Eleonora de Fonseca Pimentel, ricordandoti

E se la fotografia allungasse la vita?

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Murales a Castrovillari; scatto di Alessia e Michela Orlando, progetto AMO.Nulla, c’è nulla di nuovo sotto il sole. Eppure la luce, così come Non è possibile scendere due volte nello stesso fiume né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato. La vita è un fanciullo che gioca, che sposta i pezzi della scacchiera. Tutto scorre e nulla permane. Il Sole è giovane ogni giorno (Eraclito,Sulla natura, frammenti), non riesce mai a ritornare sui suoi passi.

Ciò che ha sfiorato un attimo fa, non lo ritroverà mai più identico. Le ombre, il buio, sembrerebbero avere miglior sorte.

Nella loro funzione essenziale c’è e deve esserci la capacità di assorbire i colori, forse decretare la morte di ciò che un attimo prima appariva vitale o più vitale. È il declino della leggibilità di ciò che l’occhio umano vede.

Quando le tenebre abbracciano il panorama che si offre allo sguardo, il cervello deduce che nulla più esista.

È solo morte apparente dell’universo che ci circonda. Basta un flash, una tecnologia appropriata, ottiche adeguate, il chiarore della luna e delle stelle, un fiammifero sfregato o una candela accesa, aspettare le prime luci dell’alba, e si capirà che era morte apparente.

L’indomani, anche per le ombre, si profilerà l’impossibilità di nascondere le stesse suggestioni. Nulla più sarà come prima.

Tutto ciò non ha nulla di filosofico. È solo ciò che si definisce come semplice realtà quotidiana ed è vero per tutti, anche quando non se ne abbia consapevolezza.

Tutto ruota attorno al Tempo, all’alternarsi delle stagioni, allo stesso moto terrestre, e forse anche al nostro modo di vedere il silenzio.

Ci pare mostruosa la sua capacità di inglobare i rumori, così come mostruosa è l’ombra che fagocita il tutto. Tutto! nella globalità ci sono mille particolari, mille prospettive e ogni essere umano ne coglie solo una parte. Pertanto anche qui, in queste righe, non si fa altro che individuare alcuni aspetti.

Altri emergeranno nella mente del lettore e non saranno certo secondari. È qui, in questo momento, quando chi legge si accorge della parzialità dell’analisi che integra la pagina scritta.

Per questo chi scrive deve aspettare di essere letto, affinché le sue parole abbiano sensi e non solo senso. Non c’è paura, non si ha timore di quant’altro il lettore aggiungerà.

Eppure c’è del drammatico in queste righe. C’è un allarme. Si vuole segnalare il pericolo della cecità, dell’incapacità di vedere e spingersi verso l’osservare. È richiesto un antidoto alla paura che permea queste parole. L’antidoto/cura è la fotografia.

Chi si è formato amando quel pezzo di carta fotosensibile sa quanti sensi, quanta nostalgia, quanta rabbia, quanto dolore, quanta bellezza estetica o bruttezza, quante storie possano essere fermati e raccontate, per sempre, con un solo click.

Già in questo primo gesto emergono le prevedibili divisioni. Abbiamo visto gente emozionarsi ammirando una fotografia lucida. Noi no, noi abbiamo amato la grana, la carta matta.

C’è stato chi si è mantenuto equidistante: dipende dal soggetto … I gusti son gusti.

C’è tantissimo altro ancora che andrebbe segnalato per sottolineare la miriade di ipotesi che si possono avanzare su ogni aspetto del tema fotografia.

Un altro tema: Quanti sono gli scatti, i momenti di vita fermati da milioni di appassionati e non, conservati in un cassetto?

Nessuno saprà mai dirlo. Quante sono le persone ritratte che non potranno più essere fotografate?

Nessuno saprà mai dirlo. Si può, però, dire con certezza che la decisione di fotografare è stata utile. Le foto conservate in un cassetto: sono come il classico capolavoro letterario che non vedrà mai la luce.

