Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il suffeudo di S. Pietro in Bevagna dalle origini all'Ottocento (1)

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L’indagine storica diretta ad individuare il territorio di S.Pietro in Bevagna, antico suffeudo1 di Casalnuovo, parte, inevitabilmente, dalla nota donazione fatta dal duca Ruggero Borsa figlio di Roberto il Guiscardo all’abbazia benedettina di S.Lorenzo di Aversa.2

Mediante quest’atto, risalente all’anno 1092 e confermato nel 1102, il duca concesse, a titolo di liberalità, alla comunità monastica campana, in persona dall'abate Guarino, dodici chiese, tre monasteri, otto casali e ampi territori, tutti ubicati in Puglia, tra i quali compare «S. Pietro in Bevagna con il suo casale che si chiama Felline». 3

Con lo stesso documento, redatto «nel monastero di S. Lorenzo di Aversa», furono attribuiti importati privilegi tra cui quello di avere propri tribunali, l’esenzione fiscale, il diritto di «edificare nuove chiese e casali, arruolare uomini, costruire mulini forni e frantoi, piantare vigne oliveti e frutteti, pascolare gli armenti dovunque piacesse» 4

 

Veniva così fondata una grancia o monastero minore, dipendente in linea gerarchica direttamente dall’abbazia campana e, per il tramite di questa che godeva dell’esenzione dalle autorità diocesane, dal Romano Pontefice.

Probabilmente, all’origine, la grancia assorbì tutto il territorio che, un tempo, era stato dell’antico casale di Felline 5 e, in un documento successivo, avente ad oggetto un inventario di beni mobili ed immobili, redatto per ordine delle autorità della congregazione religiosa, i confini sono così definiti:

«La grancia de S. Pietro in Bevagna. In primis la grancia seu ecclesia de santo Petro in Bevagna con il fiume ed casali de Fellina diruto con li soi terre culte ed inculte antiqui pascui, vigni oliveti e con tutte soie pertinentie per li confini antiqui incominciando dal mare et verso al reale il quale è giusta il fiume e va per il muro et saglie al santo Ullo (San Tullo) et saliendo ad candella sopre il monte d'arena et una per directum alla strata et va ad curti canuri et passa sopra petrosa et discende ad sacesano et va al puteo tarantino et se congiunge al muro et discende alloco dove è una pietra signata con la croce) et va ad guardiola discende ad Burraco) dove se congiunge ad esso muro et discende ad aqua viva et piglia il medesimo muro et discende alla palude longa) discende per le maele et se gionge ad esso muro et discende per directo al mare in lunghezza et larghezza de mille passi) senza licenzia dell’abbate) o vero priore della predetta di bavagna similmente in detto fiume et mare et nissuno habbia ardire di piscare seo ocellare senza la licentia dell’abbate ... ».6

Nel privilegio di re Guglielmo il Buono del 1172 è specificamente citata, oltre al Chidro (denominato Molendino), la Salina: «…ecclesiam Sancti Petri in Balneo cum flumine Molendino salina quae dicitur de Monachis et Casali Fellini et Ecclesiis sibi subditis... ». 7

 Si trattava quindi di un territorio vastissimo, che partiva ad est dalla Salina (detta appunto dei monaci) con il fiume Chidro (o Bevagna) e proseguiva verso nord fin quasi alle porte di Avetrana (Monte d’Arena) e verso Manduria (Curticàuri) per poi ridiscendere a sud, inglobando la località Guardiole e ricongiugersi al mare a Borraco. 

In questo ampio territorio la comunità monastica esercitava una giurisdizione in spiritualibus et temporalibus e quindi aveva un ruolo non solo pastorale e religioso ma anche una funzione di giurisdizione civile, economica e sociale. Esigeva soprattutto le decime «dominicali» al pari di un normale feudatario, le quali costituivano un’importante risorsa anche per la comunità madre di Aversa.8

Sorvegliava e organizzava per lo sfruttamento agricolo ed economico la vasta proprietà fondiaria, sovrintendeva alle attività produttive e commerciali ed organizzava le fiere e i mercati.

