Un cittadino onorario di Napoli nelle mani del boia: Mohamed Ould M’ Kheitir
Mentre giace, svenuto, nell’aula di un tribunale a cui è stato sufficiente poco più di un giorno per condannarlo a morte, i suoi connazionali accolgono la stessa notizia al suono di clacson e grida festanti. Due reazioni opposte: l’una indotta dal naturale terrore che coglie l’uomo dinanzi la propria morte; l’altra giustificata dalla soddisfazione di aver raggiunto un obiettivo per il quale si è a lungo combattuto. Questa scena, degna della peggiore pantomima, è accaduta il 24 dicembre 2014 a Nouadhibou, una città della Mauritania dove esattamente un anno prima, il 23 dicembre 2013, Mohamed Ould M’Kheitir, un giovane ingegnere di 29 anni, era stato tradotto in carcere con l’accusa di essersi reso colpevole del reato di apostasia per aver pubblicato su Facebook un duro attacco contro le gravissime ingiustizie perpetrate dalla società mauritana nei confronti dei fabbri, approfittando di “un ordine sociale iniquo” ereditato “dai tempi del Profeta”. E’ il primo caso di pena capitale che lo Stato della Mauritania si trovi a dover infliggere per questa fattispecie di reato, ed è doveroso rivolgersi alla storia di questa nazione dell’Africa nord-occidentale per comprendere i motivi che hanno determinato la condanna a morte di un giovane uomo che ha semplicemente difeso il diritto all’uguaglianza ed alla dignità umana. Dopo diversi secoli trascorsi sotto il dominio di diverse potenze europee, nel 1920 la Mauritania entra a far parte dell’Africa Occidentale Francese, da cui riesce ad ottenere l’indipendenza nel 1960 grazie all’azione delle forze riformiste che animano la vita politica del Paese: queste stesse forze si fanno promotrici della promulgazione di una nuova costituzione che, nel 1991, dà vita ad una “ Repubblica islamica, araba e africana” formalmente aperta al multiculturalismo ed alla collaborazione democratica. La realtà dei fatti dimostra tuttavia l’opposto. Una volta indipendente, la vita politica di questo Paese non è mai riuscita a svilupparsi in un verso realmente democratico a causa dell’esistenza di un potere militare sempre pronto ad intervenire con la forza delle armi nella conduzione dello Stato, e, soprattutto, per la persistenza della suddivisione della società in tre etnie: la berbera, l’araba e la nera. Sempre in lotta tra di esse, questa tripartizione vede le prime due etnie responsabili del mantenimento, a danno della etnia nera, di quel fenomeno che da millenni disonora il genere umano: la schiavitù. Abolita formalmente nel 1981 e dichiarata come reato con una legge del 2007, la schiavitù non ha mai cessato di esistere. Immense bidonvilles costruite tra il fango ed i rifiuti nelle periferie delle grandi città sono i luoghi in cui migliaia di diseredati vivono in uno stato di miserevole promiscuità, privi addirittura del riconoscimento dello “status” di soggetto giuridico. Contrarre matrimonio, disporre liberamente dei propri beni non è concepibile per un essere umano che è considerato uno schiavo fin da quando si trova nel ventre di sua madre. Solo la morte può concedere la libertà, perché anche in caso d’impoverimento del padrone tutti gli schiavi, indicati col termine di “aratine”, sono obbligati, senza percepire il minimo compenso, a continuare a fornire le proprie prestazioni lavorative nei campi, nei lavori domestici. E nei letti del padrone. Da qualche tempo le caste degli ultimi hanno iniziato a ribellarsi e a combattere per il riconoscimento dei diritti fondamentali, attirando a sé l’odio delle classi dirigenti berbero-arabe, ma accendendo anche il risentimento di quegli schiavi che, indottrinati da figure religiose conniventi, ritengono la loro condizione frutto di una volontà divina che, un giorno, concederà loro il paradiso. Il processo che è stato istruito contro Mohamend Ould M’Kheitir appare così nel suo vero significato: un tentativo di utilizzare lo strumento della repressione penale per annullare l’efficacia delle rivendicazioni sociali. E ad ulteriore dimostrazione della natura politica di questa condanna a morte, basti dire che ,per il reato di apostasia, la legge mauritana contempla la possibilità del perdono giudiziale qualora l’accusato ritratti e manifesti il proprio pentimento: una previsione legislativa utilizzata da Mohamed sia prima che durante il processo, ma che purtroppo non ha condotto ad alcun risultato perché, a giudizio della corte, si è trattato di un pentimento insincero. Il pubblico ministero e ben sette avvocati di parte civili hanno ottenuto con estrema faciltà questa condanna a morte, contro cui nulla hanno potuto i due avvocati d’ufficio che hanno assunto la difesa di Mohamed dopo che il primo e noto avvocato scelto da Mohamed aveva abbandonato il suo incrico per paura di ritorsioni. Dal 3 luglio di quest’anno Mohamed è cittadino onorario della città di Napoli, ed il dato d’importanza fondamentale risiede nella raccolta fondi organizzata su buonacausa.org da un’equipe di avvocati guidati dall’ex-magistrato napoletano Nicola Quatrano, per permettere a Mohamed di godere del diritto ad un giusto processo e di ottenere finalmente l’annullamento della sentenza della condanna a morte. La vita di questo giovane ingegnere che ha sfidato odio e pregiudizio, e quelle di tutti gli schiavi che combattono per la loro libertà è anche nelle nostre mani.
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