Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

I racconti della Napoli che è «in noi»

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Dopo aver cercato di indagare le premesse profonde delle forme con le quali Napoli usualmente si presenta, è ormai giunto il momento di descriverle finalmente più da vicino.

Per la precisione è arrivato il momento di mostrare, in maniera chiara e concreta, in quale modo effettivamente si manifesti quella profonda identità negativa che ho cercato di mettere allo scoperto nei due articoli precedenti dedicati al tema. Ed è ovvio che questo costituirà anche una prova del nove di ciò che ho affermato precedentemente.

Potrebbe insomma accadere che le forme concrete di apparenza di tale identità smentiscano la sua caratterizzazione negativa, ed evidenzino invece la sua caratterizzazione positiva. Dobbiamo insomma a tutti i costi esporci anche a questo rischio.

Ma il problema che immediatamente si pone sta in effetti in rapporto proprio con tutto quanto ho appena detto. Di Napoli e dei Napoletani vi sono infatti raffigurazioni molto diverse tra loro. Quelle che ognuno di noi può ottenere semplicemente girando per le strade.

Quelle proprie della classica oleografia bozzettistica e mitica. Ed infine quelle che possiamo definire invece proprie delle «cronache», e spesso anche autentiche narrative. Mi riferisco con queste ultime alle descrizioni di Napoli e dei Napoletani che via via sono state fatte dagli intellettuali che si sono preoccupati di osservarla dall’interno (come abitanti della città) o dall’esterno (come visitatori).

E qui ci si trova di fronte ad una letteratura davvero sconfinata.

 

Ora, siccome il mio mestiere non è né quello dell’antropologo, né quello del sociologo, né quello dello storico, né del letterato, non posso nemmeno lontanamente pensare di offrire qui al lettore un quadro davvero rappresentativo (in quanto quantitativamente completo) delle cronache e narrative che si possono trovare in questa così vasta letteratura.

Tuttavia mi ritengo comunque un osservatore piuttosto curioso delle antropologie. Ed ho peraltro già detto che il lavoro di pediatra territoriale (al quale ho atteso per moltissimi anni) mi ha messo a strettissimo contatto con la specifica antropologia del luogo.

E questo mi ha poi sempre portato a cercare dei riscontri letterari a quello che intanto mi trovavo sotto gli occhi. Pertanto ho a disposizione almeno alcune frecce testuali nel mio arco. Per quanto comunque poche. E sono quindi proprio questi testi che in questo articolo cercherò di presentare.

Si tratta però con ciò di una decisione, e quindi di una selezione preliminare.

Ed è però ovvio che essa dovrebbe venire preceduta da una più fondamentale decisione; e cioè quella che consiste nel valutare quale, tra le forme di raffigurazione dell’antropologia (e relativi costumi) napoletani, è davvero appropriata alla specifica bisogna. Tuttavia per fortuna la risposta alla domanda non è molto difficile. È ovvio infatti che l’osservazione puramente personale è fin troppo gravata dal grande rischio dell’arbitrio soggettivo.

Quanto poi all’oleografia, non c’è bisogno di dire che essa non fa altro che mettere in risalto il positivo e occultare accuratamente il negativo. Essa è quindi inaffidabile per definizione. Quindi non resta a nostra disposizione altro che quello che ho definito come «cronache» (e che include in sé anche le «narrative»).

Ma con queste ultime siamo costretti a confrontarci comunque ancora con apparenze fenomeniche che non sono ancora quelle davvero vive, e cioè quelle proprie dell’autentico costume e colore locale. E così dobbiamo rassegnarci a rimandare ancora una volta la loro diretta raffigurazione. Parleremo insomma ancora una volta di «letture» della fenomenologia partenopea. Esse hanno però comunque il grande merito di mettere davanti ai nostri occhi delle forme concrete; le quali poi a loro volta si prestano molto bene ad un molto fruttuoso ricollegamento della nostra consapevolezza con la dimensione profonda dell’Essenza e dell’Identità.

Ebbene non si può certo dire che in tali cronache si ritrovi solo un’immagine negativa di Napoli e dei Napoletani. Tuttavia comunque, quando essa è presente, le sue forme (ossia gli aspetti qualitativi del negativo) sono così impressionanti da assumere un rilievo davvero straordinario. Forse, mi azzardo a dire, ben superiore a quello delle descrizioni quantitative (negative o positive che siano).

