Il pragmatismo oggettivo di Nicholas Rescher
Il neopragmatismo oggi popolare negli Stati Uniti ha connotazioni prevalentemente rortyane, mentre la riscoperta da parte di Putnam del pensiero di William James è piuttosto recente. La posizione pragmatista di Rescher è invece meno conosciuta, pur precedendo cronologicamente quella di Rorty di parecchi anni. La ragione principale risiede nel fatto che il pensiero di Rescher è percepito dai più come una forma di idealismo, con tutte le conseguenze che ciò può avere in un contesto filosofico dominato dalla tradizione analitica. Vale comunque la pena di rilevare che i legami tra idealismo e filosofia analitica sono più stretti di quanto comunemente si creda, visto che si parla spesso di “idealismo linguistico” proprio in riferimento alla corrente analitica anglo-americana del secolo scorso. Si tende quindi a giudicare l’idealismo concettuale rescheriano più importante del suo pragmatismo metodologico, mentre è dimostrabile che essi non si possono separare mediante una linea di confine netta. La filosofia di Rescher è in primo luogo un sistema a carattere olistico: non si può accettarne una parte rifiutando al contempo le altre. Rescher pone la distinzione tra un più flessibile “pragmatismo soggettivo” ed un “pragmatismo oggettivo” più conservatore.
Egli nota, innanzitutto, che il numero dei pragmatisti è almeno pari a quello dei pragmatismi. Solitamente, tuttavia, coloro che si interessano al pragmatismo dal punto di vista storico tendono a dimenticare che, sin dalle sue origini, una sostanziale divaricazione è presente in questa corrente di pensiero. Si tratta per l’appunto di un pragmatismo di tipo soggettivo che perviene a conclusioni relativistiche, e di un pragmatismo oggettivo che concepisce le proprie tesi come mezzi per raggiungere posizioni accettabilmente sicure sul piano cognitivo. In entrambi i casi si cerca di garantire il pluralismo, tanto a livello speculativo quanto nella condotta concreta degli affari umani. Tuttavia il significato attribuito al termine “pluralismo” è piuttosto diverso. Rescher vede in Peirce, C.I. Lewis e se stesso i tipici esponenti del pragmatismo oggettivo, mentre James, F.S.C. Schiller e Rorty sarebbero i rappresentanti principali del pragmatismo soggettivo. A Dewey viene infine attribuita una posizione intermedia. La posizione dei cosiddetti pragmatisti soggettivi è nota, grazie soprattutto alla diffusione che le tesi di Rorty hanno conosciuto negli ultimi anni. Che cosa significa, tuttavia, l’espressione “pragmatismo oggettivo”? Per rispondere a tale domanda seguo, per così dire, la via negativa, cercando di scoprire che cosa risulta poco o punto accettabile nel pragmatismo soggettivo. Una volta compiuto questo passo saremo in grado, usando il metodo di sottrazione, di determinare quali sono le vedute del pragmatismo oggettivo su alcune questioni filosofiche fondamentali. Le differenze sono più importanti delle analogie e riguardano, in primo luogo, i concetti di verità e di oggettività. La diversità culturale è qualcosa che un pragmatista postmoderno come Rorty accetta di buon grado giacché essa gli consente di conseguire risultati che sono, ad un tempo, soggettivistici e relativistici. D’altro canto anche un pragmatista rescheriano concepisce l’efficacia pratica come metro di giudizio delle proprie indagini. Tuttavia egli considera tale efficacia come il migliore strumento che abbiamo a disposizione per raggiungere l’oggettivazione (objectification). Che cosa significa questo termine? Immaginiamo dapprima una realtà naturale da cui ha preso forma lentamente, e seguendo un percorso evolutivo, un mondo socio-linguistico, ed immaginiamo inoltre che questo mondo linguistico e sociale abbia acquistato una crescente indipendenza. Possiamo in seguito ipotizzare che la sua “autonomia” ontologica sia diventata con il trascorrere del tempo così evidente da spingere alcuni filosofi a revocare in dubbio l’esistenza stessa della realtà naturale. Ma il mondo linguistico-sociale da noi stessi creato richiede che gli uomini vivano avendo costantemente degli scopi, e il pragmatismo oggettivo è proprio interessato al conseguimento concreto ed efficace di tali scopi (ciò che funziona). A questo punto dobbiamo essere molto cauti, poiché ci stiamo avvicinando alla linea di confine tra pragmatismo oggettivo e soggettivo. Gli scopi di cui si parla in questo contesto non sono nostri o di chiunque altro: in altri termini, essi non sono affatto correlati alle preferenze degli individui. Possono invece essere considerati alla stregua di fattori collettivi - e specificamente umani - le cui radici razionali vanno ricondotte in ultima istanza alla natura umana in quanto tale. Ciò significa che tutti gli uomini condividono un ambiente naturale cui essi conferiscono un ordine utilizzando le loro capacità razionali e intellettuali. Ovviamente il mondo sociale dotato di ampia autonomia che abbiamo menzionato in precedenza assume “forme” differenti a seconda delle diverse tradizioni culturali; tuttavia, siamo in qualche modo costretti a basarci su un “principio di corrispondenza” molto generale, secondo cui gli scopi umani sono in sintonia con inputs ambientali che hanno reso possibile l’evoluzione dapprima biologica, e poi socio-culturale dell’homo sapiens. Pertanto il pragmatismo di Rescher conduce all’oggettività, nel senso che i limiti oggettivi, e