Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Studenti cinesi all’estero

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Appena tornato dal mio decimo viaggio in Cina negli ultimi quattro anni (in epoca pre-Covid, s’intende), ne riporto questa volta impressioni più confuse e indecifrabili rispetto ai precedenti soggiorni.

Trascorro la maggior parte del tempo in ambito accademico, poiché mi occupo dei rapporti internazionali del mio Ateneo e, soprattutto, degli studenti cinesi che desiderano venire in Italia per iniziare o completare il loro percorso formativo. Sono moltissimi, come tutti sanno.

Nonostante la crisi il nostro Paese resta una delle mete favorite dei giovani cinesi che intendono studiare all’estero.

Non possiamo competere con USA e Regno Unito, giacché le nazioni anglosassoni hanno il vantaggio dell’inglese come lingua parlata quotidianamente e dell’alta qualità generale delle strutture di istruzione superiore.

Tuttavia il sistema universitario italiano regge abbastanza bene il confronto con Francia e Germania, che investono molto più di noi nel reclutamento degli studenti cinesi (e stranieri in genere) e negli accordi di cooperazione accademica.

E siamo davanti a Spagna, Paesi scandinavi e le altre nazioni dell’Unione Europea.

 

Quasi un miracolo, se si pensa a come l’università italiana è stata trascurata e svilita negli ultimi decenni.

Il fatto è che il “marchio Italia”, per quanto un po’ appannato, funziona ancora e viene tuttora visto quale segno di eccellenza in numerosi campi, tanto in ambito scientifico e tecnologico quanto nel settore umanistico.

Questa vera e propria “migrazione” dei giovani cinesi nelle università americane ed europee (ma anche australiane) è stata fortemente incoraggiata – e finanziata con generosità – dal governo della Repubblica Popolare. I numeri, come prima dicevo, sono impressionanti, dal momento che gli studenti cinesi all’estero sono attualmente parecchi milioni, un fenomeno inimmaginabile da noi.

L’apertura al mondo da parte di un Paese che si autodefinisce tuttora comunista causa, tuttavia, anche problemi di grande portata. Alcuni giovani si stabiliscono all’estero dopo aver completato il proprio percorso formativo.

Ma la stragrande maggioranza torna in patria con esperienze che in Cina risultano dirompenti. Faccio un solo esempio, ma assai significativo.

Nel colosso asiatico i media sono strettamente controllati dal regime. Per tre giorni non ho avuto accesso alla posta elettronica poiché Google e gli altri motori di ricerca – come spesso accade in quel Paese – sono stati bloccati. Facebook, il principale social network occidentale, è proibito e risulta impossibile collegarsi. Di Twitter esiste una versione cinese che nulla ha a che fare con la nostra.

È a questo punto inevitabile un impatto negativo sui giovani che tornano in patria, con interrogativi costanti sulla censura che, come ho già notato, viene esercitata con molta fermezza.

Gli studenti che hanno alle spalle un titolo conseguito in Occidente si chiedono quali siano i motivi di una differenza così marcata, e la risposta non è ovviamente facile. Si assiste nelle strade a una ripresa in grande stile della propaganda di partito, con manifesti e pannelli inneggianti a Mao Zedong e agli eroi della “Lunga Marcia”.

Ma è pure ovvio che la propaganda di questo tipo non influenza i giovani più di tanto. Le grandi metropoli come Pechino e Shanghai sono selve di grattacieli proprio come New York e Chicago. Costante è la presenza di McDonald’s e di altre celebri catene di fast food. L’abbigliamento, tranne rare eccezioni, è occidentale a tutti gli effetti, e l’epopea maoista appare un fenomeno ormai lontano.

Ci si può chiedere, quindi, cosa sta realmente accadendo nella Cina di oggi. I giornali occidentali ormai parlano con frequenza di una lotta interna al Partito che – lo si rammenti – è detentore unico e inflessibile del potere. Abbiamo assistito alla giubilazione di Bo Xilai, considerato il più accreditato sostenitore della riscoperta del maoismo.