E che cosa di intensamente qualitativo viene fuori in maniera più impressionante, ponendosi così decisamente in primo piano?

Risponderò tra poco a tale domanda. Intanto però bisogna prima sforzarsi di aggiustare il tiro della nostra osservazione. Bisogna infatti considerare che ciò che più conta nelle ipotetiche raffigurazioni negative sono in particolare le forme simboliche davvero emblematiche che esse ci sottopongono; e cioè quelle che ci riconducono al cospetto di un’essenza realmente profonda (esattamente quella che mi sono precedentemente sforzato di portare allo scoperto).

Queste possono quindi essere considerate forme che hanno un effettivo senso; e cioè che per davvero sono in grado di parlare quando interrogate. Contano invece molto meno le forme generiche in quanto indeterminate, negative o positive che siano. Esse infatti per definizione ci dicono poco o nulla.

Ebbene, una volta fatta questa correzione di tiro, dovremo constatare – rispondendo così alla domanda di prima – che non a caso vengono fuori per prime proprio quelle forme che più coerentemente si pongono in sintonia con l’identità negativa di Napoli e dei Napoletani.

Essa si presenta infatti proprio nella forma specifica del Gran Lazzaro.

Ciò significa allora che, esattamente in questa forma, nelle cronache di cui sto parlando, la raffigurazione negativa di Napoli e dei Napoletani è davvero preponderante.

Cominciamo dunque dalle cronache più antiche.

Nino Leone1 ha esaminato le cronache che descrivevano alcuni tra gli eventi in cui l’identità lazzara più è venuta allo scoperto, e cioè gli eventi della famosa rivolta di Masaniello. E qui ciò che emerge ha in verità ben poco di nobile ed eroico. Quello che viene descritto è infatti il fenomeno delle turbe di disperati che ogni giorno premevano alle porte di Napoli “in cerca di sopravvivenza”.

Proprio in forza di tale dominante esigenza il fenomeno tendeva in due sostanziali modi.

O, in tempo di pace, si presentava come un’onnipresente folla perennemente sciamante di insaziabili roditori. Oppure, in tempo di guerra, si presentava come un’immensa e soverchiante forza esplosiva, che sempre tutto spazzava via e distruggeva. Il Capaccio poi (citato da Croce)2 attribuiva anche una qualifica molto precisa a queste turbe. Esse infatti,  con il genere di comportamenti che le contraddistingueva, non potevano di certo essere considerate un “popolo” ma erano invece da considerare solo come “plebe” e “feccia”.

Ebbene, possiamo noi in coscienza dire che da allora le cose siano cambiate? Non dobbiamo invece riconoscere in queste apparenze storiche proprio quelle forme essenziali che, ancora oggi, non possono che produrre gli stessi identici effetti di allora. E ciò è ancora più vero se consideriamo che, grazie a Dio, la miseria di oggi non è più affatto quella di allora. Il che significa che viene meno anche la possibile scusante degli eccessi di allora, in nome della straordinaria intensità delle privazioni che le determinavano.

Evidentemente non è invece così. Perché quello che domina, operando in queste circostanze, non è tanto la quantità ma invece la qualità; ossia appunto l’Essenza. E la natura di quest’ultima resta ovviamente immutata nel tempo.

E così accade che l’avida e tenace erosione dei beni, propria dell’omnipresente folla sciamante dei lazzari-roditori, si presenta anche oggi allo stesso identico modo. E si presenta non solo così com’è (per toccarlo con mano basta immergersi nel caos perenne delle strade di Napoli), ma anche, più precisamente, nello stesso tono medio dei comportamenti sociali quotidiani.

Noi Napoletani infatti ogni giorno passiamo molto più tempo a distruggere che non invece a costruire. E lo facciamo nelle forme più disparate – nell’incuria, nell’abuso e nel maluso, nel cieco e gratuito vandalismo, nell’usurpazione ed appropriazione indebita, nella prevaricazione, nella scaltrezza accentratrice ed occupante spazio etc. etc.

