La violenza sulle donne: non solo retorica
A Reggio Emilia Juana Cecilia Hazana Loayza, una donna di origini peruviane, è stata trovata morta in un parco pubblico. Sul collo aveva un’ampia ferita da arma da taglio. A infliggerla sarebbe stato Mirko Genco, ventiquattrenne di Parma, che da tempo la perseguitava. A Sassuolo, poche ore prima, Nabil Dahir aveva barbaramente ucciso la sua ex compagna Elisa Mulas, la mamma della donna, Simonetta Fontana, e i due figli di 2 e 5 anni. Lo stesso giorno Anna Bernardi è stata uccisa dal marito nella loro casa: dopo averle tagliato la gola l’uomo ha provato a togliersi la vita, Senza riuscirci. Si potrebbe proseguire per molte pagine, quelle necessarie a contenere i nomi e le storie delle 108 vittime di femminicidio nei primi dieci mesi del 2021, e se parlerà a lungo soprattutto il 25 novembre, giornata contro la violenza delle donne. Ma è proprio la pletora di commemorazioni e l’onda lunga di addolorato sdegno dettato dalla ricorrenza che rende il tema tanto solenne e liturgico quanto destinato a svanire il giorno dopo nell’oblio del quotidiano. Speriamo, dunque, in una riflessione più attenta e meno scontata. 108 vittime in 11 mesi: una donna morta ogni tre giorni. Stando ai dati del Viminale 96 omicidi sono stati commessi in ambito familiare e 68 donne sono state uccisa da partner o ex partner. Mentre il totale degli omicidi in Italia, nel corso degli ultimi 5 anni, è diminuito del 28%, il numero dei femminicidi è invece notevolmente aumentato.
Questi ultimi, rispetto al totale delle uccisioni, sono infatti aumentati dal 35 al 44 per cento. Ormai quasi un omicidio su due, in Italia, è un femminicidio. Nonostante le tante “panchine rosse” si rischia ormai, proprio per la frequenza del crimine e l’assuefazione allo stesso, di rendere invisibili le vittime, con un faro che ormai si accende solamente il 25 novembre, con una ritualità che si insinua stancamente nella rassegnazione. Che fare per arginare questa tragedia? Innanzitutto bisogna ragionare in termini di adeguamento giuridico. È vero che, nel corso degli ultimi anni, alcune novazioni sono state introdotte, dalla legge del 2013 al cosiddetto codice rosso del 2019, ma i risultati ancora non si vedono. Se è vero che – come risulta dai dati pubblicati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla violenza sulle donne – il 63% delle vittime non aveva mai denunciato le violenze subite, è tuttavia triste che coloro che lo hanno fatto ne abbiano tratto ben poco beneficio. Si tratta, in prima istanza, di una mancata “formazione” del personale deputato a raccogliere le denunce e ad assumere i provvedimenti conseguenti. Leggendo la relazione della Commissione cogliamo perfettamente, in molti casi, un modo di ragionare che ci proietta indietro nel tempo. In molti piccoli centri, in cui dovrebbe essere proprio il fattore della conoscenza personale ad aiutare nella lettura della violenza e del rischio, alcune delle donne uccise hanno chiesto aiuto alle forze dell’ordine rappresentando la paura e la difficoltà di denunciare o la presenza di armi e sono state dissuase dal farlo, sono state rassicurate e rimandate a casa. In alcuni casi le forze di polizia, non distinguendo tra violenza domestica e lite familiare, nonostante il tangibile terrore della donna, si sono limitate a “calmare gli animi” (come si legge testualmente nei verbali). Ai pubblici ministeri la Commissione rimprovera invece una difficoltà a riconoscere la violenza nelle relazioni intime e una non adeguata conoscenza dei fattori di rischio. Anche qui si tratta di un problema di formazione. Un giudice deve cogliere segnali, decodificare comportamenti, inoltrarsi nei risvolti psicologici di chi agisce con violenza. Allora saprà valutare meglio il rischio che corre la donna e di conseguenza prendere provvedimenti adeguati. Il che non sempre significa affidarsi alla mera applicazione del diritto, perché agire secondo legge non sempre basta a scongiurare il peggio, Bisogna giungere, in caso di comportamenti persecutori verso la donna, al “braccialetto elettronico”, oggi impossibile in quanto serve il permesso dell’interessato e non esiste alcuna norma che indichi il carcere quale alternativa a tale strumento. Ma aldilà dell’aspetto normativo è essenziale anche una svolta culturale. La relazione della Commissione Parlamentare ha rilevato alcune problematiche persino nel linguaggio usato nelle sentenze e nelle molte archiviazioni. Spesso la pregressa condotta violenta dell’uomo viene definita “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, instabile...”, anche a fronte di precedenti denunce della vittima per gravi maltrattamenti. Le vittime di femminicidio vengono spesso chiamate per nome, gli imputati per cognome, così generando una discriminazione anche linguistica, non giuridicamente giustificabile. Le vittime non sono descritte rispetto al loro contesto sociale e professionale, ma indicate come madri, mogli e figlie, cioè rispetto al loro ruolo familiare. Infine quando svolgono attività di prostituzione vengono chiamate prostitute e non con nome e cognome, così stigmatizzandole in partenza. Ma il vero nucleo di cambiamento culturale è rappresentato dal binomio scuola e famiglia, laddove devono essere eradicati stereotipi arcaici ma pericolosi ancora presenti per creare una nuova visione di genere basata su rispetto e uguaglianza. Molte scuole si stanno attivando per realizzare progetti promossi dal Dipartimento delle Pari Opportunità e finanziati dalla Commissione Europea per prevenire la violenza sulle donne. L’educazione alla parità tra i sessi e alla prevenzione della violenza di genere deve entrare a far parte del Piano dell’Offerta Formativa di ogni istituto e investire in maniera trasversale tutte le discipline, anche mediante la scelta oculata dei libri di testo. Sono queste le iniziative necessarie a combattere la piaga del femminicidio. Senz’altro più efficaci delle panchine rosse inaugurate ogni 25 novembre, in una giornata per molti sconfinata nella retorica. |
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