Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Quine tra ontologia e filosofia scientifica

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Risulta impossibile comprendere la concezione che Willard Quine ha dell’ontologia e della filosofia in generale se non si tiene conto di un fatto di fondamentale importanza, e cioè che la filosofia altro non è per lui che una parte della scienza. Il filosofo è, a tutti gli effetti, un membro della comunità scientifica, e nulla può dire al di fuori dei canoni di razionalità e di rigore che la scienza stessa determina.

La filosofia, in altri termini, non splende di luce propria, ma si limita ad usufruire del riverbero che la conoscenza scientifica spande con magnanimità sull’intero complesso della vita umana. La scienza è l’alfa e l’omega, rappresenta tutto ciò che di sensato si può dire intorno al mondo.

Al di fuori della scienza non c’è salvezza, ma solo balbettio indistinto, baluginare di richieste emotive ed infondate, assenza di senso compiuto. Non siamo nemmeno in presenza della consapevolezza wittgensteiniana che, dopo tutto, la scienza nulla può dirci circa i problemi ultimi della vita umana, anche se di tali problemi non si può sensatamente parlare ed occorre lasciarli sospesi.

Quine non è Wittgenstein. Egli è pienamente soddisfatto della riduzione della razionalità a razionalità scientifica, del mondo che la scienza - intesa quest’ultima secondo criteri neopositivistici - spiega in termini via via più compiuti e rigorosi.

Il filosofo scientifico non perde tempo cercando dei criteri che esulino dall’ambito di competenza delle varie discipline che formano il corpus della scienza moderna, né tenta di porsi da un punto di vista che non coincida in tutto e per tutto con quello adottato dagli scienziati.

Egli esamina con cura quanto gli scienziati stessi producono nel corso del loro lavoro, analizza, seziona e, con gli strumenti offerti dalla logica formale, cerca magari di esplicitare i nessi che gli scienziati non hanno il tempo di portare alla luce.

 

L’ontologia, a suo avviso, è sempre stata sovradimensionata perché i filosofi non si sono accorti che il linguaggio, quando venga lasciato libero e senza briglie, crea entità fittizie e tende trappole di cui il parlante per lo più non si avvede. L’assimilazione dell’orizzonte conoscitivo a quello scientifico, unita agli strumenti analitici e rigorizzanti della logica, ci consente finalmente di fare giustizia delle ontologie sovraffollate che il pensiero umano ha prodotto nel corso dei secoli.

Il rasoio di Ockham deve allora essere usato senza timore, poiché così vuole - secondo Quine - la ragione scientifica (di cui quella filosofica è soltanto una parte).

Il ragionamento di Quine si svolge dunque, come si può facilmente notare, entro i confini della “filosofia scientifica”, ed ha un senso se, e soltanto se, in tali confini restiamo. Rilevo allora che il filosofo americano si colloca in un’ottica che possiamo definire scientista.

Lo scientismo, com’è noto, è una visione del mondo che attribuisce solo alla scienza la capacità di conoscere la realtà e che si basa su un’assunzione ancora più radicale, e consistente nell’affermare che l’intero coincide totalmente con l’intero dell'esperienza, senza alcun residuo possibile.

Tuttavia, adottando una simile strategia, si presuppone che la realtà sia solo quella esperibile empiricamente, mentre una simile posizione deve caso mai essere dimostrata al fine di identificare l’essere-in-quanto-essere con la realtà fisica.

Detto questo, occorre riconoscere che Quine ha sempre posto al centro della propria speculazione i problemi ontologici, anche se il suo interesse è certamente dovuto a motivi diversi da quelli che muovevano i filosofi della tradizione classica.

Il suo punto di partenza è, come sempre avviene all’interno della tradizione analitica, linguistico. Esiste bensì un rapporto linguaggio-mondo, anche se i due termini della relazione non sono distinti tra loro in modo molto chiaro nel pensiero del filosofo americano.

Noi ci accorgiamo dell’esistenza di un problema ontologico solo all’interno del linguaggio.

Per usare un’espressione forse un po' abusata ma sempre efficace, non è tanto il fatto che esista qualcosa invece di niente, e che questo qualcosa si ponga in un rapporto di alterità (altro da sé) rispetto al soggetto pensante che dà origine al problema ontologico, ma un altro  che non si può assimilare al primo: dobbiamo, secondo Quine, chiarire quand’è che un enunciato parla di certe cose assumendone quindi l’esistenza.

Si badi che in questo modo, con poche parole, siamo stati proiettati nel cuore dell’ontologia quineana, che poi altro non è che il suo famoso criterio di impegno ontologico.

Ciò che il nostro autore vuole dirci è, in sostanza, che l’ontologia che noi accettiamo non può essere rivelata grazie ad una semplice analisi del vocabolario. Quine è infatti perfettamente cosciente che si possono usare i sostantivi in modo non designativo senza che, per questo, essi siano privi di significato.

