Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Eleonora, l'inestimabile eredità di un'anima eletta

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Era curiosa Eleonora e amava la vita. I campi rigogliosi della Campania felix si erano impressi nei suoi occhi di bambina, scorrendo veloci, uguali, mentre la carrozza si lasciava dietro nuvole di polvere e gli zoccoli dei cavalli scandivano il tempo ad ogni passo. Aveva lasciato a Roma la sua infanzia, quei crepuscoli vermigli che sapevano di antico, il lento scorrere del Tevere.

Le distanze si accorciavano, Napoli compariva all’orizzonte e le spalancava le porte. Un nuovo sipario si apriva nella sua esistenza e forse solo da quel preciso istante iniziava davvero.

Dedali di vicoli, odori, frastuoni e colori attecchivano nei germogli dei suoi pensieri foggiando il romanzo di una vita. Forse un giorno qualcuno avrebbe scritto la sua storia.

Fu un richiamo arcano quella città dai mille volti, un scelta del destino, ma era ancora troppo giovane per chiederselo, per voltarsi indietro a riflettere. Ora tutto correva in avanti e quella curiosità di bambina si elevava cercando risposte.

Le domande crescevano con lei, scoprendo negli studi classici e scientifici inesauribili sorgenti di sapere, fonti ostiche e inusitate per una donna radicata nel suo tempo. Ma lei aveva qualcosa di diverso.

Un raro connubio tra mente e cuore la invogliava a comprendere, a scoprire, ad osservare il mondo con uno sguardo vivido di intelligenza.

Imparò presto a intessere rime, un dialogo muto col passato che verso dopo verso trovava un’espressione lirica nei componimenti.

Era felice la giovane Eleonora. Tutto a Napoli le appariva poesia, anche quelle giornate malinconiche d’inverno, quando sotto un cielo plumbeo la gente camminava curva contro il vento. Ma era vento di mare e portava con se un profumo di salsedine e quel profumo le ricordava il sole dell’estate.

C’era la vita in quella città dalle mille contraddizioni, che oscillava tra il lusso sfrenato della corte e la miseria dei lazzari. Cera sempre qualcosa a infondere la forza di andare avanti anche quando le cancrene sociali rodevano lo stomaco e abbrutivano l’anima. Ma tutto sembrava passare con l’alba di un nuovo giorno e tutto si sopportava, pur se ogni cosa rimaneva immutata.

L’anima secolare di Napoli sopravviveva negli interstizi del tempo, negli anfratti dei palazzi fatiscenti, nelle mura corrose delle fortezze angioine, nella fuliggine delle case più povere, negli oscuri meandri di vicoli stretti dove ogni cosa appariva bieca e anche il sole esitava ad entrare.

Ma quell’anima perdurava soprattutto nel sangue del popolo, nelle credenze, nelle superstizioni e nella inoppugnabile volontà di quegli dei temuti, amati e anche bestemmiati: San Gennaro, il Vesuvio e i Re.

Erano loro i veri indiscussi padroni del popolo napoletano a cui nessuno osava opporsi, nemmeno la più infuocata delle rivoluzioni.

Ci aveva già provato Masaniello un secolo prima, ma era finito vittima di se stesso,  pur se quel mito di tanto in tanto tornava a serpeggiare ma senza trovare emulatori. Oramai era una storia passata,

Napoli era ridivenuta capitale con Carlo di Borbone che, tra la costruzione di un palazzo e l’altro e  tentativi di riforme, aveva riportato lustro ad un Regno che, nella sua estensione dalla Campania alla Sicilia, rappresentava una potenza politica considerevole a livello europeo.

In questo universo circoscritto i de Fonseca Pimentel, una famiglia di origini portoghesi, da Roma si erano trasferiti a Napoli dove la giovane Eleonora si affacciò alla vita in attesa di crescere e dare senso alle scelte di un destino forse già scritto. Lo attese con trepidazione, come il preludio di un giorno di festa.

Seduta alla scrivania dai fregi dorati, i giorni della spensierata giovinezza trascorsero veloci in compagnia di fantasmi mitologici che rispondevano al suo appello, lasciandosi intessere da una piuma d’oca intinta nell’inchiostro. Una rara musicalità si sprigionava da ogni riga e l’armonia vinceva il silenzio, giungendo lusinghiera al canuto e lontano Metastasio. Era sbocciata  la «musa del Tago», la «bella Eleonora Fonseca che riuniva alle grazie di Saffo la filosofia di Platone». Così scrisse di lei anni dopo Mariano D’Ayala, e così in tanti la ricordarono.

Si spalancarono le porte della corte borbonica e poi i salotti e i palazzi nobiliari. Gli occhi le brillavano come lapislazzuli nel declamare i suoi versi fiera e armoniosa, tra dame incipriate e specchi intarsiati. La soave musicalità della voce ammaliava gli astanti, le linee del volto sparivano, la gestualità sprigionava incantesimi.

L’eterea «musa del Tago» cresceva rigogliosa, ma la primavera, si sa, corre veloce, perché in quel cielo terso e turchino, minacciosi banchi di nuvole già comparivano all’orizzonte.

Era il 1778 quando il padre l’accompagnava all’altare. Amarezza, dolore e lacrime. Tante ne versò Eleonora incatenata ad un matrimonio senza amore, dove la violenza del Capitano soffocò i sogni  della poetessa, spogliandola delle sue vesti turchine. Nulla attecchì in quell’arido deserto e ciò che nacque appena ebbe il tempo di vedere la luce, altro nemmeno un respiro.

