Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Teofrasto, i caratteri

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Citato da Seneca come uno degli autori importanti da leggere, Teofrasto nacque nell’isola di Lesbo intorno al 370 a.C.  e morì ad Atene nel 286 a.C.

Poté ascoltare le ultime lezioni di Platone, ma si sentì più vicino, per sensibilità ed interessi naturalistici, scientifici, ad Aristotele ed alla sua scuola, il Liceo.

Aristotele fu maestro anche di Alessandro Magno.

Il grande filosofo universale designò Teofrasto, per la grande stima che aveva di lui, successore nella direzione della scuola e gli offrì in dono la sua biblioteca e la figlia in sposa.

Oltre il grande contributo dato in settori non trattati analiticamente da Aristotele, come la botanica, Teofrasto estese la sua riflessione anche al campo morale, alla grande varietà dei tipi umani coi loro vizi e le loro virtù.

Ci è rimasta (per l’apocalittica  distruzione delle civiltà  greca e romana ad opera del cristianesimo dogmatico e fanatico e delle invasioni germaniche e di altri popoli) solo la parte che riguarda i vizi, che Teofrasto seppe descrivere con accuratezza e acutezza, indicandoci indirettamente comunque, con gli esempi negativi, ció che dobbiamo evitare per vivere invece da uomini razionali, morali, dignitosi, socievoli, coltivando le virtù indicate da Aristotele nelle sue grandi trattazioni di filosofia morale.

Di Teofrasto ci sono rimaste come opere ampie oltre I caratteri, Ricerche sulle piante, Cause delle piante e frammenti di una sua Metafisica, di un’opera di mineralogia Sulle pietre, delle Opinioni dei fisici.

 

In relazione all’opera I caratteri l’acuto storico della letteratura greca Gennaro Perrotta  così scrive:

«(Teofrasto) contempla le debolezze e le follie degli uomini con occhi penetranti e disingannati. La sua arte misurata, aristocratica, che considera suprema eleganza una leggera apparenza di trascuratezza, è affine all’arte del commediografo Menandro; ma in Menandro è più calore, più umana indulgenza, più amore per gli uomini. Teofrasto non ride, sorride appena; non rivela il suo intimo cuore. Ma c’è tristezza e amarezza in quel suo chiuso sorriso: come se egli conoscesse troppo bene gli uomini per poterli amare.»1

Nell’introduzione Teofrasto osserva come lo avesse sempre stupito il fatto che i Greci, pur nati sotto lo stesso cielo ed avendo avuto una educazione sostanzialmente simile, avessero una diversa «costituzione morale».

Avendo studiato a lungo la natura umana ed avendo osservato nella sua lunga vita «molti e svariatissimi tipi» ed avendo messo a confronto gli uomini buoni e cattivi, decise di descrivere quello che gli uni e gli altri concretamente fanno.

Intendeva descrivere i loro costumi, nell’augurio che i nipoti li avessero come  modelli, scegliendo così di stare nella vita  solo«con gli uomini più nobili, per non essere di meno da essi».

I vizi descritti sono: l’ironia, l’adulazione, il non smetterla più, la rusticità, la piacenteria, la pazzia morale, la garrulità, il contar frottole, la sfacciataggine, la spilorceria, la sguaiataggine, l’inopportunità, l’officiositá, la sbadataggine, la scortesia, la superstizione, la scontentezza, la diffidenza, la sudiceria, la spiacevolezza, l’ambizione piccina, la grettezza, la spacconeria, la superbia, la vigliaccheria, l’indole oligarchica, la studiosità senile, la maldicenza, la simpatia per i furfanti, l’avarizia.

Non sono assassini o depravati estremi i tipi umani descritti da Teofrasto, ma essi, non curando il proprio perfezionamento morale e culturale, sono bloccati e chiusi in maschere esistenziali, che nascondono il loro profondo, cieco egoismo, non crescono in vera umanità, dissipano il loro tempo, avvolti come lumache nella bava  del loro strisciare sulla terra e fanno comunque danni, producendo attorno del male morale, anche psicologico e fisico, essendo di impaccio, di fastidio al vivere quotidiano degli altri, che è già faticoso.