E cosa accade poi quando le circostanze portano infine all’esplosione delle folle frustrate ed ormai apertamente indignate ed irate? Si verifica forse una vera sollevazione «popolare», ossia una presa di posizione collettiva e solidale (violenta ma comunque costruttiva negli intenti) che persegua per davvero degli obiettivi coerenti con i motivi ragionevoli della rivolta? No! Ed allora, dato che l’immondizia invade ormai le strade con cumuli che arrivano fino ai primi piani delle case, noi rovesciamo i cassonetti del loro contenuto, sparpagliandolo così dove dovrebbero transitare persone e veicoli. E poi semplicemente gli diamo fuoco!

E così le condizioni di in cui viviamo divengono ancora peggiori, nel mentre inoltre i livelli di diossina nell’aria crescono a dismisura. Ma intanto, comunque – quando ancora le cose andavano bene –, noi tranquillamente riversavamo nel cassonetto dell’umido tutti i possibili rifiuti. Tranne l’umido! Ed altre cose di questo genere.

Non è vera rivolta questa! Non vi è in essa infatti alcuna intenzione costruttiva, ma invece solo un’unilaterale intenzione esplosiva. Ed essa viene espressa benissimo dal tradizionale nostrano «Mo’ scassamme tutte cose!», del quale è ricorrentemente costellata la storia e vita cittadina.

Ma ora che l’esplosione dell’indignazione finalmente c’è stata, ora che insomma proprio per questo il nostro sentimento dovrebbe essere cupo e contrito, esso lo è per davvero?

No! Mentre i cumuli di immondizia sinistramente bruciano, impazziamo festeggiando la squadra del Napoli per le sue vittorie. E la gente poi, intervistata delle strade, protesta opponendo agli eventi un’accusa che invariabilmente comincia con la professione dell’orgoglio incondizionato, non auto-critico ed assolutamente mitico in senso auto-referenziale: «Napoli è la più bella città del mondo! E invece guardate qua...!».

Ecco che tipicamente (come abbiamo visto nei precedenti articoli), il Napoletano dissocia sé stesso come persona (ma solo nelle responsabilità e colpe, e quindi negli oneri) dalla realtà impersonale intanto definita come «napoli». E il messaggio lanciato è allora uno solo e sempre lo stesso: – «Noi non siamo colpevoli di quanto accade alla nostra cara e povera Napoli! I colpevoli sono solo altri!».

È del tutto ovvio che non è un “popolo” quello che si comporta in tal modo. Non lo è, come non lo erano i barricadieri del Ponte dei Francesi, i quali, dopo che Championnet li ebbe sbaragliati, da fieri ed onorati soldati che erano stati poco prima, in men che non si dica si trasformarono subito nuovamente in allegri mendicanti. E così dopo poco proclamavano il generale francese “un vero re”.3

E peraltro il rovescio della medaglia assolutamente speculare di tutto ciò sta nel comportamento del giacobino stesso, in quanto lui stesso appena espressione del Gran Lazzaro.

Si tratta insomma di un cialtronismo voltagabbana ed opportunista che il Croce4 raffigura impietosamente in Don Nicola Fasulo, “borghese e avvocato napoletano”.

Giacobino e cospiratore che però, nel momento in cui si trovò alle strette, per salvarsi dall'assedio dei lazzari, non dovette fare altro che ricorrere all'atavico inganno e furbizia in luogo che all'eroismo ed all'onore.

Si dirà che in questo modo trionfava quell’allegra e scanzonata bonomia del napoletano, che se ne frega assai della serietà della storia e delle ideologie politiche, preferendo ad esse di gran lunga la perenne celebrazione della festa della vita. E no! Perché di lì a poco, questi stessi allegri mendicanti, dopo che il nuovo Re se n’era andato ed era ormai tornato il vecchio – cioè dopo che l’istinto all’assassinio (e non alla guerra di difesa o alla rivoluzione) aveva di nuovo campo libero, in modo che la viltà di poco prima poteva a buon mercato di nuovo trasformarsi in aperta ferocia (e non in coraggio) –, avrebbero confessato (come racconta Croce): «...morire per morire (dicevano), era meglio morire «per la Santa Fede».5

Insomma costoro non erano stati né i valorosi difensori del Regno delle Due Sicilie, e nemmeno poi il popolo grato al suo nuovo Re rivoluzionario.

No invece! Tutto quello che loro avevano voluto era invece stato “distruggere” coloro che, quali giacobini, venivano da loro a fiuto identificati come “signori, principi, marchesi, notai, monaci e preti; insomma, tutte le giamberghe”.

