L’Inquisizione e i Calabro-Valdesi
«Sta nella maremma la Guardia con gli habitanti d’origine Oltramontana, i quali sedutti i meschini quell’anni adietro d’alcuni del loro antico paese caddero nell’heresie de’ Calvinisti, ma non permesse la Divini bontà, che durassero lungo tempo in questi maledetti errori, poiche essendo cotal sceleraggine scoperta, ne patirono, stando gran parte ostinati, la pena condegna al sì gran fallo.» Dietro a questa breve espressione, oscura e impenetrabile, riportata a caldo nella Descrittione del Regno di Napoli di Scipione Mazzella Napolitano del 16011 si nasconde tutta la tragedia di un popolo di contadini che si erano stabiliti in Calabria Citra, tra Cosenza e il mare2 provenienti dalla valli valdesi nella seconda metà del XIII secolo, i quali, per tre secoli avevano conservato le loro tradizioni e identità culturale, ma che l’oscurantismo spagnolo e clericale hanno spento en l'espace d'une matinée.3 Bisognerà aspettare ancora due secoli e mezzo per capire cosa era successo, con la pubblicazione di un ampio articolo di Giovenale Vegezzi-Ruscalla4 e del volume di Filippo De Boni (Caupo, 7 agosto 1816 – Firenze, 7 novembre 1870), acceso patriota e repubblicano d’ispirazione mazziniana, che poté accedere a pochi frammenti sfuggiti alla damnatio memoriae tenacemente perseguita dai governi che si erano succeduti nel Regno di Napoli sino al crollo della monarchia borbonica poiché «l’inquisizione per dove passa tutto cancella.»5
Alcuni cenni biografici di De Boni sono contenuti in un articolo comparso nel 1870 sulla Rivista Europea.6 Trent’anni dopo Luigi Amabile riprese il discorso sui calabro-valdesi, fornendo ulteriori dettagli.7 Quei contadini e pastori, nella loro semplicità, si erano rifugiati nella purezza del Vangelo, accolto le Scritture come unica fonte della rivelazione divina e credevano nella giustificazione per fede. Rifiutavano quindi ogni tradizione umana, il culto per madonne e santi, i suffragi a favore dei morti, le messe, la confessione auricolare e ogni forma di gerarchia ecclesiastica, di cui non v’è traccia nelle Scritture. In definitiva, un corpo estraneo in un mondo infestato dalla dissolutezza clericale e subissato dai soprusi feudali. A confronto con il valdismo moderno, ampiamente secolarizzato, si erano rifugiati in un mondo governato dallo Spirito, conservando una purezza di costumi che i nativi dei luoghi riguardavano quantomeno con stupore. Dopo il sinodo d’Angrona (12-17 settembre 1532), che deliberò l’adesione dei Valdesi alla chiesa riformata svizzera, il vento della novità giunse anche a quelli di Calabria che ricevettero, sul finire del 1559, la visita di due missionari: Gian Luigi Pascale di Cuneo e di Giacomo Bovetto, il quale ultimo proseguì per Messina dove trovò la morte come eretico. Nel 1530 la colonia si componeva di almeno 10 mila individui dei quali circa 6000 nella sola San Sisto (1450 fuochi nel 1545), altri vivevano nelle borgate di Argentina, Vaccarizzo, S. Vincenzo, La Guardia e villaggi minori. L’avvio del processo di pacificazione ebbe inizio su disposizione del governo vicerale, che ordinava di perseguire i valdesi di Calabria «secondo la qualità di tale delitto ricerca, onde procedere ed eseguire con li termini della giustizia e de’ sacri canoni», a seguito della segnalazione fatta a Roma dal cappellano di casa Spinelli, il cui nome è impresso a lettere di fuoco negli annali degli infami della storia. La santa inquisizione diceva, per bocca di San Domenico di Guzman (1170-1221): «Ite e sterminate tutti i nemici miei e della santa fede; sterminateli negli averi e nelle famiglie, col ferro e col fuoco, fino alla terza generazione. Iddio saprà più tardi distinguere gli innocenti dai colpevoli!» E così avvenne a quelli di Calabria. In Roma regnava Gian Pietro Carafa con il nome di Paolo IV, nominato cardinale da papa Farnese (Paolo III) il quale ultimo, secondo Benvenuto Cellini, «non credeva in nulla, né in Dio, né in altri».8 Con il Carafa