I diritti umani nel mondo
Che cosa sono i diritti umani? L. Wittgenstein sorriderebbe di fronte a questa domanda, non per disprezzo, ma per un altro motivo: per il filosofo viennese essa sarebbe una domanda “mal posta” che comporterebbe una risposta assurda. Probabilmente Wittgenstein la riformulerebbe in questi termini: «datemi qualche esempio di diritti umani in termini di concreta esperienza e…». I diritti umani: che cosa sono? L’interrogativo lo raccolsi qualche anno fa su una spiaggia del Mar Nero in Romania dalla viva voce di una ragazza rumena che frequentava, poco prima della caduta sanguinosa e rovinosa del dittatore rumeno, Nicolae Ceaucescu, il “Conducator”, la Scuola Superiore per infermieri a Bucarest. Manuela, questo era il nome della ragazza, era in vacanza a Neptun, la località più “in” della costa rumena. L’avevo incontrata per caso in una Romania che all’improvviso appariva sempre più un altro pianeta, a me che mi volevo lasciar trascinar nel piacevole ozio di una vacanza relax, tutto sole, e Mar Nero.
Fu allora che scoprii l’altro pianeta, il piccolo grande Vietnam della Romania, l’ultima spiaggia di una dittatura atroce che, un po’ alla volta mi rivelava i suoi più reconditi e feroci segreti; e di fronte alle orribili “scoperte”, che andavo facendo in quella calda e triste estate rumena, non potevo fare a meno di pensare alla Germania di Hitler e all’Italia di Mussolini, così lontane storicamente e geograficamente, note a me solo per i saggi letti a scuola e all’università e per i racconti dei testimoni sopravvissuti, intrisi di rabbia e di disperazione per i diritti dell’uomo continuamente calpestati e violati. Con Manuela non ho mai parlato dei diritti umani, perché che senso aveva parlarne con lei, quando ogni giorno, ogni ora, lei e tanti altri e altre come lei erano sottoposti alle violenze fisiche e psicologiche della “Securitate”, la polizia politica segreta del “pazzo” di Bucarest? Ero con lei nella hall di un albergo e con lei assistevo, impotente e assorto nella incredulità della mia coscienza, all’asta di numerose e splendide ragazze che venivano offerte al pubblico incanto ai clienti più danarosi. Lei non diceva niente, la Securitate continuava a proporre i “pezzi” più belli della sua “collezione” proveniente dai villaggi rurali più poveri della Romania più degradata. Usciti dall’albergo andammo a prenderci un cappuccino rumeno, tra la gente di questo Paese, dove si soffriva in silenzio e ci si attaccava disperatamente agli attimi della vita come se dovessero durare per l’eternità. Così Manuela mi confessò che suo padre e tanti altri padri rumeni, un tempo, quando? Duemila anni fa!, avevano cominciato a ribellarsi, ma una mattina presto arrivarono quelli della Securitate e… Ingenuamente la interruppi: “e il processo?”. Non riuscii a capire se rideva o piangeva. Poi afferrai: il “processo era uno di quelle altre cose”- come i diritti umani- che non si sa cosa siano in Romania. A distanza di tempo ho ripensato a queste “vacanze rumene” e sono sempre più convinto che il mio Paese, le sue scuole, i suoi mass-media, i suoi organi istituzionali, gli organismi internazionali portano responsabilità enormi nei confronti della tragedia rumena. All’università, a scuola, non ci avevano mai informato di questo altro pianeta. A questo punto mi chiedo se i ragazzi rumeni hanno mai saputo dell’esistenza della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, della Dichiarazione inglese dei diritti del 1689, dell’ “habeas corpus”, della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati americani del 1776… Una sera a Neptun fui invitato dai ragazzi di un Istituto Superiore e dell’Università di Bucarest a uno scambio di vedute sulla situazione internazionale. E lì mi accorsi di essere guardato a vista da alcuni membri della Securitate che non tanto discretamente vigilavano sulla “sicurezza” dei cittadini rumeni e stranieri. Durante la discussione notturna con gli studenti rumeni notai che sotto la vernice rossa