Atleti in ombra: le “riserve” nello sport di squadra
La parola “riserva” indica in italiano cose molto diverse, dall’oasi naturale, all’oro conservato nella banca centrale, alle condizioni che si mettono prima di accettare una proposta. Nello sport moderno sono di solito denominati “riserve” gli atleti (e) che, in caso di necessità, sostituiscono i “titolari” di una squadra che partecipano alle gare; gli inglesi usano in questo caso una parola precisa, substitute (s). Stante la diffusione dello sport, il loro numero è tutt’altro che trascurabile e merita un’attenzione maggiore di quella attuale; essere riserva può avere un impatto molto diverso nel professionista adulto e nell’età pre-adolescenziale e adolescenziale. Il numero delle riserve non è facilmente calcolabile, ma è sicuramente elevato, se si calcola che nel nostro Paese gli atleti professionisti e dilettanti, iscritti alle Federazioni di calcio, pallavolo e pallacanestro, gli sport di squadra più popolari, sono circa un milione e mezzo, e che per ogni gara il numero di riserve è variabile, ma spesso superiore a due unità. Colpisce tuttavia la scarsa attenzione dei media per questo settore sportivo. Rari gli articoli dedicati all’argomento, rarissime le interiste agli atleti.
Durante le riprese televisive fugaci immagini sono “riservate alle riserve” quando mostrano gioia o disappunto per l’andamento della gara. Alcune società sportive professionistiche si vantano di possedere una “panchina lunga”, cioè un numero elevato di riserve. A parte ogni considerazione etica la gestione di questi atleti non è sicuramente facile, in primo luogo per l’allenatore che deve scegliere tra “titolari” e riserve per formare la squadra che disputerà la gara. Molto spesso l’allenatore diviene il capro espiatorio dei cattivi risultati; passa alla storia solo in casi eccezionali. Negli anni 90 Julio Velasco, argentino con precedenti studi filosofici, allenò la squadra italiana nazionale maschile di pallavolo mettendo insieme una “generazione di fenomeni” che vinsero tre campionati mondiali consecutivi (1990-1994-1998) e sei campionati europei. D’altra parte quando la squadra ottiene buoni risultati, vale l’assioma “squadra che vince non si cambia” e le riserve hanno scarse speranze di divenire “titolari’. Se la situazione si prolunga, l’atleta, a parte la delusione professionale, può comunque chiedere il trasferimento ad altra società o trovare soluzioni alternative all’attività agonistica. La situazione è molto diversa per quanto riguarda il settore giovanile non professionistico. Nella prima metà del secolo scorso nel nostro Paese le gare sportive in squadre per i ragazzi tra i 6 ed i 16 anni (le ragazze ne erano escluse) venivano organizzate spontaneamente nelle strade, le piazze o le zone libere delle periferie. Il numero delle società sportive, modesto nell’immediato dopoguerra, è successivamente aumentato a dismisura ed i ragazzi (e) in quella fascia di età possono attualmente praticare attività di squadra in modo continuativo solo con l’iscrizione ad una società. Le società fanno capo a federazioni nazionali per i vari tipi di sport e organizzano campionati ai vari livelli Quando il (la) giovane atleta, firma il cartellino, in realtà lo fanno i genitori in quanto minorenne, diviene “proprietà” della società; il trasferimento ad altra società può infatti avvenire solo con il consenso di quella precedente. L’iscrizione comporta una spesa che un numero notevole di famiglie non può sostenere, in particolare se ha più figli; a loro carico sono quasi sempre gli spostamenti per gli allenamenti e le gare in trasferta. L’approccio psicologico dei ragazzi (e) nella fascia di età sopraindicata verso lo sport di squadra è pervaso esclusivamente dal desiderio del gioco, molto diverso ovviamente dalle motivazioni dell’obbligo scolastico. Fare parte di una società sportiva è inoltre motivo di orgoglio: hanno i loro miti nei campioni professionisti, desiderano partecipare alle competizioni, confrontarsi con i coetanei purché questo avvenga serenamente. L’agonismo eccessivo, l’ansia dei risultati ad ogni costo purtroppo influenzano anche le società sportive minori, esercitando sui giovani atleti una notevole influenza negativa. L’incontro con l’allenatore (trice) è determinante: al “mister” (il termine andrebbe abolito e non vi è necessità di trovare il corrispettivo femminile; per gli anglofili coach può indicare ambedue i sessi!) viene conferita un’autorità spesso maggiore di quella genitoriale o dell’insegnante scolastico. Il “mito” può essere offuscato dalla rigidità eccessiva, la mancanza di empatia, la scarsa attenzione alla psicologia giovanile talora accompagnata da apprezzamenti negativi sulla persona dell’atleta. I più bravi (e), troppo sollecitati possono cedere al peso della responsabilità, temere l’errore. Ricordo che nella squadra di pallavolo della mia nipotina, una sua compagna, brava a “schiacciare” il pallone nel campo avversario, atto atletico difficile a quell’età, in caso di errore durante la gara volgeva ogni volta lo sguardo verso l’allenatrice, per vederne la reazione. Decisivo infine è il momento di formazione della squadra, quando l’allenatore (trice) comunica i nomi dei “titolari” che scenderanno in campo e delle riserve che rimarranno in panchina. I giovani, nonostante si pensi il contrario, hanno un innato senso della giustizia; se le scelte sono prive di motivazioni tecniche, o peggio il risultato di favoritismi, si evidenzia un meccanismo di esclusione che ritroveranno purtroppo nella società, ma che ritenevano assente nell’attività sportiva; la delusione rimarrà a lungo nella memoria. Il rapporto difficile con allenatori e dirigenti sportivi non è ovviamente l’unica causa dell’abbandono precoce della pratica sportiva. Il cosiddetto drop-out sportivo, trasversale a tutte le discipline, riguarda soprattutto la fascia di età tra i 13 ed i 16 anni. Si stima che in Italia colpisca circa il 30% dei giovani atleti (e); certamente agiscono altre cause come la difficoltà di coniugare gli impegni scolastici con quelli sportivi, gli infortuni, l’influenza negativa di altre persone (genitori o compagni), le scarse opportunità di risultati positivi oltre ai problemi economici familiari sopraricordati. È deplorevole che la scuola pubblica abbia completamente delegato alle società ed alle associazioni sportive la potenza educativa dello sport in particolare nell’età evolutiva. L’inversione di tendenza determinerebbe una crescita della partecipazione democratica, una riduzione dell’individualismo e della competizione esasperata. Come sempre non è solo un problema di risorse, ma di volontà politica.
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