si inaspriva per l’Italia l’inesorabile stato di agonia intellettuale che perdurava da secoli «e i codardi, i cortigiani, i mediocri senza coscienza e i venduti rimasero principi incontrastati delle lettere». Grande inquisitore con poteri assoluti era Antonio Ghisleri detto Alessandrino (nato a Bosco presso Alessandria), domenicano, nominato cardinale da Paolo IV e futuro papa Pio V. «Redivivo Domenico (di Guzman), nato inquisitore, lo divenne presto, e il solo suo nome, di fra Michele dell’Inquisizione, atterriva.» Fu lui che inviò in Calabria alcuni Gesuiti con lo scopo di estirpare, sotto la direzione del vescovo di Cosenza, l’eresia dei valdesi di Calabria. Il governo spagnolo in Napoli era rappresentato dal viceré Perafàn de Rivera, duca d’Alcalà, ma già il suo predecessore Don Pietro da Toledo (Pedro Alvarez de Toledo y Zuniga) aveva accolto di buon grado il domenicano don Pietro di Fonseca, primo commissario del Santo Uffizio. Guardia Piemontese al momento era dominio del marchese Salvatore Spinelli, feudatario di Fuscaldo.9 I primi ad incappare nella rete furono Gianluigi Pascale e due suoi compagni: Stefano Negrino e Marco Uscegli, provenienti dalle Valli, che si trovavano in visita ai valdesi dei luoghi. Imprigionati nelle carceri di Fuscaldo (luglio del 1559) vennero tradotti, dopo otto mesi, il 5 febbraio 1560, nelle carceri della curia di Cosenza. Il Negrino vi morì per fame e torture mentre nulla si conosce sulla fine dell’Uscegli. Pascale lasciò Cosenza il 14 aprile 1560, trasferito in catene a Napoli e da qui a Roma, dove giunse il 16 maggio, consegnato all’inquisizione e imprigionato nelle carceri di Tor di Nona, dove stette quattro mesi da sepolto vivo. Trasferito nel convento della Minerva, il 5 di settembre 1560 vi udì la condanna e il 9 settembre, sulla piazza dirimpetto a Castel Sant’Angelo, alla presenza di quell’altro infame che fu papa Paolo IV, fu strozzato per impedirgli di continuare il discorso appena accennato, il corpo arso e le ceneri gettate nel Tevere. Iniziava quindi la crociata contro i valdesi di Calabria, che andava ad ingrossare il fiume di sangue versato in tanti secoli dalla Chiesa Romana e mai assorbito dalla terra, i cui flutti gridano perennemente al cielo, nell’attesa del giorno in cui «l’opera d’ognuno sarà manifestata.» (I Cor. 2:13) Non era ancor morto Pascale che già due frati inquisitori, deputati dal cardinale Alessandrino e con l’appoggio del governo di Napoli, già si trovavano a San Sisto. Gli abitanti si rifugiarono sui monti, tra i boschi, seguiti a ruota da molti di quelli di Guardia, e così cominciò una spietata caccia all’uomo per selve e dirupi al grido di «Ammazza! Ammazza!», con l’appoggio di numerosi tagliagole messi in liberà dalle prigioni, di mute di cani e della truppa appositamente fatta venire da Napoli. Morirono tra i boschi, sgozzati, d’inedia o sbranati dai cani. La città di San Sisto fu bruciata e gli abitanti residui impiccati o scaraventati dalle torri, ma Guardia, munita di forte muraglia e ben difendibile, aveva deciso di resistere. Alla fine anche Guardia, il 3 di giugno, fu presa e il 5 successivo venne incendiata e le mura diroccate. Molti abiurarono per avere salva la vita, altri morirono per le atroci torture, ma il giorno 11 di quel mese iniziò il massacro anche per quelli di Guardia. I prigionieri vennero tratti dalle case ad uno ad uno e condotti in uno spiazzo dove il boia dopo averli bendati, tagliò loro la gola e li gettò da parte. La mattanza, cui assistette Fra Valerio con altri inquisitori, durò sino alla fine del mese e i corpi, squartati e trasportati sui carri, furono appesi agli alberi lungo la strada che conduceva ai confini della Calabria, per circa trentasei miglia. Il 28 di giugno sulla piazza di Cosenza alcuni che vi erano stati tradotti furono cosparsi di pece e arsi vivi, sullo stile di quanto Crasso aveva fatto a Spartaco, ma almeno quello non lo faceva nel nome di Dio! Anche le donne subirono lo stesso trattamento: