Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Vincenzo Gemito, "o scultore pazzo"

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Mentre accompagnavo mia figlia a vedere la ruota degli Esposti all' Ospedale Annunziata, che io pensavo di conoscere a memoria, il mio sguardo si posò su un articolo di Daria Greco appeso alla parete intitolato Vincenzo Gemito, un figlio dell'Annunziata. L'avevo già visitata decine di volte, la ruota, ma Gemito non lo avevo mai notato prima!

Una coincidenza o segno del destino?  Propendo per la seconda ipotesi, a cui come napoletana credo di più.

Da qualche settimana, infatti, avevo cominciato a leggere di Gemito, ed esattamente da quando mi era stata mostrata una foto (quella di copertina) avente come soggetto Vincenzo Gemito e che riportava una dedica all'onorevole Alberti, datata 1927.  

Questo artista mi aveva già strizzato l'occhio ed quel giorno lo rincontravo in un posto a me molto familiare e caro.

Non era una semplice coincidenza! Era un invito, una sfida alla mia naturale curiosità. Non potevo non raccogliere la sfida! E allora cominciai ad appassionarmi...

Soprannominato dai suoi contemporanei “o scultore pazzo" Gemito è stato uno degli artisti più eclettici, completi e prolifici che Napoli abbia mai conosciuto: scultore, disegnatore, orafo.

 

Nato a Napoli il 16 luglio 1852, a causa delle ristrettezze economiche della famiglia di origine, fu lasciato, appunto, dai genitori nella “ruota degli esposti” dello Stabilimento dell'Annunziata.

Dopo qualche mese fu affidato alle cure di una certa Giuseppina Baratta che sposò in seconde nozze un povero muratore, Francesco Jadiciccio, il «mastro Ciccio» raffigurato in vari disegni giovanili dell’artista.

Dimostrò fin da bambino grandi doti per le arti figurative a soli 9 anni produsse la sua prima opera. Si iscrisse alla Scuola delle Belle Arti e la sua iniziale formazione avvenne principalmente nell'ambito della bottega di Emanuele Caggiano, scultore di gusto accademico.

Il classicismo è visibile in alcune opere giovanili, chiaramente di gusto ellenistico e ispirate alle collezioni provenienti da Pompei ed Ercolano, come Il Giocatore di carte, opera acquistata dal re Vittorio Emanuele per Capodimonte.

Per un breve periodo, in giovane Vincenzo lavorò nella bottega di Stanislao Lista, ma insofferente e vulcanico, decise di aprire ben presto una sua bottega, preferendo trovare ispirazione nei vicoli e tra la gente del suo popolo.

Emblematica sotto questo aspetto è la foto di copertina di cui parlavo prima, che ritrae Gemito, alle cui spalle appare incorniciato il volto di uno dei tanti “scugnizielli” che gli hanno fatto da modelli per le sue opere.

La osservo, più e più volte, e ci vedo la faccia dell’acquiaiolo, del pescatoriello ,  del moretto , del fiociniere. Di uno qualunque dei suoi soggetti. Sono i figli del “popolino” di cui egli stesso era stato parte e specchio, narratore e protagonista.

Ritraeva gli ultimi, come lui, i così detti “destinatari delle opere di mendicità “, quelli da cui le strade dovevano essere liberate, senza dei quali, però, i vicoli sarebbero stati privi di anima perché i loro volti, le loro voci costituivano l'essenza stessa di Napoli.

Donne, scugnizzi, e diseredati furono i soggetti favoriti di Gemito, oltre a sé stesso.

Abbiamo, infatti, una serie impressionante di autoritratti che ce lo descrivono nell'arco di tutta la sua vita.

Dal 1873 al 1880 visse gli anni più gloriosi. Impiantò una Fonderia, incontrò Mariano Fortuny, si unì all'affascinante Matilde Duffaud, amica di un antiquario francese, suo vicino di casa. Di questi anni sono i ritratti di Fortuny, di Morelli, di F.P. Michetti.

Del 1876 pure il celeberrimo “Pescatorello” ottenne un grandioso successo al Salon del 1877.

Si trasferì a Parigi dove partecipò a ben 3 edizioni del Salon internazionale.

Dopo la morte della prima moglie nel 1880 tornò a Napoli e gli fu commissionata dal re una statua di Carlo V da esporre in piazza Plebiscito, nel 1881 sposa la sua modella Anna, da cui ebbe la figlia Giuseppina.

Ma la carriera iniziata con grande soddisfazione subì un brusco freno a causa del manifestarsi di una malattia mentale che lo condusse ad isolarsi per lunghi periodi e a vari ricoveri in Ospedali psichiatrici.  Il suo popolo che già lo apprezzava e lo conosceva gli affibbiò il soprannome di “o scultore pazzo”.

Le sue sofferenze però non fermarono il suo genio.

Continuò anche nei lunghi periodi di malattia a disegnare, e soprattutto a disegnarsi, ritraendosi invecchiato, nudo e fragile.

I suoi autoritratti (tutti esposti a Palazzo Zevallos Stigliano) sono tra le opere che mi hanno emozionata di più. Impietosi e veri: narrano della sua vita, degli inevitabili segni del tempo, di occhi che non nascondono il dolore della malattia, del coraggio di guardarsi allo specchio, della volontà (forse) di lasciare traccia al mondo anche dei momenti in cui si isolava o veniva isolato.

Gemito morì nel 1929 la notte del primo marzo, dopo aver lavorato tutto il giorno alla sua Fonderia: fino alla fine produsse bozzetti, disegni, bronzi, passando dal naturalismo al simbolismo.

Fu apprezzato e amato da grandi contemporanei come D’Annunzio, che gli dedico un’ode, esaltando il suo lato ellenistico e descrivendolo come il “Dio Efesto” nella sua fucina: «gran testa chiomata e barbata di profeta impazzito al vento del deserto mal sostenuta da un corpo esile e curvo».  

Ringrazio il destino, chi mi ha mostrato la foto e la mia curiosità da scimmia che mi hanno fatto conoscere un artista napoletano così geniale e che merita di essere conosciuto di più, soprattutto dai napoletani.

 

 

 

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