Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Il tempo sconosciuto

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Ci svegliammo all'improvviso con una mancanza di coscienza strana, difficile da identificare.

Fuori dalle abitudini, impediti a fare in automatico le molteplici cose che ci riempiono la giornata, con intorno un silenzio che non capiamo, e che può anche far girare la testa; il senso del vuoto incombe e procura un frequente spaesamento, fino a un'angoscia di cui non comprendiamo la natura.

Un po' troppo violenta la modalità con cui ci siamo entrati, quella della costrizione improvvisa, certo. Però non sufficiente per giustificare questa mancanza di senso e di respiro così potente.

Chi ha ricordi abbastanza lontani, può permettersi di associare i pensieri e le sensazioni, fino ad avere un'idea più precisa.

Negli anni precedenti l'attuale frenesia tecnologica, questo tempo era molto simile a quello quotidiano. Anzi, era il tempo stesso, ad essere quotidiano.

Ogni azione, ogni misura delle cose, anche i movimenti: tutto seguiva una linea temporale da vivere con la declinazione di parole da pronunciare o da leggere, di gesti fatti guardando le mani, di un pensiero alquanto costante a seguire quello che si aveva fisicamente intorno. Guardavi la libreria e facevi caso ai dettagli.

 

Il consueto aveva quasi sempre pieghe in cui nascondere cose da farti scoprire. Guardando meglio, trovavi nuove osservazioni a fermare la mente. Giocando, toccavi gli oggetti. Tutto richiedeva un tempo diverso, e non solo e non tanto per la sua quantità; era un tempo che aveva bisogno di cura.

La cura da parte dei sensi, tutti e cinque.

I sensi che oggi abbiamo sostituito con la velocità di esecuzione, e con un apparente possesso e gestione di una versione del tempo che ci appare come una conquista e una benedizione.

Facciamo molte più cose, e le facciamo sostituendo i sensi e l'uso della mente e del corpo con mezzi che si direbbero facilitatori, dandoci l'idea del controllo, di un maggiore e più ampio controllo su una enorme quantità di azioni e informazioni.

Ma questa sostituzione e velocizzazione si paga con l’abbandono del vero controllo, quello sul nostro tempo. Interiore ed esteriore. Sulla sua qualità. Sui polpastrelli che non sanno più toccare gli oggetti ricevendone sensazioni, ma sanno premere tasti per annullarne l’esigenza. Non abbiamo più bisogno di fare cose, e la loro assenza ci appare perfino una conquista.

Non abbiamo granché bisogno di incontrare sguardi attenti, di capire cosa succede intorno nel cerchio più stretto che non comprenda qualsivoglia luogo lontano come se fosse davvero nel nostro mondo; non abbiamo bisogno di trascorrere tempo ad interrogarci senza che sembrino coazioni a ripetere che possono esaurirsi facilmente con una parola gettata nel nulla blu, senza attendere una risposta.

E adesso di questa forma di tempo non sappiamo più cosa fare.

Chi ricorda i giochi, le attese, la cucina, i quaderni, i gesti, gli spostamenti, e più che la loro lunghezza il loro modo di essere vissuti, probabilmente avrà la migliore percezione di questo distacco, avvenuto in un tempo davvero troppo breve per essere introiettato senza conseguenze.

 

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