Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

Napoli 1799. Cap. IX - L’albero della Liberta’ (1)

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Il giorno dopo la nascita della Repubblica napoletana, nello spazio interno al Castel sant’Elmo, quale simbolo del nuovo regime, è innalzato un albero della libertà.

L’albero, sin dall’antichità, racchiude in sé segnali dal valore religioso, politico e morale. In Grecia, per esempio, si era soliti consacrare un albero ad ogni divinità ed ogni popolo dell’antichità assumeva la protezione di una specie arborea.

Presso alcune popolazioni americane si era soliti, invece, piantare un albero alla nascita di ogni bambino, come dote per il matrimonio. In molti paesi europei, poi, mettere a dimora un albero rappresentava un rito di omaggio alla primavera e/o alla donna amata.

Nel medioevo, infine, c’era l’abitudine di piantare grossi olmi davanti alle porte della città o davanti al Palazzo: abbattere questi alberi, nel corso delle guerre comunali, era simbolo di grave offesa. Ricco di molteplici significati, quindi, il rito della piantumazione diventa anche l’espressione di un concentrato di sentimenti, un luogo d’incontro, uno spazio di festa e - al tempo della rivoluzione americana - un punto fermo per affiggere informazioni,caricature o slogan. O, in molti casi, una sacra immagine patriottica contro gli Inglesi colonizzatori.

Proprio sulla scorta di questa vasta simbologia, sembra che il curato di S. Gaudens, una località nel dipartimento di Vienne, abbia piantato, pubblicamente, il primo albero nel 1790 e, per iniziativa popolare, sia diventato il simbolo rivoluzionario per antonomasia. Non a caso, nel solo mezzogiorno della Francia, in questo periodo, si contano ben sessantamila alberi della libertà!”

All’ombra di vecchie querce, un’ardente giovinezza dimenticò gradualmente la propria ferocia, ci si familiarizzò a poco a poco gli uni con gli altri; sforzandosi di farsi capire, si imparò a spiegarsi. Qui si fecero le prime feste; i piedi saltellavano di gioia, il gesto sollecito non bastava più, la voce l’accompagnava con toni appassionati, il piacere e il desiderio, confusi insieme, si facevano sentire a loro volta. Qui fu insomma la vera culla dei popoli”.

Nell’agosto del 1789, in Francia, la messa a dimora di un albero rappresenta l’esternazione della gioia per la convocazione degli Stati Generali; e non solo. L’albero diventa, infatti, anche invito alla sommossa e simbolo della distruzione dei privilegi nobiliari ed ecclesiastici; diventa, in altre parole, albero della rivoluzione ed emblema del nuovo ordine politico e sociale.

I primi alberi della libertà sono piantati senza radici. Successivamente sono estirpati e sostituiti da tronchi dalle radici solide. Le popolazioni libere prendono ad amare talmente l’albero della libertà che, nell’intento di farlo crescere sano e forte, pur riservandogli  ogni cura, utilizzano le ceneri dei più accesi repubblicani per rendere fertili i terreni che l’accolgono.

L’albero diventa,quindi, sempre più simbolo sacro, luogo di riunioni collettive e sostituto della croce. Non a caso, in tempi di reazione, si abbatteranno gli alberi e rinasceranno le croci!

Dalla Francia, perciò, l’albero della libertà si trasferisce facilmente alla vicina Italia e nel triennio rivoluzionario ne diventa il simbolo della riscossa. Non a caso i Napoletani dedicano a Championnet i versi di una canzone (La libertà – Canzone ditirambica al cittadino Generale Championnet Comandante in capo dell’Armata di Napoli) scritta dal cittadino Luigi Rossi: Viva l’albero innalzato/della nostra libertà: /sorgi, o pianta avventurosa;/ ergi il tronco, e i rami in alto,/ e disprezza il vano assalto/ di nemica crudeltà:/ tu raccogli all’ombra amena/ questo popolo rinato,/ che ha già l’albore innalzato/della propria libertà.