dell’internazionalismo rivoluzionario si nascondeva un insospettato e insospettabile spirito nazionalista: gli alleati sovietici ed est-europei erano considerati infidi e pericolosi per gli interessi della patria rumena. Quei ragazzi lasciavano intendere di sentirsi assediati dalla marea slava che circondava l’unico popolo latino dell’Oriente europeo. Ceaucescu, strumentalizzando questo spirito nazionalista dei Rumeni, aveva introdotto in Romania la teoria e la pratica del segregazionismo razziale nei confronti dei non Rumeni, in particolar modo nei confronti della minoranza ungherese della Romania. La stessa crisi della ex Jugoslavia sta dimostrando quanto sia radicato nell’Est europeo il morbo contagioso e disumano del nazionalismo che infondatamente si riteneva istinto nell’animo degli Europei. In un albergo rumeno fui testimone dell’allontanamento di una ragazza che aveva origini ungheresi: non seppi mai se quella ragazza fosse riuscita a trovare una camera per dormire. Con Manuela sorseggiavo il cappuccino al bar, quando all’improvviso fu presa da un attacco di rabbiosa disperazione e allora mi confessò qualcosa che ancora oggi mi è rimasto impresso nel cuore e nell’anima: “l’unico desiderio che vorrei esaudito è quello di poter fare una corsa in macchina lungo il mare”. Allora, anch’io ingabbiato nelle mie mitologie, non capii. E risposi qualcosa di poco importante che non ricordo neanche più. A distanza di tempo di fronte alla televisione ho rivissuto quei giorni in Romania, quando ho visto le scene delle ultime ore di Nicolae Ceaucescu e sua moglie Helena. Mi sono ricordato del palazzo di vetro dei Ceaucescu a Neptun, della fame e della povertà dei rumeni, della “commestibilità” dei diritti umani e naturalmente di Manuela. Già, mi sono chiesto, dove sarà ora Manuela, a sparare anche lei col kalaschnikov nelle strade gelide di Bucarest, a riprendersi la sua fetta dei diritti umani, la sua fetta di libertà, la sua voglia di farsi una corsa in macchina lungo il Mar Nero. A scuola, ai miei alunni di seconda media, negli spazi del tempo prolungato, ho raccontato questi episodi e ritengo che sia l’unico modo per interessarli a problemi di Educazione civica. I ragazzi riescono a intuire le profonde diversità esistenti tra democrazia e dittatura, tra la possibilità, anche minima, di salvaguardare i più basilari diritti umani all’interno di istituzioni democratiche e la rassegnazione e la disperazione di un’esistenza mancata e violata quotidianamente in un regime totalitario. A Cuba, qualche anno fa, sono andato con i miei ricordi di Hemingway, del “Vecchio e il mare” di “Isole nella corrente”, del suo amore per il verde mare dei Caraibi e della pesca d’altura. Ho ripensato anche al “Nostro agente all’Havana” di Graham Greene, al fascino dell’“Isola del tesoro” di R.L. Stevenson, alla vita cubana di Gabriel Garcia Marquez. A Varadero, la spiaggia incantata dei cubani, un tempo, prima di F.Castro e della Rivoluzione, meta delle vacanze dorate del dittatore Fulgenzio Batista e di gangster come Al Capone, ho incontrato numerosi ragazzi e ragazze delle Scuole Superiori e dell’Università di l’Havana e, come in Romania, ho colto sui volti di questi giovani caraibici l’ansia intrattenibile di vivere una vita intensa e rapida, perché l’embargo commerciale americano sta falcidiando la popolazione e la sua infinita gioia di vivere. La consapevolezza di una morte “annunciata” e praticata per fame quotidianamente rende i giovani di Cuba incredibilmente tristi e allegri nel contempo: ti danno quel calore umano che solo i ragazzi che soffrono ti sanno dare. La cappa della dittatura castrista è pesante e onnipresente, i ragazzi lo sanno e per reazione esprimono la loro gioia di vivere attraverso un vitalismo spasmodico e quasi suicida. Le scuole di Cuba forniscono una buona istruzione formale che ti mette a disagio, perché scopri nei giovani la sincerità del loro rispetto ma anche la contraddittorietà di un’educazione formale che volutamente evita di insistere