Coloro contro i quali da sempre covava in risentimento popolare.

Ma non tanto per le privazioni subite, bensì molto più per l’onta portata all’orgoglio indomabile del Gran Lazzaro. Egli, per nascita, avrebbe potuto e dovuto vivere come un pascià, ed invece veniva fatto vivere come un pezzente. Si era insomma trattato solo e soltanto dell’atavico ed invariabile “arricchimento ‘è Napole”.

Atto con il quale da sempre la plebe si era ripresa l’opulenza che essa riteneva le spettasse di diritto. E non un’opulenza ordinaria (quella basata sull’eguaglianza e sulla morigeratezza), ma esattamente quella spendacciona, smargiassa, volgare ed ingiusta del gran signore.

E quindi tutto quello che queste turbe avevano da sempre saputo di storia, politica, e sociologia (ma soprattutto di etica, e cioè di “giustizia”), era stato quanto bastava per rinnovare all’infinito (con pigra ma inesorabile ripetitività) l’istinto canino e porcino che è ben descritto dallo stesso proverbio napoletano «’o cane mozzeca sempe ‘o stracciate».

Ebbene chi è costui? Ce lo dice in una maniera impareggiabile Striano6 descrivendo l’incauta ingenuità filantropica del povero Gennaro Serra davanti alla boria del Gran Lazzaro colto nel pieno della sua proterva indomabilità: «Nuie non simmo giacobine / nuie non simmo realiste/’Nce chiammamme cammorriste / jammo ‘nculo a chille e a chiste».

Altri aspetti significativi speculari, in termini storici, di questa identità, appartengono non a caso tutti ai tristi eventi della repressione della Rivoluzione del 1799.

Ecco infatti un estremamente esplicativo bozzetto, che evidenza la disposizione del lazzaro al lazzo irridente e sguaiato sempre associato alla crudeltà, così coome si presenta nella raffigurazione fattane da un ignoto autore tedesco nel 1799 (e citato sempre da Croce):

«...sfila una schiera di straccioni, dei quali uno reca alta una bandiera con l’effigie di un teschio e la scritta: Evviva il Santo Ianuario il nostro Generalissimo (sic); altri portano sulle spalle la statua del santo, che tiene pesol con mano a guisa di lanterna il suo capo reciso [...]; altri suonano vari strumenti . Ai lati - dice la spiegazione - balla un Pulcinella con un coltello insanguinato. Devozione, leggerezza, crudeltà! Ecco i tratti principali del carattere di questa classe di gente!»7

Dunque il figlio del Vulcano è in sé propriamente questo (aldilà di ogni abbellimento ipocrita irresponsabile ed oleografico): – un Pulcinella con un coltello insanguinato. Insomma allegria e morte, questi sono i suoi principi.

E non a caso era con queste parole che il volgo cantava e ballava la blasfema e sanguinosa religiosità ignorante della sua sconcia fedeltà al suo altrettanto sconcio Signore: «Signò, mpennimme chi t’ha traduto/ prièvete, muonace e cavaliere! / Fatte cchiù ccà, fatte cchiù llà/ cauce nfacce alla Libertà!»8

Non vi sono forse qui tutte le (essenziali e qualitative) più rilevanti e lampanti conferme del fatto che il Napoletano è nell’anima un Figlio del Vulcano?

Un volgo, questo, come dice il Leone citando Herling, costretto tragicamente a vivere «continuamente tra il miracolo e il vulcano».9

Ed in questo esso non assomiglia forse in modo impressionante al paradigma stesso di un volgo ingovernabile e riottoso? Ad esso ci si può allora solo rivolgere con le parole che il d’Albany rivolge alla figlia di Lear, per avidità trasformatasi un mostro lascivo: «O creatura, la cui apparenza nasconde l’essenza  verace, la vergogna t’impedisca almeno di assumere i tratti di un mostro...»10

Ma di questo specifico civile e politico aspetto parleremo più avanti.

Dunque – prima di poter ritornare alla sequenza storica delle cronache (dalla quale qui abbiamo deviato per descrivere le forme emblematiche emerse nel corso dei fatti del 1799) –, una sola precisazione va ancora fatta a tale complessivo riguardo (cosa che poi vedremo meglio nelle prossime osservazioni).

