Il sogno americano
Poi giorni e notti di mare e di oceano trascorsi in terza classe con il cuore gonfio di moglie, fichi,figli e fichi d'india. Lo stupore quasi di bimbo davanti alla statua con la torcia posta all'imbocco di Manhattan, illusione di libertà per cilentani come lui impastati di terra dura ed acqua di mare. L'America del New Deal lo accoglieva nuda al porto di New York, nel centro di smistamento emigranti, tra irlandesi, polacchi e italiani, tutti uguali,odorosi di salsedine e di speranza, tutti estranei. Poi a Paterson, nel New Jersey, città anarchica, città cilentana senza fichi ed ulivi, allevatrice di ribelli e regicidi. Ivi era la sua comunità e là Luigi Lembo costruì per sette volte il suo sogno di tornare a casa e comprare un pezzo della terra del barone, di coltivare l'ulivo, di crescere, vivere con la sua famiglia e poi morire. Nello store, il lavoro di ogni giorno, le lettere sgrammaticate da mandare a casa con la solita frase "io qua sto bene così spero di voi" e poi dopo mesi di lavoro per sette volte :"Boss, i want go home"
Nell'anima si rincorrevano la necessità di andare, di partire, di compiere quel viaggio per mare all'incontrario, con i dollari nella borsetta, stretta al cuore, con la certezza di restare, di veder crescere gli ulivi, di scendere al fiume e costruire la sua casa pietra su pietra e, pazienza se la terra era dura, vi avrebbe seminato il grano per ricavarne pane. Si sarebbe poi da vecchio seduto al fresco della grande sciuscella a raccontare ai nipoti del suo sogno americano, di quanto era grande il mare, di quanto era salato quel pane, di quanto era bello invece stare "at home". Avrebbe fissato per il resto dei suoi giorni il suo sguardo su Acciaroli sospesa tra l'azzurro e l' America, che da allora in poi sarebbe stata solo la sua terra, un orologio da taschino, una foto. Era il mio bisnonno.
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