il quale la politica keynesiana non ha mantenuto ciò che ha promesso, ragion per cui oggi molte persone capiscono che quando il governo investe in qualcosa che è inutile si verificherà una recessione. Non solo. Ha destato notevole attenzione pure un articolo in cui Zhang loda Murray Rothbard (1926-1995), allievo diretto di von Mises, filosofo dell’anarco-capitalismo e sostenitore di un individualismo estremo. Notevole anche l’affinità tra Zhang e gli Austriaci per quanto riguarda le banche centrali, che cercano a suo avviso di manipolare la domanda inducendo effetti negativi sull’intero sistema economico. Una polemica, com’è noto, ben viva anche nell’Unione Europea ora in crisi. E’ difficile capire di quali appoggi goda l’intervistato nel suo Paese, anche se è lecito immaginare che i suoi supporter siano numerosi (altrimenti non potrebbe parlare così liberamente). Zhang non esita, per esempio, a criticare il gruppo dirigente cinese in carica dal 2002 per aver favorito il settore pubblico con l’annesso aumento di peso dei politici. Ritiene però che, se la Cina vuole tornare a crescere, deve cambiare strada dando spazio alle privatizzazioni e alla diminuzione del ruolo dello Stato nell’economia. Ancora più sorprendente è la conclusione dell’intervista. Vi sono – egli sostiene – due modi di cercare la felicità. Con il primo “tu stesso ti fai felice rendendo altre persone infelici, ed è ciò che io chiamo la logica della rapina”. Con il secondo “ti fai felice rendendo felici gli altri, questa è la logica del mercato”. Senza dubbio sentendo queste frasi Mao si rivolterà nel suo mausoleo, mentre è plausibile immaginare che Mises e Hayek applaudirebbero convinti. Abbiamo tuttavia risposto al quesito iniziale, che ha quale tema la direzione del mutamento che la Cina intraprenderà? La risposta è un secco “no”. Troppe sono le variabili in gioco e troppi gli elementi di incertezza. Da un lato Partito e governo incoraggiano i giovani a studiare all’estero. In primo luogo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, ma anche nella UE (Italia inclusa). Il numero degli studenti cinesi negli atenei stranieri è cresciuto in modo esponenziale nell’ultimo decennio. Costoro, quando ritornano in patria, riportano esperienze che influenzano la società nel suo complesso. La censura imposta a Google, per esempio, non risulta più giustificabile. La propaganda è impegnata a imporre l’idea di una “transizione pacifica e armoniosa”, sostenuta da una massa soddisfatta. I fatti rivelano invece un Partito e un sistema-Cina in frantumi, divisi dalle scelte sul futuro e dalle valutazioni del presente, tra la trincea del collettivismo e l’abbandono al liberismo. In realtà, ogni volta che si va in questo enorme Paese lo si trova un po’ cambiato rispetto alla visita precedente. Ma è arduo, per l’appunto, discernere con lucidità direzione e logica del mutamento. I giovani amano i fast-food e tutto ciò che rammenta l’Occidente, e in particolare l’America. Le persone più mature appaiono un po’ spaesate. Permane inoltre una distanza enorme tra le grandi metropoli come Pechino e Shanghai da un lato, e le campagne dall’altro. Resta un Partito onnipresente e con milioni di iscritti, che si autodefinisce tuttora comunista, e appare però diviso in correnti e sotto-correnti di cui spesso neanche gli specialisti riescono a definire l’identità. Di sicuro non appare molto fondata l’ipotesi – da molti vagheggiata – che la Cina riesca a imporre il proprio modello al resto del mondo. E per una ragione assai semplice: non si capisce che cosa sia tale modello.
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