Il primo tipo, “l’ironico”, nel significato di “simulatore”, di “ipocrita”,  di “mascherato”, è uno che

«loda presenti quelli stessi ai quali sotto mano ha mosso guerra...non confessa nulla di ciò che fa, ma asserisce che ci sta ancora pensando, e finge di essere giunto proprio allora, che gli si è fatto tardi, che non si è sentito bene...se vende dice di non voler vendere e se non vuol vendere dice di voler vendere. E se ha udito qualcosa, finge di no, e se ha visto, dice di non aver visto, e se ha acconsentito, di non ricordarsene; e le une cose dice di volerle studiare, altre di non saperle, di altre che lo sorprendono molto... insomma è bravo ad adoperare quei certi modi di dire:

Non ci posso credere!

Non intendo bene.

Rimango di sasso!

A quel che dici è diventato tutt’altro e sì che a me non parlava così!

La faccenda secondo me è inesplicabile!

Valla a contare a un altro!

Non so davvero se negar fede a te o giudicare male di lui.

Ma guarda un po’ se non dai forse credenza troppo presto.»

Il secondo tipo umano negativo è “l’adulatore”, uno che cerca solo egoisticamente vantaggi per sé con questa maschera esistenziale, anche se è indecorosa per la propria dignità.

La descrizione dell’adulatore in Teofrasto è degna di uno scrittore di commedie, perciò si è fatto il nome del grande Menandro.

L’adulatore è uno che quando accompagna il tipo dal quale trarre vantaggi egoisticamente gli dice:

«Ci pensi, vedi come tutti pendono dal tuo volto? E questo non succede a nessun altro cittadino tranne che a te […] Ieri fu giorno di gloria per te sotto il portico -  perché trovandosi colà sedute trenta persone ed essendo caduto il discorso su chi fosse il migliore, tutti, cominciando da lui,  avevano finito con lui.

E, mentre gli dice altre cose del genere, gli spolvera via dall’abito un filo e se per caso il vento gli ha portato tra i peli del capo una pagliuzza gliela leva; e ridendoci su dice - Vedi ? Perché non ti incontro da tre giorni hai già la barba, eppure per la tua età nessuno ha i peli più neri.-

E se quello sta dicendo qualcosa, invita gli altri a stare zitti, e lo loda  quando quello sente e ogni volta che quello sosta applaude con un ‘Bene’ e  se quello dice una battuta ci ride su e si ficca il mantello in bocca, come se non ne potesse più dal ridere.

E invita la gente che incontra a fermarsi, finché non sia passato lui. E compra doni per i figli, li porta alla sua casa  e li dà in sua presenza e  baciandoli esclama: - Uccellini di un babbo raro.-

E se lo accompagna a comprare le scarpe, dice che il suo piede ha la forma più regolare della calzatura.

E quando quello va a fare visita a un amico, gli corre innanzi per dire: - Si è incamminato verso casa tua -  e, tornato indietro, gli dice  - Ho annunziato. -

È naturalmente capace di correre senza prendere fiato a far commissioni fino al mercato delle donne (che suonavano e facevano altro ai banchetti degli uomini), andata e ritorno.

E primo dei convitati loda il vino e persistendo nella lode dice al padrone - Che cucina fine è la tua -  e, sollevato dalla tavola qualcosa, esclama  - Questo sì che è buono - e gli chiede se per caso ha freddo e se si vuol coprire e se gli deve mettere addosso qualcosa, e intanto queste parole si china a mormorargliele all’orecchio; e mentre conversa con gli altri, pende dal suo volto.

E in teatro leva di mano al servitore i cuscini per accomodargliele egli stesso.

E dice che la casa è disposta bene, il giardino con gli alberi piantati bene.»

Insomma una maschera umana disgustosa e amaramente ridicola insieme nei confronti dei valori di vera umanità, in termini di serietà e di dignità.

 

 

1. G. Perrotta, (Termoli, 1900-Roma,1962, docente di letteratura greca all’Università La Sapienza di Roma); Disegno storico della letteratura greca, Ed.Principato, Milano, 1960,  pp.339-340.

 

 

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