Ma in ambito accademico troviamo economisti di spicco come Zhang Weiying che scrivono, sul Wall Street Journal, della necessità di abbandonare le politiche keynesiane a favore del liberismo della celebre Scuola Austriaca di Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek.

Un appello, impensabile sino a pochi anni fa, a lasciare che il mercato si regoli da solo rescindendo i suoi legami con la politica (che, in Cina, coincide con il Partito Comunista).

Ora è scoppiato il caso del primo ministro Wen Jiabao. Alcuni giorni orsono il New York Times ha pubblicato un articolo denunciando le enormi ricchezze accumulate dal premier e dalla sua famiglia.

E non si tratta di una grande novità, poiché è noto che i leader cinesi sono in genere ricchi (incluso il giubilato Bo Xilai). Pronta e rapidissima la censura, con il sito del quotidiano americano subito oscurato.

E tuttavia i milioni di studenti cinesi all’estero hanno sicuramente letto la notizia, senza contare che nella stessa Cina esistono modi per aggirare la censura (correndo, ovviamente, rischi personali).

L’equilibrio tra le varie correnti del Partito, sinora mantenuto grazie agli accordi preventivi tra i leader, sembra in pericolo. Non è forse una coincidenza che la Cina tenti di sviare l’attenzione dai suoi problemi interni ricorrendo al nazionalismo e alla politica estera. E’ il caso delle piccole isole Diaoyu (Senkaku in giapponese), diventate all’improvviso oggetto di contenzioso con Tokyo.

La propaganda del Partito ha incoraggiato manifestazioni anti-giapponesi che, a volte, sono sfociate in episodi di violenza. Tuttavia i cinesi si sono presto accorti che è controproducente, per esempio, distruggere automobili di marca nipponica. In gran parte, infatti, vengono prodotte in fabbriche situate proprio nel territorio della Repubblica Popolare.

Interessante anche notare che, in un articolo pubblicato sul settimanale ufficiale China Weekly, l’editorialista Qiu Feng scrive che, essendo ormai la Cina una potenza mondiale, i suoi cittadini debbono abbandonare la mentalità “da Paese debole”, retaggio ovviamente della sua storia passata.

E tra le righe si capisce pure che il Giappone, il cui esercito imperiale sconfisse a ripetizione i cinesi nel secondo conflitto mondiale, non è afflitto da tale mentalità.

Di qui l’esigenza – continua il giornalista – che il popolo cinese diventi “maturo” acquistando piena coscienza della propria forza. Coscienza che non deve per l’appunto essere molto diffusa nelle masse, se i media sono costretti a sottolineare la necessità di cambiare forma mentis.

Resta la sensazione che il colosso asiatico si trovi in questo momento davanti a un bivio, con tendenze politico-economiche che si combattono tra loro senza risparmio di colpi. Con il solito acume esprime osservazioni preziose il politologo americano Edward Luttwak, il cui ultimo libro,

Il risveglio del drago. La minaccia di una Cina senza strategia, è uscito per i tipi di Rizzoli. «Sono in molti oggi – egli scrive – a credere che il futuro del mondo sarà plasmato dall’ascesa della Cina ovvero dal proseguimento della sua crescita economica straordinariamente rapida – anche se la fine potrà esserlo meno – e dalle naturali conseguenze di uno sviluppo di tale portata: dal costante aumento dell’influenza del Paese negli affari regionali e mondiali all’ulteriore potenziamento militare».

Tuttavia, continua lo studioso americano, è sin troppo facile notare che i cinesi dovranno prima o poi scegliere quale strada percorrere in modo definitivo. Se restare, cioè, una sorta di ibrido, un capitalismo di Stato autoritario guidato da un partito unico, oppure trasformarsi in una società di tipo diverso o, infine, tornare alle origini rispolverando il vecchio Mao.

 

 

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