Proprio in quanto essa è essenziale e qualitativa (e quindi stabile in quanto perenne), non si può in alcun modo pensare che l’identità partenopea sia intimamente legata con la sola condizione sociale. Sebbene gli eventi che ho descritto farebbero pensare proprio questo. Come ho già detto nei due articoli precedenti, essa è invece sostanzialmente indipendente da qualunque specifica circostanza. E quindi è indipendente anche dalla dimensione sociologica.

Si tratta così di una forma che impregna di sé totalmente il nostro modo di essere più spontaneo e quindi più invariabile. E questo lo dice con chiarezza anche il Croce, affermando che, sebbene il lazzaro sia identificabile con una determinata mansione lavorativa, e dunque con uno «status sociale, il lazzarismo non era una semplice condizione economica, ma un atteggiamento psicologico e una condizione morale che conferivano un carattere spiccato alla plebe napoletana, notato da tutti i visitatori forestieri». 11

Dunque, andando avanti nelle cronache storiche e di costume, ma restando comunque sul solco di quelle antecedenti al più recente oggi (incluso il 1799), le cose non potevano certo essere cambiate dopo che l’identità lazzara si era manifestata al meglio (cioè al peggio) nel corso della così favoleggiata rivolta di Masaniello. E così sempre Croce menziona le immagini invariabilmente negative (e precisamente in modo emblematico, e cioè essenziale) che si imponevano all’attenzione di osservatori non napoletani. De Fonteney, ambasciatore francese a Roma verso la metà del ‘600, descrive così i napoletani:«...gente gelosa, tiranna delle donne, infingarda, ignorante, superstiziosa, leguleia, litigante».12

Ebbene quello che qui viene descritto è esattamente quello che a Napoli tutti noi sperimentiamo in qualunque genere di riunione nella quale di tratti di discutere qualcosa per poter poi giungere ad un qualche consenso, e conseguentemente ad un’azione comune e solidale.

Il risultato invariabile di questo atto sarà infatti l’elevazione di una miriade di “distinguo”, “a mio avviso” e “non-mi-sta-bene”, che vanificherà in partenza qualunque possibilità di consenso.

Per noi parlare poi di scaltri sotterfugi e manovre, di accordi sottobanco e di ben occultate e concertate truffe. Ebbene, chi è il perdente per definizione in queste feroci tenzoni mascherate sotto rispettabili forme borghesi? È chiaramente il "non-infingardo", il "non-leguleio", il "non-litigante". Un’assoluta rarità a Napoli.

Ecco allora che de Fonteney non ha fatto altro che descrivere ciò che invece è il tipico ed invariabile Napoletano di sempre. Gran Lazzaro anche quando più convincentemente si presenta come borghese.   

E che dire infine di colui dal quale Croce13 desunse il motto stesso, che poi divenne il titolo del suo libro ed anche una delle più pregnanti e sintetiche raffigurazioni negative di Napoli e dei Napoletani? Cioè Daniele Omeis, professore ad Altdorf in Germania.

La dissertazione che egli tenne in quella università il 1707 ebbe infatti il seguente titolo Regnun Neapolitaum Paradisus est, sed a Diabolis habitatus.

Abbiamo oramai superato anche la soglia del XVIII secolo. Ma le cose sono restate esattamente le stesse dei tempi di Masaniello. E si badi bene, non c’erano ancora stati né un 1799 né la cosiddetta tanto sbandierrata “malaunità”sabauda.

Napoli, insomma, era Napoli e solo Napoli, ben prima che tutto ciò accadesse, e (come si usa dire) corrompesse per sempre il carattere dei suoi abitanti.

Quanto all’altra accusa, secondo la quale il carattere dei Napoletani sarebbe stato invece corrotto dai Vicerè spagnoli, contro di essa si è espresso con forza e chiarezza de Tejada, un intellettuale spagnolo che ha vissuto a Napoli negli anni ’60 (e che chissà poi perché non ha ritenuto opportuno prolungare questo suo soggiorno oltre certi limiti).