A Napoli gli alberi della libertà compaiono sin dal dicembre 1798, con l’avvicinarsi dei Francesi. Nei luoghi che ospitano la messa a dimora dell’albero si celebrano veri e propri riti e le autorità che vi prendono parte non perdono l'occasione per parlare contro i Borbone ed inculcare, nel contempo, sentimenti repubblicani. Ogni albero ha sulla cima il berretto frigio e sul tronco, con la bandiera repubblicana, varie ghirlande e fasce tricolori. L’albero è solitamente un pino o un pioppo, talvolta anche un olmo, una quercia o un cipresso. Spesso, nelle località costiere, l’albero, adornato di nastri e della bandiera repubblicana col berretto frigio, è quello di un bastimento in disarmo.

Il primo festeggiamento per l’innalzamento dell’albero della libertà, è organizzato dal priore del monastero di san Martino -il 23 gennaio- che ospita un banchetto di giacobini, riuniti dopo che è stato tirato su il simbolo della libertà nell’attiguo castello di sant’Elmo. A fine banchetto i giacobini napoletani ed un gruppo di certosini accennano anche passi di danza; “una orchestrina fatta di violoncello, di due trombe, di un clarinetto, di un corno e di un violoncello, accompagnò il ballo di due patrioti, in abito militare, con due dame, in abito direttorio, con lunghi nastri svolazzanti e pennacchi sulla fronte, con gran gusto al nuovo spettacolo di altri patrioti, d’ambo i sessi, e di un gruppo di certosini”.

La prima cerimonia pubblica, a Napoli, per l’innalzamento dell’albero della libertà si ha il 29 gennaio 1799, al largo di Palazzo, in piazza Nazionale, attuale piazza Plebiscito. Autorità civili, militari, religiose ed una gran folla si riuniscono attorno ad un grande pino ed inscenano una sontuosa festa. Non prima, però, di aver ascoltato l’orazione patriottica. “Cittadini napoletani; ecco dopo l’epoca di tanti secoli il giorno tanto sospirato e felice, in cui la bella Libertà, dal ciel spedita in Terra sul carro trionfale della Repubblica Francese, viene a tergere il pianto dalle nostre pupille; viene a sostenere i dritti della nostra umanità, e viene a consolarci di tutte le afflizioni, che tollerammo sotto l’orrido giogo dell’oppressa tirannia… Rammentatevi del tiranno che fuggì… sotto un suo cenno tremavano sette milioni di persone, quasi tutti languenti, oppressi e desolati. Il menomo de’suoi dispacci atterriva il più forte de’suoi sudditi pretesi. Egli consumava immensi tesori a caccie, a serragli, a gozzoviglie, a feste, e teatri in quel punto medesimo, in cui i suoi sudditi perivano dal terrore e dalla fame. Infaustissimo tiranno, che spogliò i suoi simili dei diritti sacrosanti, loro comportiti dalla natura, madre comune, vera regina, ed unica sovrana.

Rammentatevi della sua compagna iniqua consorte quando profondeva immense somme capricciosamente tra le ancelle della sua corte, tra i favoriti delle sue malnate passioni, tra i scortatori de’suoi impudici amori. Rammentatevi dell’empio visir dello scellerato Acton, che governando a sua balìa l’uno, e l’altra faceva ricadere sopra i poveri sudditi il doppio peso delle loro ingiustizie,prepotenze, oppressioni e tirannie; ministro indegno, che sviluppò l’iniqua coppia dei tiranni tra cento, e mille gherminelle, infauste sorgenti della loro meritata ruina.

Oh albero fortunato della libertà, che abbattuta la tirannia ritorni all’uomo oppresso i primevi dirittti, che per mano della Natura ne toccarono in forte tra vagiti della culla! Oh berretto emblema della Libertà, di cui gelosamente custodisci le prerogative, ed i fregi. Oh tricolorati vessilli geroglifico della nostra felicità tanto più durevole, quanto meno soggetta ai colpi della protesa tirannia!”.