Morì Francesco, il suo unico figlio, morirono le altre vite che portò nel grembo, morì l’anima giovane di lei, quella che si era nutrita di speranze e verseggiando aveva sognato l’amore.

Eppure era ancora viva Eleonora,  e vivi erano i suoi palpiti, il suo desiderio di libertà. Libertà di curarsi le ferite, di esprimere il suo dolore, sublimarlo, trasfonderlo negli studi, e poi alzare gli occhi e guardare oltre. E lo fece. Trovò la forza di rialzarsi e impugnare la penna come una spada. Finito il tempo delle poesie, la musa cedette il passo agli studi eruditi per poi scattare in piedi e farsi guerriera.

Riaprì gli occhi sul mondo e si accorse che il mondo stava mutando. Un’ondata di cambiamento giungeva dalla Francia, minacciando la fine delle monarchie secolari. Allora comprese che tutto poteva cambiare, non solo la sua vita, ma l’Italia, l’Europa.

In quell’universo circoscritto scopriva i colori di nuovi orizzonti. Le affascinanti teorie di Genovesi e Filangieri, le tanto decantate riforme illuminate, trovavano un senso. Non erano più lezioni da lasciare a un futuro lontano, ma potevano trovare una realizzazione nel presente, anzi, dovevano. E lei era pronta a dare se stessa, il suo spirito rivoluzionario era già sul piede di guerra.

Da poetessa a sospetta giacobina, il passo fu breve e  inesorabile.  Le porte del palazzo reale sbatterono alle sue spalle. Anche lei, tra gli altri, era una «serpe in seno» di Maria Carolina.

Iniziava la repressione borbonica e gli intellettuali ‘illuminati’ finivano uno dopo l’altro nel vortice delle inquisizioni più dure. Si allestirono i primi patiboli, e Napoli raccoglieva nelle sue memorie  i  primi martiri della libertà: Emanuele De Deo, Vincenzo Vitaliani e Vincenzo Galiani.

Ma non fu questo sacrificio umano a intimorire lo spirito rivoluzionario dell’intellighenzia napoletana. I club giacobini intensificarono il proselitismo, e soprattutto l’avversione ai Borbone che, a loro volta,  temendo il ripetersi a Napoli del Termidoro francese, incrementarono le persecuzioni.

Il richiamo alle idee di Libertà e Uguaglianza infervorava gli animi ribelli, rendendo l’assolutismo monarchico sempre più asfissiante e insopportabile.

In Piemonte, ad Alba, nel 1796, nasceva la prima Repubblica pur se per soli due giorni. Poi se ne seguirono altre: la Cisalpina, la Transpadania, la Sub Alpina, fino a quella Romana. I francesi stavano giungendo anche a Napoli per liberarli dalla tirannide e tutti insieme avrebbero costruito un mondo di eguali. Bisognava crederci, bisognava combattere. E intanto si vagheggiava, si preparavano gli animi ad una vita gloriosa che forse li avrebbe consacrati alla storia.

Ci pensò mille e più volte Eleonora nella fredda cella del carcere, quando tutto sembrava perduto.

In un gelido mattino di fine dicembre sul palazzo reale calò un silenzio ancora più agghiacciante: Ferdinando IV era scappato a Palermo con tutta la corte. Mutavano gli scenari politici: anche per Napoli era iniziata la stagione rivoluzionaria.

Dopo un mese di anarchia, massacri e saccheggi, il 23 gennaio 1799 arrivarono i francesi, Napoli divenne Repubblica, i sudditi si trasformarono in fieri cittadini e gli alberi della libertà dal cappello frigio furono piantumati in tutte le piazze.

Da marchesa de Fonseca Pimentel a cittadina compilatrice del Monitore Napoletano, Eleonora, tornò a sorridere e forse furono quelli i momenti più trepidanti della sua esistenza.

Aveva scoperto la meta del suo cammino, ma dal profondo del cuore una voce oscura le ricordava che il destino era imprevedibile e non le avrebbe fatto sconti. Le giungeva come una fitta al cuore, una verità dolorosa inaccettabile, ma nel contempo trovava riscontro nella palpabile insofferenza del popolo che di quella libertà francese non ne comprendeva il senso e soprattutto non sapeva cosa farsene.  Dal canto loro  i liberatori d’Oltralpe non persero tempo a togliersi la maschera e scoprirsi avidi conquistatori.

Quanta delusione, quante amarezze costò quella Repubblica, quante vite umane! Sei mesi di libertà e inutili speranze. Sei mesi di tempo forse anche  per sfuggire al destino, quando oramai non rimaneva altro da fare. Ma Eleonora non lo fece. Lei si «gettò come Camilla nella guerra», come scrisse Vincenzo Cuoco, e non si voltò mai indietro nemmeno quando tutto finì e nella piazza del Mercato si allestirono i patiboli.

Il passato tornò spietato, vendicativo ed anche scontato.

Quella carrozza che l’aveva portata a Napoli da bambina, era ormai giunta alla fine del suo cammino. Non si udirono più gli  zoccoli dei cavalli, non c’era più strada da percorrere. Nelle carceri della Vicaria ebbe solo il tempo di raccogliere tutti quei“forse” che aveva lasciato per i sentieri del destino e il 20 agosto 1799 li ricondusse in un unico conclusivo disegno. Tutti, eccetto uno.

L’ultimo “forse” lo affidò alle ali del tempo, alla memoria dei posteri, a coloro che nascono con la libertà nel cuore. «Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo». Inestimabile eredità di un’anima eletta.

 

 

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