Da un atto notarile del XVI secolo si ricava che l’amministrazione del vasto feudo era stata ceduta a privati dal monastero per un triennio. Nell’atto interveniva in rappresentanza del Monastero il cellerario e procuratore don Paulo di Mantova, mentre l’amministrazione delle entrate, dei redditi e dei frutti del feudo era affidata ai nobili Ferdinando Mero, Giuseppe Russo e Giambattista Staivano, che rendevano conto della gestione. 9

Dopo la soppressione del monastero, avvenuta con la legge 13 febbraio 1807 di abolizione degli ordini monastici, cui fece seguito per S.Pietro in bevagna il decreto del 2 giugno 1807 di re Giuseppe Napoleone, la consistenza del territorio dell’ex suffeudo ricompare in un documento del 7 dicembre 1867 che ho, recentemente, rinvenuto. Si tratta di un atto di citazione dinanzi al Tribunale Civile e Correzionale di Taranto (molto simile a quello di cui ho parlato in una precedente ricerca), la cui notificazione veniva eseguita, stante l’elevato numero dei destinatari, per pubblici proclami.  L’atto aveva quindi, dal punto di vista giuridico, un fine conservativo essendo diretto a consentire l’esazione delle decime da parte dell’acquirente del diritto e ad impedire che queste si estinguessero per prescrizione. In esso si legge:

«Ad istanza del sig. Raffaele Schiavoni, proprietario domiciliato e residente in Manduria” il quale dichiara di agire “nella qualità di proprietario e possessore legittimo del diritto di decimare sui prodotti di grano, lino, avena, orzo, fave,  ed altre vettovaglie vino mosto ed olive, dei fondi compresi nel suffeudo di San Pietro in Bevagna in territorio di Manduria, dipendente dalle rubriche contenute nel grande archivio di Napoli in testa al monastero dell’ordine Cassinese di San Benedetto, sotto il titolo di San Lorenzo di Aversa, da cui per le vecchie soppressioni ebbe causa il demanio, che ne fece vendita in favore del sig. Tommaso Schiavoni, padre dello istante, e dal quale egli ha causa in virtù dello strumento ricevuto dal notaro Antonio di Lecce di Napoli al primo marzo 1839».10

Ma, tralasciando le finalità giuridiche dell’atto, con il quale, come spiegato nell’altra sede, si tornava ad esigere le decime e le altre prestazioni economiche legate al feudo (nonostante la legge di abolizione della feudalità del 2 Agosto 1806, promulgata da re Giuseppe Bonaparte), qui interessa invece la descrizione, molto accurata, della consistenza territoriale dell’ex suffeudo di San Pietro, almeno così come era pervenuta all’acquirente nella seconda metà del XIX secolo.

Sintetizzando il contenuto del documento, il territorio dell’ex suffeudo, sul quale il sig. Raffaele Schiavoni rivendicava il diritto di decimare, era così composto:

Immobili contrassegnati con numerazione

1-4. Masseria Felline e fondi Cicora dei signori Tommaso, Leonardo Benedetta e Agnese frateÎli e sorelle Arnò;

5-47. Masseria Vento delle signore Paolina e Maria sorelle Pasanisi fu Nicola; altri;

48. Masseria Sorani del signor Pietro Tarentini;

49. Masseria Potenti del sig. Giambattista Arnò;

50. Masseria Saette del sig. Pietro Oronzo Pasanisi;

51. Appezzamento arbustato in c.da Cuturi di Camillo Salvatore Schiavoni;

52. Masseria Monte d’Arena degli eredi Pasanisi fu Luigi;

53- Masseria Campanella del sig. Francesco Marasco;

54. Piantata olivata detta il Serpente di Salvatore Filotico;

55. Masseria Marina della Congregazione di carità;

56-60. Piccoli appezzamenti in c.da Cicora di proprietari vari;

61-66. Piccoli appezzamenti in c.da Capannone di proprietari vari;

67-70. Piccoli appezzamenti in c.da Castelli di proprietari vari;

71. Masseria Paduli della sig.ra Emanuela Schiavoni;

72-73. Proprietà del Capitolo di Manduria, alla data dell’atto, del Demanio; Masseria Piacentini delle Benedettine e porzione di ettari 17 della Masseria Reni sempre delle stesse, ma proveniente da una proprietà delle Servite del Monastero dello Spirito Santo di Manduria.