La seconda cerimonia pubblica, come la prima presieduta da Championnet, si ha il 3 febbraio al Molo piccolo, lungo via Marittima, nei pressi della chiesa di S.Maria di Portosalvo. Seguono, poi, la cerimonia del 9 febbraio a largo Mercatello (attuale piazza Dante) ed al largo dell Spirito Santo, quella del 17 febbraio alla Conciaria ed in piazza Mercato, quelle del 24 febbraio a S.Lucia e del 10 marzo a Porta Capuana. Quindi è tutto un proliferare di alberi in città e in provincia.

Ogni messa a dimora di un albero della libertà segue un cerimoniale piuttosto unico; c’è l’orazione patriottica e ci sono musiche e danze. Spesso l’albero della libertà si trasforma in albero della cuccagna ed ai suoi piedi, alla distribuzione di coccarde, si alternano doni in monete e cibarie.Tra il tripuidio della popolazione.

Sotto l’albero della libertà, tra danze e balli, si celebra anche il rito del matrimonio. Gli sposi, assistiti da due testimoni, cantando la “Marsigliese”, si giurano reciproca fedeltà pronunciando la formula “albero mio fiorito,/tu sei moglie e io marito./Albero mio fiorito,/io sono moglie e tu marito”.[1]

Il matrimonio per esser valido necessita che gli sposi recitino contemporaneamente i versi e girino tre volte intorno all’albero. Sotto l’albero della libertà si celebrano, quindi, funzioni che si era soliti celebrare in chiesa e si fanno giuramenti di grande valore politico. Molti, poi, per eccesso di patriottismo, ritengono di dover celebrare sotto l’albero un nuovo battesimo. E siccome i nomi più ricorrenti, oltre quello di Gennaro, sono Ferdinando e Carolina, parecchi giacobini e giacobinesse si ribattezzano, ricusano i nomi dei due tiranni, prendono i nomi degli eroi classici come Cassio, Bruto, Porzia o Cornelia.

A difesa dell’albero della libertà, per preservarlo da ogni possibile rischio d’abbattimento, la guardia civica è chiamata a sostenere un continuo servizio di vigilanza.

Successivamente, con la caduta della repubblica napoletana entra in vigore il divieto di fare riferimento all’albero della libertà.Ogni albero è sostituito dalla croce; le truppe del cardinale Ruffo si accaniscono maggiormente contro i giacobini che porterebbero, secondo una leggenda, l’albero della libertà tatuato sulla pelle. Il re Borbone, quando riprende in mano le sorti della città di Napoli, riconosce lo stato di sradicatore di alberi, un titolo di merito per accedere ad uffici e ricompense;riconosce, inoltre, una particolare benemerenza l’essersi battuto per “non aver permesso di innalzarlo”.

Giovedì 20 giugno 1799,Carlo De Nicola annota: “La giornata è terminata tranquilla com’era cominciata;anzi non vi sono questa sera neanco i fuochi coi posti di guardia; i soli lumi ai balconi si veggono, e per le strade si sente molta allegtria, andandosi cantando una canzone realista sul suono della Carmagnola:

Albero senza radice

Coppola senza testa

Fernando cor regio

Regno di  Napoli repubblica non resta.

Già il Re innocente

Lo aiuta Dio, e non gli fanno niente.

Grana quattro e tornesi otto.

Ferdinando è vivo e non è morto,

grana venti e tornesi quaranta,

alla venuta mia sarà lo pianto.

Son venuti gli Inglesi

Per ammazzare i Francesi.

Napoli è brava gente

Combattete allegramente;

dentro la Francia dobbiam entrare.

 



 

[1] Varianti della formula sono:Questo è l’albero colle foglie questa qui è la mia moglie. Questo è l’albero fiorito, questo qua è mio marito. All’ombra di quest’albero fiorito/tu sei moglie e io ti sono marito. All’ombra di quest’albero fiorito/io ti sono moglie e tu mi sei marito”.

 

 

 

 

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