Occorre ridare vita a quei momenti ritratti, così come occorre pubblicare ciò che si scrive, caso mai migliorandolo, sottoponendolo a editing professionale.

La fotografia, dunque, così come si può migliorare una frase, può essere sottoposta a un intervento successivo: la post produzione. Si può fare anche con le fotografie antiche, quelle casalinghe del boom economico e così via. Basta uno scanner, un programma per ripulirle, contrastarle, saturarle, de – saturarle e così via.

Si potranno, a quel punto, pubblicare in un libro, in un eBook, spedirle a un concorso.

Unica regola morale irrinunciabile: mai appropriarsi di foto scattate da altri. E se dovesse capitare per errore? Verificare. Ammetterlo subito. Riparare al danno.

Può bastare chiedere scusa, di solito. Qualora si tratti di scatti ereditati? Sufficiente segnalarlo, assumendosi, caso mai, la responsabilità e i meriti, o demeriti (capita di inguaiare, di peggiorare scatti che erano pregevoli …) della post produzione. Sin qui siamo stati nel passato, nell’epoca d’oro della fotografia.

Dovevi sapere come trattare una pellicola: costi notevoli. Dovevi scattare applicando ogni volta regole stringenti: poco spazio alla creatività improvvisata e alla sperimentazione, sempre per ridurre i costi.

Giungeva il momento dello sviluppo: attenzione al massimo possibile. Mai aprire la macchina fotografica senza aver riavvolto il negativo, mai farlo alla luce, mai dimenticarsi un negativo nella macchina … Camera oscura: altri costi.

Carta fotosensibile di qualità scadente? No! Quale scegliere?

I gusti son gusti … Anzi, i gusti erano gusti. Un problema: Usare o no la pinzetta per muovere il positivo nella bacinella con gli acidi di sviluppo e fissaggio? Noi, scriteriate, l’ebbrezza del farlo con le dita la provammo, a Bologna. Sapevamo di uno zio che così faceva, in provincia di Salerno, nella meravigliosa Lucania, a Montesano Sulla Marcellana.

Lui poteva permetterselo: aveva fretta, facendo il fotografo professionista, e fumava quattro pacchetti di sigarette al giorno. Non temeva le macchie alle falangi. Erano già nere-rosse-gialle, tonalità bruciate, e di chissà quale altro colore.

Noi non potevamo permettercelo, facendo altro nella vita, ma volevamo trasgredire. Fu molto bello.

Lo rifaremmo, anche perché alcuni scatti li peggiorammo con la pinzetta: trattenuta troppo tempo ferma, macchie sull’immagine …

Con le dita il pericolo non c’era, sapendo che si sarebbero macchiate loro, occorreva muoverle velocemente, prima di fare la fine dello zio Vincenzo, che poi non era neppure uno zio, bensì il marito della zia di papà, che forse non era neppure sua zia, giacché il nonno emigrò e la nonna conobbe un artista con cui fece altri due figli …

Un bisticcio. Adesso non sarebbe un problema: camera oscura? Solo se proprio la vuoi sperimentare. Macchine fotografiche digitali a go go! Non sono certo una sciagura.

Tutto più facile, sperimentazione possibile, costi abbattuti … ma vuoi mettere le dita negli acidi di sviluppo? Quasi come metterle nella marmellata, nottetempo, ma guai a leccarsele, dopo.

Troppo bello. Bello da morire, forse, visto che lo zio Vincenzo, lo zio/non zio, un po’ come la luce nel B/W,  non c’è più. C’è chi dice che fu per colpa delle sigarette.

Beh, così va, è sempre un peccato quando qualcuno muore. Lo zio Vincenzo: aveva speso ottantasei anni con la fotografia. Aveva iniziato a quattro anni, a New York. Vuoi vedere che sia morto per altre cause? Vuoi vedere che la fotografia allunga la vita? Di certo allunga la luce del ricordo.

