Brevi considerazioni su guerra e libero scambio
L’idea che una politica economica protezionistica tenda a condurre alla guerra, mentre una liberoscambista favorisca la pace, è storicamente erronea, senza possibile dubbio. Carl Von Clausewitz ha osservato che, fra tutte le umane professioni, quella che più si avvicina alla guerra è il commercio, pur subordinando questo giudizio alla più generale e celebre interpretazione della guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi. Il parere è discutibile e criticabile, ma resta un punto di vista autorevole di colui che è il padre fondatore della polemologia ed il cui trattato è studiato nelle accademie militari di tutto il mondo.1 Nelle civiltà pre-statali (cosiddette di caccia-raccolta, di bande, di villaggio etc.) l’attività bellica e quella commerciale, entrambe pressoché universali, sono spesso collegate fra di loro ovvero non chiaramente distinguibili. Anche le popolazioni che vivono di caccia e raccolta, sebbene siano autosufficienti per produzione alimentare, commerciano per avere prodotti di pregio quale sale, miele, ocra rossa, pietre focaie, ossidiana. Lo scambio anche su lunga distanza, di molte centinaia di chilometri, di determinati prodotti è dimostrato già per il Paleolitico grazie all’archeologia.
I tassi di attività bellica, relativamente alti già nelle civiltà pre-agricole, e l’elevata frammentazione etnica derivante dall’esistenza di una molteplicità di comunità assai piccole in confronto a quelle posteriori all’affermarsi dell’agricoltura, contribuivano a rendere rischiosa l’attività commerciale che avveniva sovente fra popoli estranei od anche ostili. Ad esempio, una razzia poteva diventare una spedizione commerciale o viceversa.2 Sulla notevole, talora misconosciuta in antropologia, alta frequenza bellica delle culture arcaiche.3 Numerosi grandi imperi sono stati propugnatori del “libero scambio” commerciale. Senza alcuna pretesa esaustiva, si possono ricordare: L’impero arabo nella sua età dell’oro, che non a caso fu creato da coloro che erano da secoli sia razziatori, sia mercanti e che dimostrò per almeno un secolo un dinamismo eccezionale.4 Il più grande impero asiatico mai esistito, quello di Gengis Khan, che era fra l’altro un ammiratore dei mercanti islamici che si spingevano dall’Asia centrale sino alla Mongolia. Lo sterminato dominio fu creato lungo le molte arterie commerciali trans-asiatiche ed il khan ebbe cura di assicurare un libero e sicuro scambio di persone e beni da un capo all’altro dei suoi territori. Quattro grandi vie (o meglio reti viarie) percorrevano l’impero: la via della giada e della seta (più semplicemente via della seta), che andava dalla Cina settentrionale ai porti del Mediterraneo orientale; la via del the, che saliva dal Tibet e dalla Cina meridionale sino alla Mongolia superiore; la vita dell’oro e la vita delle pellicce, che scendevano dall’estremo nord della tundra e della taiga sino al Bajkal; la via tartara (o strada a nord dei monti celesti, in seguito via imperiale cinese), che da Qaraqorum giungeva sino al mar Nero.5 Secondo la teoria elaborata da Sechin Jagchid e Jay Simons il comportamento aggressivo dei nomadi verso la “Cina” sarebbe spiegabile in termini commerciali ovvero di esigenze mercantili ed alla supposta dipendenza (concetto ben radicato nella letteratura antropologica) delle economie dei nomadi nei confronti di quelle dei sedentari.6 L’impero coloniale di Venezia nel Levante, che originò già nel secolo XII un modello di capitalismo compiuto e che contribuì potentemente a disgregare l’impero di Costantinopoli al suo interno.7 Naturalmente, il più grande impero mai esistito, quello dell’Inghilterra, patria per eccellenza del liberismo, del libero scambio, del commercio internazionale, tanto da essere soprannominata “la nazione dei bottegai”. L’espansione commerciale fu una delle motivazioni principali, se non la prima in assoluto, della sua vorace aggressività. La stessa conquista dell’India, perla dell’impero, fu più un affare mercantile che militare nei modi stessi. Uno storico inglese, buon conoscitore dell’India, ha confermato in anni recenti ciò che era appurato da tempo: «le “vittorie” di Clive a Plassey e Buxar furono il frutto di trattative fra banchieri inglesi e intermediari indiani