sulla salvaguardia dei più elementari diritti umani in un’isola in cui, come in qualche modo mi informano i miei giovani allievi cubani, il dissenso politico viene pagato con l’eliminazione dell’avversario. Ad Agadir, sulla costa meridionale atlantica del Marocco, circondato dal Sahara, mi ritrovo a parlare con una ragazza marocchina che ha studiato in un Istituto Superiore di lingua e letteratura straniera. Ora Cabira, così si chiama la ragazza, ha finito l’università ad Agadir e si è laureata in lingue, francese e spagnolo. Con lei scopro i meandri della dittatura “coranica”: non puoi passeggiare con una ragazza marocchina, non puoi portarla al bar del tuo albergo, non puoi parlare con lei in pubblico. E quando fai il bagno insieme a lei nell’Oceano Atlantico, hai la netta sensazione che mille occhi islamici ti stiano a guardare, a spiare come una bestia rara e pericolosa, una sensazione veramente molto poco piacevole. Quella ragazza, Cabira, non l’ho più rivista, mi ha scritto e mi ha confermato quello che altri ragazzi marocchini, camerieri, gente comune del Marocco mi aveva detto e che avevo constatato anch’io: la polizia del sovrano Assan II, controlla minuziosamente la vita di tutti quei cittadini marocchini e stranieri che possono destare qualche sospetto. L’ho raccontato ai miei alunni e le lezioni di Educazione civica sui diritti umani si sono trasformate in numerose richieste di spiegazioni e chiarimenti pratici su come sviluppare la difesa dei diritti umani in Italia e all’estero. Allora agli studenti della mia classe, anche sulla base delle mie vicende personali, ho spiegato che ogni qualvolta un’istituzione commette un torto nei confronti del cittadino italiano, è possibile difenderci adoperando il sistema dei ricorsi giurisdizionali e quando riteniamo insoddisfacente la risposta delle istituzioni nazionali, possiamo e dobbiamo rivolgerci alla Corte europea per i diritti dell’uomo riconosciuta anche dalla Repubblica Italiana con la “Convenzione europea per la salvaguardia dell’uomo e delle libertà fondamentali” firmata a Roma il 4 novembre 1950 da tutti gli Stati allora membri del Consiglio d’Europa, entrata in vigore il 3 settembre 1953. Con un ricorso individuale o di gruppo ogni singolo cittadino della Repubblica che ritenesse di aver subito un torto anche da parte di un organo istituzionale e di non aver ricevuto la necessaria giustizia, può ottenere il soddisfacimento delle sue richieste. Di fronte al “disvelamento” di tali opportunità per la difesa dei propri diritti calpestati, gli alunni di solito dimostrano molta incredulità e meraviglia perché essi, come i loro genitori, nella migliore delle ipotesi, credono possibile la difesa dei propri diritti in Italia solo tramite associazioni, sindacati, partiti o gruppi affini, dimostrando di essere legati a una tradizione tipicamente italiana, la quale, solo dopo la Resistenza, ha cominciato a prendere coscienza dei diritti inalienabili dell’uomo e del cittadino in forme e modi che sono ancora mille anni luce distanti dalle forme e dai modi della tradizione anglosassone, caratterizzata da un profondo senso della libera iniziativa individuale scaturita dalle due grandi Rivoluzioni europee, quella inglese appunto e quella francese. E grande clamore presso i miei allievi, i loro genitori e gli utenti della scuola media statale “Morcelli” nella quale insegno, hanno suscitato le mie prese di posizione, i miei ricorsi individuali nei confronti di alcuni ministri della Repubblica a dimostrazione che il processo di piena democratizzazione è ancora in corso nel nostro Paese e che lunga e densa di ostacoli è la via per far conoscere e consolidare tutti quegli istituti legali nazionali e sovranazionali atti a garantire i diritti dell’uomo e del cittadino. E in questa direzione proprio la scuola, in tutti i suoi ordini e gradi, è chiamata più di ogni altra pubblica istituzione a svolgere un’azione fondamentale di Educazione civica. |
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