non le preferenze personali, costituiscono la premessa fondamentale dei nostri scopi cognitivi. Ciò che intendiamo conseguire nel dar vita al processo della conoscenza empirica è il controllo dell’ambiente naturale di cui noi stessi siamo parte essenziale. Tale controllo, a sua volta, può essere sia attivo (basato sull’interazione) che passivo (basato sulla predizione). Pur proclamandosi idealista a livello concettuale, Rescher riconosce senza difficoltà la presenza di un “principio di realtà” che ci viene praticamente imposto in ragione della nostra appartenenza al mondo naturale, nonostante il fatto che giochiamo, in questo stesso mondo, un ruolo del tutto speciale (e assai diverso da quello delle pietre, delle stelle o degli animali). Ma è pure importante rammentare che il nostro controllo sulla natura non può mai essere totale. Il fatto che un fungo ci nutra piuttosto che avvelenarci, o che un asteroide precipiti domani sulla Terra piuttosto che perdersi nello spazio, non dipende dai nostri gusti o desideri, ma dal modo in cui la natura è fatta. Tutto ciò si può riassumere in un breve - e importante - enunciato: noi creiamo il mondo socio-linguistico, ma non quello naturale. In altre parole, si deve ammettere che abbiamo accesso alla realtà naturale solo mediante gli strumenti sociali e linguistici che l’evoluzione ha reso sempre più complessi e sofisticati. E’ tuttavia errato dedurre, da questa premessa, la conclusione che gli uomini creano la totalità della realtà, sia essa sociale o naturale. Il passo successivo in questa catena argomentativa consiste nell’ammettere che qualsiasi linea di confine rigida tra mondo sociale e naturale è illusoria. Possiamo senz’altro affermare che la natura ci impone dei limiti ineludibili (non siamo in grado di staccarci dalla natura per vivere, per così dire, nel vuoto); ma nello stesso tempo dobbiamo dare il giusto rilievo al fatto che gli esseri umani vedono sempre la natura dal loro punto di vista, tale essendo la condizione della loro accessibilità alla natura stessa. Tuttavia, non v’è alcuna necessità di interpretare questa situazione in termini puramente individualistici o solipsistici. Essa caratterizza la specie umana in generale, ed ogni tentativo di negare questa condizione primigenia conduce ad idealizzazioni senza fondamento. Lasciando per ora da parte l’importante problema dei rapporti tra il mondo sociale creato dagli uomini e la realtà naturale, indirizziamo ora la nostra attenzione al mondo socio-linguistico in quanto tale. Anche in tale contesto, non risulta possibile affermare che gli scopi umani sono determinati soltanto ed esclusivamente dai desideri dei singoli individui: ciò può essere vero solo se entrano in gioco problemi di scarsa importanza. Se invece prendiamo in considerazione la cornice assai più vasta in cui tali problemi sono inseriti, dove sono in gioco la sopravvivenza e gli interessi essenziali dell’umanità, constatiamo che questi propositi sono connessi alla necessità di escogitare metodi efficaci atti a soddisfare i bisogni umani intesi nell’accezione più generale, bisogni che nascono a loro volta dalla nostra stessa situazione di esseri naturali e legati ad un certo tipo di ambiente fisico. Dunque il pragmatista oggettivo è interessato in primo luogo ai progetti comuni, e non agli atteggiamenti individuali. Si noti che ho detto “in primo luogo”, poiché non si intende certo negare che i desideri personali svolgano una funzione importante nella vita quotidiana. Sappiamo che i differenti gruppi umani categorizzano la realtà in modi diversi, anche se tali differenze non sono mai così grandi da impedire una comunicazione ragionevolmente buona tra essi. Siamo pertanto indotti a chiederci: come nascono questi progetti comuni, considerate le inevitabili differenze tra i molti gruppi che compongono il genere umano? Possiamo davvero trovare una base comune condivisa da tutti gli esseri umani in quanto tali? Il pragmatista oggettivo risponde di sì, giacché a suo avviso la vita sociale altro non è che una reazione razionale di auto-adattamento all’ambiente naturale da cui gli stessi gruppi sociali si sono evoluti. Fermiamoci dunque un attimo per verificare quali conclusioni abbiamo raggiunto. Il pragmatista oggettivo sostiene le seguenti tesi di fondo: (a) il nostro mondo socio-linguistico si è evoluto a partire dalla realtà naturale; (b) questo mondo socio-linguistico ha acquisito una crescente autonomia; (c) per quanto ci riguarda, tra il mondo sociale e quello naturale non vi è alcun confine ontologico, bensì una linea di separazione funzionale; (d) tuttavia, l’accessibilità alla realtà naturale è garantita soltanto dagli strumenti che il mondo socio-linguistico ci mette a disposizione; (e) ciò significa che la nostra conoscenza della realtà naturale è sempre congetturale e provvisoria, nonché mediata dalle nostre capacità concettuali; (f) non vi è alcuna necessità di trarre conclusioni relativistiche da questo quadro, poiché la presenza di una realtà naturale che sottende i dati a nostra disposizione impone dei limiti precisi alle nostre opinioni personali. Questi limiti sono oggettivi (per quanto non in senso assoluto), e possono essere trascesi - come vorrebbe fare Rorty - a livello verbale, ma non nella sfera delle deliberazioni razionali che sottendono le nostre azioni. |
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