torturate e giustiziate mentre altre, compresi i bambini, furono vendute per schiave. Alcuni degli uomini che avevano abiurato finirono ai remi delle galere spagnole. Dei circa 10 mila valdesi delle Calabrie non rimase che un piccolo residuo in Guardia, continuamente sotto osservazione e assoggettato a condizioni di vita durissime. La Civiltà Cattolica, organo di stampa dei Gesuiti, nel 1933 pubblicò un articolo dal titolo Protestanti nostrani e ristampa di vecchie calunnie che definì “rozzi eretici” i valdesi di Calabria e seminatori di ribellione Pascale, Negrino e Uscegli, attribuendo la colpa dell’eccidio al Marchese di Buccianico e al cognato Alfonso Caracciolo che vi contribuirono in maniera determinante, scaricando subdolamente le responsabilità della Chiesa.10 L’articolista concluse suggerendo ai protestanti italiani di guardarsi bene, ad imitazione di quelli stranieri, «dal rivangare la loro storia di sangue.» Il lupo perde il pelo ma non il vizio.Ovviamente la Compagnia di Gesù non poteva sconfessare se stessa.11 Ben si attagliano al loro caso le parole di Paolo Apostolo: «Fanno professione di conoscere Iddio; ma lo rinnegano con le loro opere, essendo abominevoli, e ribelli, e incapaci di qualsiasi opera buona.» (Tito 1:16). E ancora: «Aventi le forme della pietà, ma avendone rinnegata la potenza.» (II Tim 3:5)
Note 1. Scipione Mazzella Napolitano, Descrittione del Regno di Napoli, 1601 2. Carta della Calabria Citra estratta dalla Carta dé regni di Napoli e di Sicilia, incise a Napoli nel 1692 e ristampate nel 1734 3. Stralcio della Tav. XXVI dell’atlante geografico del Regno di Napoli stampate nel 1778/79. 5. Filippo De Boni, L’inquisizione e i Calabro-Valdesi, Daelli, Milano, 1864. 6. La Rivista Europea, anno II, Vol. I, Fasc. I, Firenze, 1870. 7. Luigi Amabile, Il Santo Officio delle inquisizione in Napoli, volume I, pp. 235 - 260. 8. Il Carafa,” fanatico nelle credenze, violento, ostinato, collerico, lungo, magro, nervoso, con gli occhi incavati, fiero ed infiammato lo sguardo”, divenuto pontefice benché ottuagenario (26 maggio 1555), odiatore degli eretici quanto degli ebrei, ordinava di abbattere le sinagoghe e imponeva l’uso di un berretto giallo perché i giudei non andassero confusi coi cristiani. Nel 1542 ottenne da papa Paolo III l'istituzione della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione (bolla Licet ab initio del 21 luglio 1542) e fu posto a capo del tribunale unitamente al cardinale Alvarez. Solo due anni prima (1539) Paolo III nato Alessandro Farnese, aveva autorizzato la formazione della Compagnia di Gesù su proposta di Ignazio di Loyola e nel 1545 aveva dato l’avvio al Concilio di Trento. Cominciavano a circolare per le grandi città italiane alcuni strani figuri in livrea e cappello neri: i Gesuiti e nel 1559 compariva il primo index librorum prohibitorum che assunsemeva la forma conservata sino alla metà del XX secolo. 9. Si vuole che in Napoli non allignassero le regole inquisitorie, fortemente osteggiate dalla popolazione. Don Pedro lasciava però fare al vicario di Napoli, che disinvoltamente imprigionava i rei sospetti di eresia facendoli deportare a Roma per i processi inquisitori. L’aria era però talmente ammorbata che numerosi malcapitati caddero anche a Napoli in balia dell’inquisizione, imprigionati e giustiziati mentre tanti si nascosero o abiurarono o si rifugiarono in terre lontane. Favoleggia quindi chi asserisce che in Napoli non vi fu inquisizione e lo testimonia, tra l’altro, il feroce eccidio dei calabro-valdesi. 10. La Civiltà Cattolica, anno 84° - 1933 – Vol. II, pp. 227 - 243. 11. I lupi smascherati, Aletopoli (Lugano), stamperia “del disinganno”, 1760.
Caricatura del 1617 che rappresenta Martin Lutero con in mano una torcia accesa dalla Parola di Dio. Il papato, in forma di diavolo, cerca di spegnere la fiamma, mentre a sinistra un prete con cappello da giullare è occupato a vendere indulgenze.
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