Conclude l’atto che:

«Tutte le descritte proprietà compongono il sopradetto suffeudo di San Pietro in Bevagna nel modo come attualmente si possiede dal signor Raffaele Schiavoni in quanto al diritto di decimare come sopra. ».

Non compaiono nell’elenco la masseria Cuturi, la masseria Scalella entrambe di Giovanni Schiavoni fu Tommaso, la masseria Specchiarica del germano Raffaele Schiavoni (il quale l’aveva ereditata con lo jus decimandi sull’ex suffeudo) e la Masseria Fellicchie dell’altro fratello Vespasiano Schiavoni. 11

Non compaiono neppure le masserie Scolcola e Marchese o Borraco (un tempo beni allodiali degli Imperiali).

Per le prime, la più probabile spiegazione dovrebbe derivare dal fatto che i compendi immobiliari erano di proprietà di stretti congiunti della parte istante (la masseria Cuturi e la masseria Scalella appartenevano infatti a Giovanni Schiavoni, fratello di Raffaele, così come il territorio di quella di Fellicchie apparteneva all’altro fratello Vespasiano), mentre la difesa della Salina era stata concessa in fitto a Tommaso Schiavoni dal demanio nel 1843, oppure di proprietà dello stesso Raffaele Schiavoni (masseria Specchiarica con i territori del Chidro, Bosco Ancelle e S.Pietro).

E’ ipotizzabile, quindi, che questi territori del suffeudo non fossero stati compresi nell’elenco proprio perché appartenevano direttamente all’interessato o a stretti parenti, nei cui confronti non si intendeva riscuotere l’odioso balzello.

In ogni caso nell’atto di acquisto della masseria Cuturi e della difesa (o masseria) Scalella da parte di Giovanni Schiavoni (atto per notar Giovanni Boffa del 17.7.1827, di cui si dirà in seguito) entrambe erano state dichiarate soggette alla «…corresponsione, che si esigge annualmente sia dal Pubblico Demanio (titolare dell’ex feudo di San Pietro, N.d.A.), o sia dagli ex feudatari limitrofi della decima di frutti…»

Mentre, qualche anno dopo, con atto 20.12.1833 per notar Leonardo Costa le decime delle masserie Cuturi, Scalella e Andrea di Donno erano state commutate in un canone annuo in denaro e non erano più dovute in natura.12

 Nell’atto di acquisto della masseria Cuturi, inoltre, fra i compendi fondiari in confine con le due masserie sono indicati    «…da levante le Macchie così dette de’ Sanguinacci, o siano li trecento tumulate appartenenti al detto ex feudo di San Pietro…»

Si tratta dei terreni della masseria Trecento tomoli (in dialetto “Trecientu tummini”) non riportata nel citato atto di citazione, ma indicata in quest’atto come facente parte del suffeudo di San Pietro.

Meno chiaro, invece, è il motivo della mancata inclusione delle seconde, che a quel tempo, dopo l’estinzione della famiglia feudataria di Manduria, i principi Imperiali, erano state vendute a privati (la masseria Marchese) o a comunità religiose (la masseria Scolcola).

Nel catasto onciario di Casalnuovo-Manduria del 1756 entrambe sono riportate nel suffeudo Comunale in agro di Manduria, questo era “detto pure il feudo concordato” ed in esso la decima sulle derrate era ripartita al 50% (vigesima) tra gli Imperiali e l’Abbazia di S.Maria di Bagnolo e veniva riscossa “sopra il prodotto del vino mosto, ed olieri, o sopra gli accennati prodotti del suolo, a piacere degl’istanti, il qual diritto di vigesima risulta dal legittimo possesso in forza delle transazioni [degli Imperiale] coll’Abate di S.Maria di Bagnolo”. 13

E’ probabile che questo lembo di territorio fosse già stato acquisito dagli Imperiale in precedenza in virtù di qualche controversia con l’abbazia di Aversa che ora ignoriamo, o che fosse stato addirittura usurpato approfittando dei periodi di crisi vissuti dalla comunità monastica durante i secoli XVII e XVIII. 14

 

 

Seconda parte

 

                                           

 

Note:

 