Se prendi una fotografia in mano, se apri un file con uno scatto che ti piace, tuo o non tuo, può sempre farti impazzire per molteplici ragioni, nei pensieri finiscono per affacciarsi i fatti.

Se vedi una coppia, lei indossa il vestito da sposa, dovrai solo chiederti se siano nonni di qualcuno; metterli a fuoco; ti ritorneranno integralmente alla mente le situazioni che vedesti o che solo ti raccontarono. Sai che non c’è nulla di scientifico in quei ricordi.

Tu guardi, attento, ma devi sapere che la tua mente ha rielaborato quelle vicende. Ricorda, forse, anche fatti mai accaduti o altri li ha cancellati. Così fa, il cervello: si resetta, ogni notte.

Può accettare la dolcissima violenza della fotografia? Sì, si può. Lo diceva pure Nino Manfredi, salvo errore: I pizzichi d’amore non fanno male … Non fu certo il primo. Anche De Sade lo insegnava e un po’ di sadismo c’è nel rivedere le persone che non ci sono più, nel rivedersi bambini, giovani, vivi. Mettere in conto che tu ti guardi e non sei più tu.

È la trasfigurazione che ti si para davanti e non puoi amarla giacché ti peggiora. E allora torna utile solo sapere che c’è un problema di percezione. Non esiste la realtà. Non esiste l’immobilità.

La stessa vita nasce grazie al moto, come ebbe a segnalare Leonardo Da Vinci. E come mai la fotografia, esempio di staticità incontrastabile, genera tempeste e rimette in moto la vita interiore, i ricordi?

Accade per quello che stava accadendo un attimo prima dello scatto, per la situazione, per le presenze animali e umane, per la flora, per il cielo, per il mare, per la luce, per le ombre che già allora partecipavano al gioco della trasfigurazione.

Già allora quello che si vedeva non era vero, era diverso, era anche altro e, per giunta, l’obiettivo “vedeva”, come “vede” adesso, ben altro. Da questo punto di vista, se la fotografia è la sintesi di un attimo, non c’è il prevalere di un attimo su un altro. Un solo istante di vita è segmento dell’assieme e tutti i segmenti non è possibile ritrarli.

Ciò avalla l’idea che anche i ricordi siano mobili, in formazione, giacché ora ti ricordi di una cosa, ora di un’altra, sai che altro potrai ricordarlo in seguito, che all’improvviso qualcuno tirerà fuori la fotografia che ti sbugiarderà. Hai detto che c’eri? Ma dove?

Come mai in quel gruppo non appari? Vai in crisi, poi ti ricordi che eri tu a scattare. Hai detto che non c’eri? Che eri altrove? Bam! Dito puntato: 

Eccoti, sei qui! Fedifrago. Che ci facevi con quella bionda un po’ topona che ti sta ancora accanto, qui, e ti accarezza le labbra con un dito, mentre si lecca le sue? Sarebbe forse meglio non amare le fotografie e gli album, se poi devi prenderti le manganellate da chi è stato chiaramente tradito.

Eppure no, eppure nessuno mai dirà peste e corna della fotografia e delle fotografie. Cosa dire, poi, ed è collegato alla foto come prova dell’accaduto, degli scatti documentali? C’è sempre il tentativo di cogliere ed estrapolare l’esemplare dalla miriade, dall’insieme.

Lo si fa per attribuire significato, per analizzare parallelismi, per scendere sempre più profondamente in temi irrinunciabili. Lo fanno gli artisti, ma lo fanno anche i critici.

Ci vuole coraggio e voglia di spendersi: non manca né ai primi né agli altri. Con la fotografia si documentano anche gli sforzi, eppure la riproduzione fotografica, in fondo in fondo, torna a risucchiare l’esempio, lo scatto, confondendolo con il velo iconico che tutto rende indistinto. Un rischio malsano? No. Tutto va bene se a ogni azione corrisponde una passione.

E la reazione? Non è sempre importante.

