Verità e interpretazione radicale
In che senso il metodo di Donald Davidson si distingue da quello di Willard Quine? Occorre menzionarne una differenza che risulta piuttosto importante e che è, come sottolinea lo stesso Davidson, di natura causale. Mentre per Quine l’interpretazione dipende da modelli di stimolazione sensoriale, per Davidson essa dipende invece dagli eventi e dagli oggetti esterni in base ai quali gli enunciati vengono interpretati. Per Quine la nozione di significato è legata a criteri di tipo sensoriale, e ciò lo induce ad attribuire grande importanza alla distinzione tra enunciati osservativi e non. In altre parole, nello schema quineano si suppone che gli enunciati osservativi, essendo direttamente condizionati dai sensi, possiedano un qualche tipo di giustificazione extra-linguistica. Davidson non è affatto d’accordo con questa visione. A suo avviso, gli stimoli sensoriali fanno davvero parte della catena causale che conduce alla credenza, ma non forniscono alcuna evidenza alle credenze che vengono stimolate nel soggetto. Secondo Davidson dobbiamo considerare gli oggetti di una credenza come le sue cause. Ciò che noi, in quanto interpreti, dobbiamo ritenere che siano è ciò che, in effetti, essi sono. La comunicazione - continua Davidson - comincia là dove le cause convergono: il tuo enunciato significa la stessa cosa del mio se la credenza nella sua verità è causata, in maniera sistematica, dagli stessi eventi e dagli stessi oggetti. Ecco delinearsi, dunque, una teoria coerentista della verità e della conoscenza, caratterizzata innanzitutto dalla tesi che l’unica ragione per sostenere una credenza risiede nei suoi collegamenti con altre credenze. Significato e conoscenza non possono essere basati su qualcosa che funzioni alla stregua di una fonte ultima di carattere fondazionale: essi dipendono certamente dall’esperienza, e quest’ultima dipende, in sostanza, dalla sensazione. Tuttavia, pur ammettendo questo, Davidson fa notare che il “dipendere” in questo contesto è quello della causalità, e non quello dell’evidenza o della giustificazione. Tutto quanto ho detto finora può essere in fondo ridotto alla seguente constatazione: mentre il problema della comunicazione consiste nel determinare la credenza una volta dato il significato, il problema dell’interpretazione è diverso. Si tratta, infatti, di determinare il significato una volta data la credenza. E’, questo, un fatto da non scordare se si vuole davvero capire ciò che Davidson intende fare. Davidson, quando parla delle teorie della verità, non si propone affatto di spiegare in che cosa la verità consista. Al pari di William James e di John Dewey, egli rifiuta il dualismo soggetto/oggetto (vale a dire, per dirla in termini rortyani, “l’idea che cose come la ‘mente’ o il ‘linguaggio’ possano avere una qualche relazione di ‘adattamento’ o di ‘organizzazione’ con il mondo”). Sarebbe proprio tale dualismo a creare la necessità di una simile spiegazione della natura della verità. Per Davidson il termine “vero” attiene alla dimensione dell’approvazione (endorsement), e non a quello di “stati di cose” la cui esistenza spiegherebbe il successo pratico di coloro che hanno credenze vere. Rorty ritiene dunque che Davidson possa essere definito un pragmatista in forza della sua adesione alle seguenti quattro tesi di fondo: (A) Il termine “vero” non ha alcun uso esplicativo. (B) Noi comprendiamo tutto ciò che c’è da sapere circa le relazioni tra le credenze e il mondo quando comprendiamo le loro relazioni causali con il mondo; il nostro conoscere l’applicazione di “circa” e “vero di” agli enunciati è conseguenza di una spiegazione naturalistica del comportamento linguistico. (C) Tra le credenze e il mondo non vi sono relazioni di “essere reso vero”. (D) I dibattiti tra realisti e anti-realisti sono privi di senso, poiché essi presuppongono l’idea vuota e fuorviante dell’esistenza di credenze che “sono rese vere” da qualcosa. Bisogna sottolineare, ovviamente, che Davidson è un pragmatista secondo le quattro caratterizzazioni di pragmatismo di Rorty che ho citato sopra. In forza della tesi (A), Davidson sarebbe anti-essenzialista per quanto concerne la verità. In forza delle tesi (B) e (C), egli