1. Nel diritto feudale, il suffeudo indicava il beneficio concesso ai valvassori (vassi vassorum) dai vassalli e da questi dipendente. Un vassallo poteva concedere ad altri il proprio feudo o una parte di esso, a titolo di suffeudo, chi lo riceveva era obbligato ad osservare i doveri vassallatici (fedeltà e servizio). Il vassallo invece era considerato feudatario in capite, ossia titolare di un beneficio (feudo, appunto) concesso e dipendente direttamente dal Re. Anche i suffeudi però potevano essere concessi dal vassallo o feudatario principale con l’assenso regio e, in tal caso, erano denominati quaternati, o senza l’assenso regio, e questi ultimi erano chiamati plana mentre il giurista Andrea da Isernia e gli altri feudisti solevano anche denominarli suffeudi semplici. V. sull’argomento Andrea da Isernia, Commentaria in usus feudorum.

L’indicazione del territorio dipendente dal Monastero di San Pietro in Bevagna come suffeudo di Manduria (Casalnuovo), ricorrente in vari atti ufficiali, vale a stabilirne l’appartenenza al feudo della città messapica, nel quale quindi rientrava con tutte le sue terre e pertinenze, da Borraco alla Colimena.

2. Ruggero, duca di Puglia, figlio di Roberto Guiscardo e di Sichelgaita, fu dal padre preferito al primogenito Boemondo. Morì il 22 febbraio 1111. "

3. Regii Neapoletani Archivi Monumenta, RNAM, vol. V, Neapoli 1857, 140 (anno 1092) «Sanctum Petrum in Babaneo cum casali suo qui nominatur Fellinum». Ivi, 141.

4.  RNAM, V, Napoli 1857, 141 (anno 1092).  «Ecclesias edificare, casalia facere, homines affidare, molendiana fuma et trappeta construere, vineas et oliveat et alia pomifera, pastinare ubi voluerint».)

5. G. Jacovelli, Manduria nel Cinquecento, in «Studi di Storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli», II, Galatina, 1973, p. 469. «Il casale di Felline esistette almeno sino al 1358. Da quella data appare distrutto e abbandonato».

6. Biblioteca Arcivescovile di Brindisi, Platea  della mensa arcivescovile di Brindisi, scaff. Platee, fol.47, col.I

7.  Coco A. Primaldo, Il santuario di S.Pietro in Bevagna, documento n.VII, pag.191, c/o Biblioteca di Storia della Società Patria di Napoli, Codice dei diplomi del monastero di S.Lorenzo di Aversa, fol.145.

8. Queste erano diverse da quelle «sacramentali» che erano corrisposte per l'amministrazione dei sacramenti o per altri servizi spirituali ai ministri del culto, e che sono state soppresse in Italia con la  legge 14 luglio 1887 n. 4728. 

9. Atto 19 febbraio 1586 per notar S. Durante denominato Cautela et declarationes.

10. L’atto è pubblicato sul supplemento al n.333 del 7 dicembre 1867 della  «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia.»

11. Sulla ripartizione della vasta proprietà di Tommaso Schiavoni fra i quattro figli Giovanni, Nicola, Vespasiano e Raffaele, v. F. Filo Schiavoni, Una storia infinita, Filo Editore – Manduria, 2003, p.109. Nell’appendice documentaria del volume, a pag.169, è pubblicato, in versione integrale, l’atto di acquisto dell’ex suffeudo da parte di Tommaso Schiavoni, rogato dal notar A. de Luca di Napoli in data 1 marzo 1839. Il territorio di S.Pietro in Bevagna indicato nel rogito coincide in larga parte con quello indicato nell’atto di citazione del 1867 riportato sopra.

12. Filo Schiavoni, cit., p.104.

13. G. P. Capogrosso, Sopravvivenza delle decime e di altri diritti feudali a Manduria in un esclusivo documento del 1873, Manduria Oggi, giornale online, edizione del 18.11.2015;  ripubblicato il 20.9.2018 su Nuovo Monitore Napoletano con il titolo Un documento inedito del 1873 sulla sopravivenza delle decime feudali a Manduria; l’argomento è stato anche trattato nella conferenza tenuta dall’autore il 21.5.2019, su invito dell’Archeoclub di Manduria, nella sala della Biblioteca Comunale “M.Gatti”.

14. Nello stesso senso che il feudo Comunale fosse “contestato” dal Monastero e quindi probabile frutto di usurpazione, v. Filo Schiavoni, cit., p.102.

 

 

 

 

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