E cosa ebbe a dire egli del Napoletano medio? Questo: «Mi meravigliava la crassa ignoranza dei classici napoletani che dimostravano perfino i miei più dotti interlocutori. Appena si usciva dalla cerchia dei quattro scrittori consacrati, dei Cortese o dei Basile, calava una densa nebbia [...] Con un dolore lancinante, paragonabile solo al mio disprezzo, mi chiudevo nella mia solitudine, perché in Napoli non si poteva parlare di Napoli con nessuno [...] Per sette anni mi sono sentito a Napoli come una belva in gabbia, ma anche come un erede dello spirito della vera Napoli».14

E ciò che egli dice significa tra l’altro che, se si proprio si vuole sostenere la tesi nostalgica di una passata grandezza di Napoli, non bisogna di certo rifarsi ai Borboni, ma semmai bisogna risalire al Regno di Carlo V.

Ma allora Napoli era parte di un Impero mondiale. Dopo invece fu solo una città provinciale, per quanto fosse capitale di un regno.

Comunque, ancora una volta Tejada descriveva il Napoletano ad ampio raggio – dal lazzaro effettivo (storico-sociale), al più o meno facoltoso borghese, e fino a sussiegoso e nobile (cosiddetto) «signore», che egli senz’altro frequentava molto di più dei primi due.

Ebbene esattamente lo stesso fa Omeis nel 1707 parlando chiaramente del più demoniaco lazzaro «... o turpissima flagitorum genera! O execrandos pessimorum hominum animos!», ma nello stesso tempo anche di un non meno infernale misto di pezzente e signore «...i napoletani sono ambiziosi e cupidissimi di titoli e di onori, amantissimi delle liti, insolenti e vantatori nel parlare, e pieni di vanità, superbi, prepotenti, sospettosi e grandi giocatori, avidi di vendetta, gelosi, dediti all’ozio...».

Del resto affatto diversa è la descrizione di un tipico signore napoletano, il barone Tria, che ci è stata resa (sempre da Striano) per bocca di quella povera Eleonora Pimentel Fonseca, che fu la prima e sfortunatissima moglie di quest’uomo.

Più o meno nella stessa epoca poi nientedimeno che Giambattista Vico in persona15 ci racconta delle travagliatissime e tristissime vicende che gli toccarono nel convivere con i più quotati ambienti accademici napoletani dell’epoca, ossia circoli di pensatori addirittura di fama europea (giansenisti e gassendisti).

Evidentemente insomma lo spirito camorristico ha sempre impregnato questa città fino alle midolla. E si può forse dire che oggi sia diverso?

E chissà se il Vico non abbia avuto davanti proprio lo scenario napoletano quando ha scritto: «Il quale volgo tutto generalmente è diviso in due fazioni; delle quali altre invitano a l'alto dell'intelligenza e splendore di giustizia, altre allettano, incitano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi e compiacimenti di voglie natural».16

E che dire poi di quel povero e grandissimo Leopardi, che a Napoli, muovendosi con disperata ebbrezza tra i fasti barocchi della vitalità popolana, tra le paste ed i caffè di Piazza Dante, dovette sperimentare nella sua stessa carne il crudele scherno dei napoletani, nel sentirsi mormorare dietro l’ingiuria “’o rannavuottolo”.17

Anche Croce ne prende debitamente atto, facendo notare che la leopardiana dottrina del “pessimismo cosmico” a Napoli meno che in qualunque altro posto avrebbe potuto trovare davvero seri ed attenti ascoltatori.18

E come allora, se non così, egli poteva descrivere l'identità (rivelata dal tono degli interessi culturali) con la quale egli qui dovette confrontarsi: «né gentil cosa, né rara, né il bel sogno giammai, né l’infinito!?»

Ad uno come lui poteva dunque restare solo quel poco (ma anche moltissimo) che resta a tutti quei contemplatori che, più o meno a lungo, a Napoli trovano asilo, o addirittura vi trovano la terra natale: – contemplarne la struggente bellezza, e piangere a calde lacrime l’onta che ad essa ogni attimo viene arrecata!

Insomma, non vi può essere alcun dubbio – è assolutamente diretta, continua ed univoca la linea che unisce il così ripugnante e demoniaco lazzaro delle più antiche cronache napoletane al così poetico, patetico ed amabile, sempre scalzo, seminudo e bisunto, divoratore di spaghetti dei dagherrotipi novecenteschi, oppure al dionisiaco efebo “marenariello” così presente nella ritrattistica sempre di quell’epoca.