Come l’uso della parola  non implica di per sé l'accettazione dell’ente “Pegaso” come esistente, così secondo Quine l’uso del segno  non implica che ci siano degli oggetti astratti, per esempio dei numeri come “9”.

Dov’è, dunque, che entra in scena il criterio di impegno ontologico quineano? Il passaggio chiave si ha precisamente quando, di un sostantivo, prendiamo in considerazione non l’uso inteso in senso generale, ma l’uso designativo.

E’ quest'ultimo tipo di uso che ci porta all’accettazione di un oggetto designato dal sostantivo. Ma, secondo il nostro autore, a questo punto occorre procedere con estrema attenzione. Infatti, per stabilire se un certo sostantivo è usato in modo significativo in un contesto, non è sufficiente fermarsi, per l’appunto, al livello del sostantivo, ma occorre andare più in là di esso ed osservare con grande cura il comportamento dei pronomi.

Afferma Quine che non sono i nomi - i quali risultano sempre eliminabili, ad esempio con la metodologia russelliana delle descrizioni definite - ma i pronomi ad indicarci il reale grado di coinvolgimento ontologico di un linguaggio o di una teoria.

A loro volta, i modi di usare il sostantivo che ci portano ad ammettere l’oggetto come esistente sono insiti nelle operazioni di generalizzazione esistenziale. Ne consegue che l’ontologia, intesa in questo senso, comprende semplicemente gli oggetti che abbiamo incluso nel dominio cui fanno riferimento i nostri “quantificatori”, dove tale dominio è notoriamente costituito dai valori delle nostre variabili vincolate.

L’uomo quindi costruisce L’ontologia a propria immagine e somiglianza e secondo i suoi gusti personali. L’ontologia è creazione, e non scoperta di qualcosa che esiste al di fuori della mente umana e di cui quella stessa mente (ma Quine preferirebbe dire  “menti”, per non correre il rischio di aggiungere alla sua ontologia un’altra, e inutile, entità fittizia, che altro non farebbe se non aggravare quel sovraffollamento del suo universo che tanto lo preoccupa) è, puramente e semplicemente, una parte.

Si noti, tuttavia, che la pretesa libertà che noi avremmo di costruire ontologie a nostro piacimento è soltanto nominale.

La nota preferenza quineana per i paesaggi quanto più possibile deserti dal punto di vista ontologico, porta automaticamente il nostro autore ad escludere che esistano entità della cui non esistenza noi, invece, non siamo affatto sicuri. Quine non fornisce mai una definizione semanticamente precisa del concetto di “essere”, e ciò non avviene a caso. Se lo facesse, il filosofo americano si troverebbe ipso facto implicato in una questione specificamente metafisica, e va da sé che un filosofo  scientifico non può lasciarsi cogliere in fallo in un modo così banale.

Quine si occupa bensì di metafisica, ma lo fa negando di farlo; costruisce una metafisica in cui si mescolano, in parti pressoché eguali, scientismo estremo ed empirismo forte, anche se proprio contro alcuni dogmi dell’empirismo egli ha scritto uno dei suoi saggi giustamente più famosi.

Eppure non v’è dubbio che, per lui, l’intero si esaurisca del tutto nell’esperienza sensibile. I passi atti a dimostrare tale tesi sono innumerevoli.

Quine non si perita di negare l’esistenza ad un’entità che non abbiamo ancora sperimentato con i nostri sensi. Ma – è opportuno chiedersi - è una simile concezione dell’esistenza corretta?

La risposta può essere affermativa in un solo e ben individuabile caso: quando si adotta una metafisica di stampo empiristico, la quale non è disposta ad ammettere che esistano entità che non si possono sperimenare con i sensi. Eppure, nello stesso linguaggio ordinario ammettiamo spesso che un sogno esiste, oppure che esistono animali mitici come Pegaso e gli unicorni.

Ed esistono non soltanto nel senso di essere immagini presenti nella mia mente (il che, pure, è importante, e basterebbe a falsificare la prospettiva empirista di cui dicevo). Ma esistono anche in un senso che, a mio avviso, è ancora più pregnante dal punto di vista ontologico: quello di essere “altro” rispetto al nulla.

Si tratta di un’accezione del concetto di esistenza che non è certamente catturabile con metodologie di tipo logico-formale, come la teoria della quantificazione su cui si fonda il criterio quineano di impegno ontologico.

Né si può affermare che di un simile concetto di esistenza si possa negare la validità facendo ricorso ad analisi di tipo linguistico. “Pegaso” non è soltanto un nome, come non lo è il sogno che ho fatto la scorsa notte e che ricordo in ogni dettaglio. Essi sono entrambi enti che travalicano la dimensione puramente linguistica (rammentando, con Aristotele, che l’essere si predica in molti modi). Si tratta quindi di enti che possono trovare lo spazio che loro compete soltanto in un discorso metafisico ben fondato.

 

 

 

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