rifiuterebbe tutte le differenze epistemologiche e metafisiche tra fatti e valori. In forza della tesi (D), infine, Davidson si impegnerebbe a rinunciare a tutti i limiti posti alla ricerca, con l’eccezione di quelli riguardanti la conversazione. E’ chiaro, quindi, che Davidson sarebbe un pragmatista rortyano se sostenesse le tesi (A)-(D), e Rorty dal canto suo afferma che è proprio così. Gli enunciati di credenza cui si fa riferimento in (C) sono soltanto, per Davidson, “sentences held true by someone who understands them”, ed egli considera la domanda «Cosa rende l’enunciato s vero?» null’altro che una confusa versione del quesito «Cosa significa per l’enunciato s essere vero?». Essa è confusa perché suggerisce che la verità debba essere spiegata in termini di una relazione tra un enunciato inteso come un tutto e qualche tipo di entità (un fatto, o uno stato di cose). Ciò significa incamminarsi sulla strada sbagliata e, secondo Davidson, è la “convenzione T” di Tarski a fornire il rimedio, giacché la forma dei T-enunciati già fa capire che una teoria è in grado di caratterizzare la verità senza dover trovare entità alle quali gli enunciati che la possiedono corrispondano. Ciò significa che l’ontologia deve essere tanto ridotta drasticamente quanto naturalizzata (ma in un senso molto più pregnante di quello attribuibile alla “epistemologia naturalizzata” di Quine). E dal momento che ciò che è vero per gli enunciati è vero, ipso facto, per gli enunciati ritenuti veri da qualcuno che li comprende (cioè per le credenze), l’attribuzione della tesi (C) a Davidson non dovrebbe secondo Rorty destare alcuna controversia. Per quanto riguarda la tesi (D), concernente la non significanza dei dibattuti tra realisti e anti-realisti, poiché Davidson ha concluso il suo saggio Sull’idea stessa di uno schema concettuale con le seguenti parole, egli è stato spesso rappresentato come un realista: «Nel rinunciare a far uso del concetto di realtà non interpretata - qualcosa al di là di ogni schema e d’ogni scienza - non abbandoniamo la nozione di verità obiettiva; al contrario. Dal dogma del dualismo tra schema e realtà, segue la relatività concettuale e la verità relativa a uno schema. Senza quel dogma, questo genere di relatività scompare dal campo. Naturalmente la verità degli enunciati rimane relativa al linguaggio, ma ciò è obiettivo a pieno titolo. Abbandonando il dualismo di schema e mondo non abbandoniamo il mondo, ma torniamo a stabilire un contatto immediato con gli oggetti familiari i cui capricci rendono veri o falsi i nostri enunciati e le nostre opinioni.» E Davidson, in effetti, non ha mai rifiutato tale caratterizzazione. Rorty, a questo proposito, sostiene che solo coloro che hanno perduto il contatto con gli oggetti familiari della vita quotidiana come i frutti, i tavoli o le sedie negherebbero di essere dei realisti. Tuttavia, si può anche notare che questo ha ben poco a che fare con la posizione che si assume a proposito del dibattito filosofico tra coloro che affermano che un mondo oggettivo (il quale esiste independentemente dal pensiero e dal linguaggio) rende veri i nostri enunciati (i realisti) e coloro che, invece, affermano il contrario (gli anti-realisti). Se il problema fosse formulato in questo modo, Davidson sarebbe anti-realista poiché, come abbiamo constatato, egli nega che il mondo renda in genere veri gli enunciati. Diventa quindi chiaro che, siccome gli si possono in un certo senso attribuire posizioni contraddittorie, Davidson ci mostra che - dal suo punto di vista - il contrasto realismo/anti-realismo è uno pseudo-problema. In effetti, coloro che giudicano confusa la domanda “Cosa rende vere le nostre credenze?” si sentono a disagio sia con quelli che rispondono “Il mondo” sia con coloro che rispondono il contrario. Rorty pertanto conclude che anche la tesi (D), come già la (C), può essere attribuita a Davidson. Prendiamo ora in considerazione (B). Il resoconto naturalistico del comportamento linguistico che viene colà menzionato è quello che potrebbe adottare un interprete radicale - o un linguista che lavora sul campo - che si accinga a fare una traduzione radicale. Nell’attribuire la tesi (B) a Davidson, Rorty in sostanza afferma che la filosofia