piuttosto che quei trionfi d’arme e valor militare in cui la propaganda imperiale li trasformò in seguito.». I fattori politici, derivanti dagli affari della classe dirigente indiana in buona parte anglofila per interesse finanziario o mercantile, spiegano come e più della superiorità militare e tecnologica europea l’agevole assoggettamento di un intero subcontinente, comprendente all’epoca circa 1/5 dell’umanità, ad una compagnia commerciale, la Compagnia delle Indie orientali. Il libero scambio, una volta applicato in India nella sua pienezza, provocò una immane carestia con milioni e milioni di morti.8 L’erede ideologico dell’impero inglese, quello americano, è la proiezione all’estero di un paese che ha condotto dalla sua nascita, 250 anni fa, più di 200 guerre, quasi tutte di aggressione, senza dimenticare i colpi di stato, i bombardamenti od altre forme di guerra indiretta o nascosta. È innegabile che gli Usa siano un paese di “feudalesimo industriale” e che nella sua politica gli interessi economici della ristretta oligarchia siano sempre stati dominanti nella politica, sin dalla redazione della costituzione, come ebbe a dimostrare lo storico Charles Austin Beard. Il complesso militare-industriale (espressione di Eisenhower, in verità persino riduttiva) ha abbinato nei secoli l’espansione economica, ovvero la conquista di nuovi mercati, a quella bellica e politica.9 E’ appena il caso di menzionare come una celebre forma di commercio internazionale, quello triangolare fra alcuni paesi dell’Europa atlantica, l’Africa occidentale e l’America, sia stato un generatore di conflitti fra popoli africani e di un enorme traffico di schiavi.10 Sarebbe erroneo certamente affermare che una politica economica di libero scambio induca alle guerre, giacché i fattori storici sono molteplici e l’economia stessa è soltanto uno fra i tanti. Inoltre, può accadere che la scelta di elevare i dazi si combini ad una politica bellicista, come era avvenuto nell’era del mercantilismo. Ma non si può affatto sostenere l’equivalenza fra autarchia e bellicosità, ovvero fra libero scambio ed irenismo. Al contrario, assai spesso il commercio si è intrecciato alla guerra, dalla più remota antichità ad oggi.
Note 1 Cfr. Carl Von Clausewitz, Della guerra, Torino 2000. 2 K. G. Heider, “Visiting trading institutions”, in American Antropologist, n. 71, pp. 262-271. 3 Cfr. N. Wade. Before the Dawn: Recovering the Lost History of Our Ancestors. New York 2006. 4 Cfr. S. A. Bradley, Trade and Exchange in the Medieval Islamic World, in Encyclopedia of Society and Culture in the Medieval World, New York 2008; F. Gabrieli, Viaggi e viaggiatori arabi, Firenze 1975; Esempi, per quanto posteriori all’epoca della grande espansione araba, della capacità dell’umma, la comunità dei fedeli dell’Islam, di consentire spostamenti di persone, merci ed idee da una sua estremità all’altra si ritrovano in Stewart Gordon, When Asia Was the World: Traveling Merchants, Scholars, Warriors, and Monks Who Created the ""Riches of the ""East"", Philadelphia 2008, pp. 57-116. 5 F. Adravanti, Gengiz Khan, Milano 1984, pp. 222-226, 307-310. 6 Cfr. Sechin Jagchid-Jay Simons, Peace, War, and Trade along the Great Wall: Nomadic-Chinese Interaction through Two Millennia. Bloomington 1989. 7 Cfr. S. Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII secolo. I rapporti economici, Venezia 1988. 8 Un punto di vista asiatico è quello di K. M. Panikkar, Storia della dominazione europea in Asia, Torino 1972; H. Furber, Imperi rivali sui mercati d’Oriente. 1600-1800, Bologna 1897; la citazione è di William Dalrymple, Il ritorno di un re. La battaglia per l’Afghanistan, Milano 2015. Sul dibattito, ovviamente assai ampio, sulla genesi dell’imperialismo coloniale e sul suo rapporto con l’economia, si debbono citare almeno due studi con posizioni teorico piuttosto distanti: J. A. Hobson, Imperialism: A Study, London, 1902; J. Gallagher-R. Robinson. "The Imperialism of Free Trade," in The Economic History Review, August 1953, 6-1. 9 Cfr. W. Blum, The CIA. A Forgotten History, Londra 1985; C. Austin Beard, An economic interpretation of the Constitution of the United States, New York 1913. 10 Cfr. E. Williams, Capitalismo e schiavitù, Bari 1969. |
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