Il che conferma poi in pieno ciò che dice Croce (insieme a La Capria) dell’assoluta inconsistenza di quell’intera mitologia che vorrebbe vedere in Napoli addirittura una deliziosa “oasi” di sereni e meditativi ozi, proprio in quanto felicemente segregata dal flusso della storia e della politica; e così placidamente stagnante nella così tenace invariabilità che la caratterizza ed immersa inoltre nella perenne allegria sapientemente ironica della sua vuota “chiacchiera”.

Insomma l’invariabilità esiste innegabilmente, ma non certo in positivo.

Essa insomma non autorizza alcun vero riposo. Semmai invece suggerisce la necessità di una perenne ed attentissima veglia per essere davvero capaci di cogliere quell’imprevedibile momento nel quale cambia il vento, e così quello che sembrava poco prima un leggiadro e placido specchio d’acqua si trasforma in ciò che esso è e resta nel profondo, ossia un furioso Oceano. Non a caso Annamaria Ortese19 ebbe l’impressione di cogliere il vero spirito di Napoli quando si accorse che qui «non succede mai nulla». Eppure però tutto continuamente sembra minacciare l’imminente accadere di qualcosa di terribile.

Ebbene, solo se non ci si nega ai severi obblighi imposti da tale veglia, si coglierà (come non ha mancato di fare il Leone)20 un altro aspetto che costantemente si nasconde sotto l’amabilità del perenne ristagnare napoletano. Si coglierà insomma esattamente uno dei volti di quell’auto-referenzialità grondante di falsi miti che La Capria ha costantemente posto in luce; e cioè il morboso innamoramento partenopeo per le consuetudini, con tutto il conformismo cieco e violento che ne scaturisce.

Si coglierà insomma la nostra tendenza collettiva all’assoluta assenza di curiosità per qualunque possibile novità, e quindi l’addirittura religioso timore che collettivamente proviamo verso qualunque cosa non appaia benedetta dal sacro crisma dell’invariabile consuetudine.

Ed è esattamente questo che poi materia di sé la boriosa spocchia di quel Napoletano sublime e ricercato (solo illuso di non appartenere alla categoria del Gran Lazzaro), che per nulla al mondo scambierebbe con qualunque altra cosa l’orgoglio che prova nel vivere in quello che egli è convinto essere l’ombelico stesso del mondo – quella Napoli che si sente più Napoli che mai. Anche in questo l’anima napoletana non fa altro che vivere (pigramente e narcisisticamente) acciambellata intorno a sé stessa come un ridicolo gatto.

 

 

 

Note

1 Nino Leone, Vita quotidiana a Napoli ai tempi di Masaniello, Rizzoli, Milano 1995, I p. 49-61, IV p. 136.

2 Benedetto Croce, Un paradiso abitato da diavoli, Adelphi, Milano 2006, p. 83-114.

3 Croce (nota 2), p. 111-112.

4 Croce (nota 2), p. 96.

5 Croce (nota 2), p. 109.

6 Enzo Striano, Il resto di niente, Avagliano, Napoli 1986, p. 277.

7 Croce (nota 2), p. 89.

8 Benedetto Croce, Un paradiso... cit., p. 124-138.

9 Nino Leone, Vita... cit., VIII p. 244-248.

10 William Shakespeare, Re Lear, Rizzoli, Milano 1991, Atto IV, Scena II, p. 193.

11 Croce (nota 2), p. 105.

12 Benedetto Croce, Un paradiso... cit, p. 11-27.

13 Croce (nota 12), p. 18.

14 Francisco Elías de Tejada, La monarchia tradizionale, Controcorrente, Napoli 2001, II, 4-6 p. 54-67, VII, 1 p. 131-135.

15Giambattista Vico, Autobiografia, Paoline, Bari 1963.

16 Giordano Bruno, Gli eroici furori, Rizzoli, Milano 2006, Parte II, Dialogo I p. 262.

17 Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, SE, Milano 2005.

18 Benedetto Croce, Un paradiso... cit., p. Benedetto Croce, Un paradiso... cit., p. 139-152

19 Annamaria Ortese, Il mare non bagna Napoli, Adelphi, Milano 2014.

20 Nino Leone, Vita... cit., XI p. 301-313.

 

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