del linguaggio di tale interprete radicale è tutta la filosofia del linguaggio che Davidson mette in campo, e tutta quella di cui egli pensa vi sia bisogno. Rorty infatti aggiunge che «per Davidson sia l’idea di Quine dell’ “impegno ontologico” sia l’idea di Dummett di ‘dato di fatto’ sono deplorevoli resti del pensiero metafisico; fanno parte di quell’insieme di idee che la metafisica ha intrecciato al fine di formare il dualismo schema/contenuto.» Per quanto concerne la tesi (A), Rorty pensa che, visto l’olismo semantico adottato da Davidson, essa altro non sia che un corollario di (B). Secondo Davidson, gli enunciati sono sinonimi se le credenze nella loro verità sono sistematicamente causate dagli stessi eventi e dagli stessi oggetti Rorty ritiene che Davidson sia arrivato a questa conclusione abbinando: «la tesi di Kripke secondo la quale la causazione deve avere qualcosa a che fare con il riferimento, con la tesi strawsoniana secondo la quale si giunge a capire quello di cui qualcuno sta parlando se si arriva a comprendere qual è l’oggetto a proposito del quale sono vere la maggior parte delle sue credenze. L’unione giunge a compimento nel momento in cui si afferma che Strawson ha ragione se la sua tesi viene interpretata in modo olistico: se si premette alla sua affermazione l’epressione di Aristotele “nell’insieme e per la maggior parte.” Tuttavia non si può certamente applicare il criterio di Strawson ai casi individuali ed avere la certezza di essere nel giusto. Ma se la maggior parte dei risultati di uno schema di traduzione, e le conseguenti assegnazioni di riferimento, non si conformano al criterio di Strawson, allora in quello schema deve esserci qualcosa di terribilmente sbagliato.» Il naturalista ritiene che non vi sia altro da dire: in caso contrario, infatti, si riaprirebbe lo spazio per l’a priori. L’approccio di Kripke al riferimento, tuttavia, è in aperto contrasto con quello - olistico - di Davidson. Se ad esempio la tesi (B) fosse costruita secondo le linee atomistiche dell’approccio kripkeano al riferimento, si dovrebbero rintracciare i sentieri causali che portano dagli oggetti agli atti linguistici individuali. Ma è opinione di Rorty che tale tipo di approccio celi l’eventualità che il parlante possa percorrere strade del tutto erronee, con il che non si esclude che egli possa non sapere mai a cosa si sta riferendo. Ne consegue la possibilità di un completo divorzio fra referenti e oggetti intenzionali, vale a dire lo scarto fra schema e contenuto dal quale Davidson ci mette in guardia. Per contrasto, prosegue Rorty, Davidson massimizza la coerenza e la verità, e poi lascia che il riferimento “venga fuori da sé”. Ciò garantisce che, nella maggior parte dei casi, gli oggetti intenzionali delle credenze saranno tra le loro cause. Non dobbiamo infatti dimenticare che il principio di carità non è per il nostro autore un’opzione, ma la condizione stessa per ottenere una plausibile teoria dell’interpretazione. L’interprete radicale (o il linguista sul campo) può infatti comunicare se conosce la maggior parte degli oggetti intenzionali dei suoi interlocutori. Contrariamente agli scettici, Rorty concorda con Davidson nell’affermare che non v’è nulla di più che si debba sapere circa la relazione tra gli enunciati e il resto della realtà, a parte ciò che l’interprete radicale può imparare dal suo studio delle transazioni causali tra gli organismi e il loro ambiente. Il risultato di questo studio sarà il manuale di traduzione (arricchito dal resoconto etnografico) elaborato dal linguista sul campo. Poiché già abbiamo (con i dizionari) un manuale di traduzione, unitamente a un’auto-etnografia (nelle enciclopedie), non v’è altro da sapere circa i nostri rapporti con la realtà. E ciò significa che, in questo campo, la filosofia resta in pratica senza lavoro. Dunque Rorty ritiene di aver dimostrato che anche la tesi (A) può essere attribuita a Davidson. D’altro canto, avendo appurato che le tesi (A)-(D) possono tutte essere considerate davidsoniane, Rorty pensa di aver ragione nell’affermare che i risultati filosofici raggiunti da Davidson appartengono a pieno titolo alla tradizione pragmatista.
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