Può capitare di proporre a un concorso uno scatto che è significativo per te, non per chi deve selezionare e valutare. E allora? E allora nulla. Scrollata di spalle e vai avanti.

MicaSan Gennaro quando fu depennato dal calendario reagì. I napoletani lo fecero: si indignarono; avrebbero messo a ferro a fuoco la città, se non ci fosse stata l’atavica bonomia. D’altronde, non ci fu chi scrisse su un muro, e una fotografia lo documenta, San Gennà, futtatenne?


Fotografia documentaria: tutto sommato, di questo si tratta anche nel tema mensile di un concorso indetto da Sony-Sole 24 Ore-Panorama, Fotofocus. Occorre fotografare graffiti e murales.

Tema delicato per le implicazioni artistiche, etico-politiche e anche umane. Della divisione emergente tra l’opinione pubblica nel valutare le azioni che preludono agli Urban Graffiti dà conto, sin dalla presentazione, l’organizzazione del concorso.


Considerati da alcuni atti di vandalismo e da altri una delle forme d’arte più rappresentative della nostra epoca, da sempre i graffiti spaccano in due l’opinione pubblica. Il graffitismo, così come lo conosciamo noi oggi, nasce negli Stati Uniti negli anni ’70 come espressione della cultura Hip-Hop dei ghetti newyorkesi fino a diventare un fenomeno globale, con linguaggi e codici propri.


La produzione di molti fotografi e appassionati sta documentando la qualità di graffiti e murales. Purtroppo molti non si possono più vedere se non in fotografia, ormai cancellati dal tempo, dalla natura, dall’uomo.

Ciò sta dando modo di esplodere anche alla voglia di aggiungere del proprio, di declinare l’immagine realizzata da artisti e non, con l’aggiunta del lievito della creatività fotografica. Tra gli ultimi scatti pubblicati segnaliamo quello di SixLaNeve, al secolo Roberto Peiretti, Torino. Mostra una stazione metro. Colori prevalenti Bianco/Nero.

Lievi sfumature di legno usurato, macchiato, grigi. Molto bello. Descrive il “groviglio” di un disegno che richiama le rotaie. Corre parallelo ai binari.

Spiccano, come elementi di rottura, altamente scenografici, le assi di legno tra i binari e la struttura della pensilina. La luce che ne confonde i margini a destra (sempre struttura della pensilina) assume l’incarico di rendere emergente il margine alto del supporto su cui il graffito è stato realizzato.

Lo stesso “groviglio” ha una struttura affascinante e dal suo avanzare si deduce un senso metaforico: almeno l’origine dovrebbe essere certa e la linearità sembrerebbe raccontare una normalità inquadrata, condivisa. Poi tutto si complica.

L’apparente disordine è vinto dall’armonia delle linee curve.

Nascono sensazioni, forse discorsi esoterici. Forse è l’inizio della formazione dell’Otto Infinito. Forse è l’inizio di un ordine superiore, sul piano etico, ed emancipato. C’è molto altro in questo scatto fotografico, c’è molto altro in tante altre fotografie e occorre aprirsi al mistero che ti fa dire:

Questa foto mi piace, questa no. Occorre avvicinarsi sempre, a qualsiasi immagine, con la curiosità e la voglia di porsi domande, quasi si fosse certi della essenzialità della risposta. Un po’ come feceErodoto (Erodoto, Storie, II.19):

Ero desideroso sapere da loro (dai sacerdoti) perché mai il Nilo scende, tutto gonfio, per cento giorni a cominciare dal solstizio d’estate: Raggiunto poi questo numero di giorni, si ritira indietro, abbassando il livello della corrente di modo che dura tutto l’inverno povero d’acqua, fino al ritorno del solstizio d’estate.

Su questo argomento, dunque, non potei saper nulla da nessuno degli egiziani, quando chiedevo loro quale forza mai avesse il Nilo per essere di natura contraria a quella degli altri fiumi.

 

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